Sommario: 1. L’inquadramento del reato. – 2. Le condotte di plagio e le loro peculiarità. – 3. Il rapporto tra i reati di plagio e i reati di falso e di truffa. – 4. La questione delle tesi compilative. – 5. La sorte del provvedimento amministrativo di attribuzione del titolo e la pubblicazione della sentenza.
L’inquadramento del reato
Nella letteratura scientifica, l’appropriazione della paternità di un’opera dell’ingegno altrui è stata spesso considerata un fenomeno di rilievo unicamente civilistico, finalizzato al risarcimento del danno, al licenziamento o alle conseguenze di natura privatistica.
Negli ultimi anni, invece, con la diffusione di tecnologie tali da rendere immediatamente reperibile in rete qualsiasi informazione, anche a carattere legale e professionale, si è assistito ad una massiccia applicazione della normativa penale che l’ordinamento italiano detta in materia di plagio letterario.
Sul punto, pare opportuno fare riferimento alla L. 19.4.1925, n. 475 (“Repressione della falsa attribuzione di lavori altrui da parte di aspiranti al conferimento di lauree, diplomi, uffici, titoli e dignità pubbliche”), che si occupa di sanzionare una serie di condotte relative al plagio, e in particolare al plagio letterario, nel contesto di opere dell’intelletto destinate ad essere utilizzate per scopi accademici e carrieristici.
Occorre anzitutto fare riferimento all’art. 1 della L. n. 475/1925, secondo cui “Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come proprii, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”.
L’art. 3 della stessa legge aggiunge che “Le disposizioni dei precedenti articoli si applicano anche nel caso in cui trattasi del conferimento di pubblici uffici, impieghi, titoli, dignità, qualità od insegne onorifiche, sia o non richiesto l’esame o il concorso”.
Dunque, l’ordinamento opta per una tutela di natura penale, sanzionando le condotte di chi, falsificando la paternità di opere letterarie, accademiche e dell’intelletto, presenti tali opere come proprie, ove siano invece il frutto dell’elaborazione intellettuale di altri.
Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità della Suprema Corte, la norma in esame mira alla tutela del bene giuridico della “pubblica fede personale”, ovverosia la pubblica fede che abbia ad oggetto la persona e le sue qualità personali, reprimendo così ogni comportamento idoneo a trarre in inganno la pubblica autorità e la generalità dei consociati su tali qualità, facendole apparire diverse da quelle reali.
L’interesse tutelato dalla L. n. 475/1925 è infatti “quello alla genuinità degli elaborati presentati dagli aspiranti ad un qualsiasi titolo, professione, dignità, ufficio o impiego, sia o non richiesto l’esame di concorso, cosicché il delitto ivi previsto e configurabile anche a carico del candidato il quale, nella prova scritta di un concorso, rediga e presenti alla commissione un compito che non sia frutto della propria elaborazione, ma riproduca un’opera altrui quali che siano le modalità di esecuzione dell’elaborato non genuino”[1]. Più in particolare, la ratio dell’art. 1, “va ravvisata nell’interesse alla genuinità dell’elaborato che deve essere esaminato dai componenti la commissione incaricata della valutazione al fine di accertare il possesso, da parte degli aspiranti … di specifiche capacità”[2]. E ancora, “La ratio della l. 19 aprile 1925 n. 475, … va ravvisata nell’interesse pubblico alla genuinità dell’elaborato; esigenza, questa, che trova riscontro anche nel principio costituzionale di cui all’art. 33 Cost. concernente l’interesse della collettività e dei futuri committenti all’accertamento preventivo dei requisiti di preparazione e di capacità per il retto esercizio professionale”[3].
Si è così “voluto tutelare la regolarità dello svolgimento dei concorsi, assicurando la selezione dei candidati secondo l’effettivo loro merito, senza l’intervento di fattori estranei, … e si è voluto tutelare anche l’esigenza di garantire l’eguale posizione dei candidati, ovviamente alