Nome dominio internet che riproduce un marchio registrato

in Giuricivile, 2020, 3 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. I civ., sent. 21/02/2020 n. 4721

Sommario: 1. Massima – 2. Il caso – 3. Domain name come marchio d’impresa – 4. La mala fede del richiedente nella domanda di registrazione del marchio.

1. Massima

La registrazione di un domain name che riproduca o contenga il marchio altrui costituisce una contraffazione del marchio poiché permette di ricollegare l’attività a quella del titolare del marchio, sfruttando la notorietà del segno e traendone, quindi, un indebito vantaggio. Ne consegue che solo il titolare di un marchio registrato potrebbe legittimamente usarlo sul proprio sito o come nome di dominio.

2. Il caso in esame

Con la sentenza del 31.5.2012, la Sezione Specializzata per la materia industriale ed intellettuale del Tribunale di Milano, accoglieva parzialmente la domanda di risarcimento, inibitoria e contestuale pubblicazione della sentenza di condanna proposta dalla casa editrice Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. avverso la Sig.ra G.S.

La casa editrice convocava a giudizio la convenuta per aver registrato e utilizzato il proprio nome a dominio, ossia grazia.net, in violazione dei diritti di esclusiva relativi al marchio e alla nota testata giornalistica Grazia.

Il Tribunale milanese, nel pronunciare la sentenza di condanna, affermava che fosse applicabile, seppur parzialmente, il cd. principio di convalidazione ex art. 28 del d.lgs. n.30/2005, identificato oggi nel Codice della Proprietà industriale, e, contestualmente, suddivideva la condotta della convenuta in due momenti distinti, ovvero quello tenuto fino alla prima scadenza (ossia il 26.03.2009) e la fase successiva al mancato rinnovo del nome a dominio.

La Sig.ra S. però proponeva appello entro i termini, al quale seguiva l’appello incidentale del titolare del domain name, con il quale veniva richiesto di accertare che il marchio non avesse mai ottenuto quella capacità distintiva a causa dell’elemento soggettivo della Sig.ra S., ovvero la malafede, la quale aveva registrato il marchio pur essendo consapevole di violare il diritto anteriore della società appellata.

Così, con sentenza del 10.12.2015 la Corte d’Appello di Milano rigettava l’appello principale e accoglieva parzialmente l’appello incidentale della casa editrice e contestualmente riformava la sentenza di primo grado con cui accertava e dichiarava che il marchio riconducibile alla proprietà della Sig.ra G.S. non era mai stato convalidato e per l’effetto ne dichiarava l’illegittimità del marchio, del nome a dominio e della testata ordinandone il trasferimento entro 30 giorni al legittimo proprietario.

Nella sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano si leggeva infatti che il marchio oggetto di controversia generava confusione in virtù del principio di unitarietà dei segni distintivi, ex art. 22 CPI, determinando il rischio che il marchio fosse associato al sito della convenuta, nonostante si trattasse di due cose completamente distinte.

Inoltre, la Corte d’Appello territoriale aveva accolto parzialmente l’appello incidentale della AME S.p.A., osservava infatti che le Sig.ra S avesse registrato e utilizzato in mala fede il segno distintivo con l’illecito intento di procacciarsi clienti consapevole che il risultato proveniente dal marchio “mega-tag” rendesse la sua pagina web tra i primi risultati dei motori di ricerca e che, contestualmente, rendesse più appetibile per i clienti la possibilità di visionare un sito che potesse rievocare i medesimi elementi propri del vero nome a dominio registrato dalla casa editrice.

In ultima battuta, la Sig.ra S.G. ricorreva in cassazione con un unico motivo illustrato con memoria, seguiva il controricorso della resistente Arnoldo Mondadori S.p.A.

La Corte di Cassazione riteneva che con il motivo presentato dalla Sig.ra S.G. veniva denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 28 CPI, con il quale veniva censurato il contenuto dell’appello incidentale proposto dalla casa editrice in quanto la Corte di Appello milanese, posta la malafede della registrazione del marchio ad opera della ricorrente, aveva valorizzato uno soltanto dei caratteri distintivi del marchio: la notorietà.

Contestualmente, per quanto si leggeva sulla memoria della parte ricorrente, non vi era alcuna rilevanza in relazione alla convalida del marchio posteriore che, in base all’art. 6 bis della Convenzione di Unione a Parigi, deve considerarsi estesa anche alla ipotesi di marchio munito di rinomanza nell’Unione Europea e ad i machi notori.

In via preliminare la Suprema Corte di Cassazione disattendeva l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse: non si poteva sostenere che la sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano potesse essere sorretta da tre rationes differenti, ovvero i tre motivi erano tra di loro complementari e andavano a sorreggere l’iter logico seguito dalla Corte di Appello.

La ricorrente sosteneva, inoltre, che la Corte milanese avesse escluso la convalida del proprio marchio in quanto riteneva sussistente ab origine la mala fede della signora, criticandone poi la valutazione degli elementi di fatto.

Tuttavia, la Corte territoriale riteneva inapplicabile l’art. 28 CPI mediante una motivazione esaustiva a cui venivano allegati una serie di fatti non suscettibili di censura ad opera della Corte di Cassazione.

La Suprema Corte di Cassazione osservava che la registrazione di un domain name che contiene e/o riproduce il marchio altrui integra la fattispecie di contraffazione del marchio, in quanto fa sì che le attività svolte dai due soggetti possano essere tra loro ricollegate.

Solo il titolare del marchio registrato può usarlo sul proprio sito o come nome a dominio.

Per ciò che concerne il periodo antecedente all’entrata in vigore del codice della proprietà industriale, contestabile era un unico principio di legittimità sui segni atipici secondo cui “nel periodo anteriore all’entrata in vigore del codice della proprietà industriale anche ai nomi a dominio deve applicarsi, sebbene si tratti di segni distintivi atipici, il R.D. 21 giugno 1942, n. 929, essendo essi strumenti attraverso cui accedere, nell’ambito di internet, ad un vasto mercato commerciale di dimensioni globali che consentono di identificare il titolare del sito web ed i prodotti e servizi offerti al pubblico, onde tali nomi rivestono una vera e propria capacità distintiva, in quanto, secondo la attuale concezione sulla natura e sulla funzione del marchio, non si limitino ad indicare la provenienza del prodotto o del servizio, ma svolgano una funzione pubblicitaria e suggestiva che ha la finalità di attrarre il consumatore, inducendolo all’acquisto”.

Nel caso di specie è indiscussa la “forza” del marchio registrato dalla casa editrici, pertanto la stessa è tutelata maggiormente dalla normativa ed ha una maggiore incisività che rende illegittima qualsivoglia variazione anche originale che lascerebbe intatto il nucleo ideologico che riassuma l’attitudine individualizzante del segno, per tali ragioni anche lievi modificazioni che il marchio debole è tenuto a tollerare condurrebbe al mero pregiudizio conseguibile con l’uso del marchio in discussione.

In conclusione, indubbio era che l’uso del marchio avesse comportato un agganciamento al marchio rinomato e distintivo “Grazia”, presente come testata editoriale sin dal 1940, non meritava peraltro censura la decisione del giudice di merito in merito alla sussistenza della mala fede – elemento impeditivo della convalidazione del domain name – all’atto di registrazione del marchio.

La Suprema Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità e spese generali.

3. Domain name come marchio di impresa

Ogni qualvolta un’azienda o una società sia intenzionata a competere sul mercato internazionale o comunque è intenzionata ad operare sul web, la stessa per tutelarsi è tenuta a registrare il proprio marchio e/o il proprio domain name.

La prima fonte sovranazionale volta alla tutela della proprietà industriale è la Convenzione dell’Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale firmata a Parigi nel 1883. La Convenzione fu adottata in 176 Paesi.

L’art. 6 septies della Convenzione sull’Unione di Parigi dispone: 

“1. Se l’agente o il rappresentante del titolare di un marchio in uno dei Paesi dell’Unione domanda, senza esserne autorizzato, la registrazione a suo nome di tale marchio, in uno o più di suddetti Paesi, il titolare avrà diritto di opporsi alla registrazione richiesta o di domandarne la cancellazione o se la legge del suo Paese lo permette, il trasferimento a suo favore di detta registrazione, a meno che l’agente o il rappresentante non giustifichi il proprio operato.
2. Il titolare di un marchio avrà, con le riserve di cui al precedente alinea 1, il
 diritto di opporsi all’utilizzazione del suo marchio da parte del proprio agente o rappresentante, se egli non abbia autorizzato tale utilizzazione. 
3. Le legislazioni nazionali possono prevedere un equo termine entro il quale il titolare di un marchio dovrà far valere i diritti previsti nel presente articolo”.

Con tale norma è possibile prevenire i comportamenti scorretti, la concorrenza sleale ed il pericolo di contraffazione.

Ciò nonostante, la norma non viene interpretata uniformemente all’interno dei 176 Paesi dell’Unione:

in Italia, ad esempio, sembrerebbe applicabile solo ai rapporti di agenzia;

mentre negli altri Paesi dell’Unione sembrava estendersi al distributore.

Altra fonte sovranazionale è il Regolamento CE 2009/207/CE, il quale decreta la tutela del marchio comunitaria e fa sì che il titolare del diritto sul marchio possa chiedere la nullità del marchio comunitario non registrato da persone a lui legate da un rapporto di intuitu personae, tuttavia l’art. 11 Reg. CE 2009/207/CE afferma che se non sussiste l’autorizzazione del titolare del marchio ad opporti all’uso del marchio da parte di terzi.

L’esigenza di dover registrare il proprio nome a dominio come marchio di impresa diventò attuale dopo la velocissima espansione di internet del 1998. Nonostante l’Italia non disponesse di un vero e proprio corpus legislativo volto alla tutela del nome a dominio, vigeva uno dei principi cardini del nostro sistema al fine di tutelare la registrazione del nuovo marchio di impresa, ovvero il prior in tempore, potior in iure.

In Italia, la prima azienda a registrare il proprio nome a dominio fu quella di Giorgio Armani – www.armani.it- al fine di evitare confusione con Luca Armani che al tempo aveva una piccola bottega e utilizzava lo stesso nome a dominio per pubblicizzare la propria merce.

Il caso venne sottoposto all’attenzione del giudice di Bergamo che non accolse la richiesta di risarcimento da parte della piccola bottega di Luca Armani, ma affidò il nome a dominio alla società di moda, giustificandosi così: al conflitto tra domain name e marchio debbono applicarsi le norme che disciplinano i conflitti tra segni distintivi; ne deriva altresì che il titolare del marchio può opporsi all’adozione di un nome a dominio uguale o simile al proprio segno distintivo se, a causa dell’identità o affinità fra prodotti e servizi, possa crearsi un rischio di confusione”.

Dopo la vicenda Armani, i Tribunali italiani furono più o meno concorsi nell’affermare che anche il nome a dominio costituisce un segno distintivo per le aziende e che è vietato l’utilizzo da parte di terzi di un segno identico o simile al marchio registrato al fine di evitare confusione o associazione tra i segni. Il tema fu però approfondito dai tribunali che associarono l’utilizzo del domain name che richiama un marchio famoso alla concorrenza sleale, in quanto si cerca di ottenere un profitto generando confusione nel consumatore.

Pertanto, prima di registrare un nome a dominio è opportuno che si valuti ex ante la notorietà di quel nome. Una volta esclusa la possibilità che il marchio richiama altre iniziative di altre aziende, sarà possibile registrare il domain name su domini.it, sito nel quale è possibile trovare anche tutte le procedure dell’arbitrato e riassegnazione in caso di confusione.

4. La mala fede del richiedente nella domanda di registrazione del marchio

Nella sentenza esaminata, la Suprema Corte di Cassazione ribadisce la sussistenza della mala fede della Sig.ra S.G. nel voler registrare il domain name.

Il concetto di mala fede viene approfondito nel Regolamento 2009/207/CE sul marchio comunitario, nella Direttiva CE 2008/95 (sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati Membri in materia di marchi di impresa e nel D.lgs. n. 30 del 2005 (Codice della proprietà industriale).

L’art. 52 del Regolamento 2009/207/CE afferma che il marchio comunitario è dichiarato nulla se il richiedente ha agito in mala fede.

La Direttiva 2008/95/CE all’art. 3 co.2 letto d) stabilisce invece che ogni Stato membro può prevedere che un marchio di impresa sia escluso dalla registrazione o, se registrato, possa essere dichiarato nullo se il richiedente abbia fatto in malafede domanda di registrazione del marchio di impresa.

In ultimo, l’art. 19 co.2 CPI prevede che “Non può ottenere una registrazione per marchio di impresa chi e abbia fatto domanda in mala fede”.

Qualora venga accertata la mala fede da parte di chi propone domanda di registrazione del marchio fa sì che vi sia un impedimento assoluto alla registrazione del marchio e ne decreta la sua nullità.

L’art. 19 co. 2 CPI, pertanto, contiene una norma che disciplina la patologia dei marchi,  in Italia difatti, la nozione di mala fede rappresenta la matrice comune di situazioni soggettive che spaziano dalla ignoranza colpevole al dolo dell’agente, ma stante la zona d’ombra del nostro sistema legislativo è necessario che il giudice valiti di volta in volta la sussistenza dell’elemento psicologico.

Il tema della nullità della registrazione del marchio per mala fede venne approfondito dalla Sezione Specializzata in materia di impresa presso il Tribunale di Milano già nel 2016, affermando che la norma sulla mala fede si applica ogni volta che un soggetto possa vantare su un segno delle legittime aspettative che non si sono ancora consolidate in un diritto opponibile a terzi ed in cui un altro soggetto, essendo a conoscenza di tali aspettative, me anticipi il primo nella registrazione. Il Tribunale di Milano, inoltre, aggiungeva che la mala fede tende a ostacolare il progetto imprenditoriale grazie alla pregressa conoscenza dello stesso da parte del soggetto che chiede la registrazione del marchio.

Il Tribunale lombardo concludeva il punto sulla mala fede, ricitando la massima dello stesso tribunale del 2012: “la previsione normativa accorda una tutela anticipata a chi, pur avendo destinato il segno a fungere da proprio marchio in un determinato mercato, non abbia ancora provveduto alla registrazione, per negarla a chi avendo conoscenza di tale destinazione, vi frapponga ostacoli, depositando a proprio nome il segno altrui”.

Per tali ragioni, colui che ha registrato il marchio anteriormente ed è a conoscenza della mala fede dell’altro richiedente potrà invocare, come nella sentenza esaminata, azione di nullità presso il Tribunale competente.

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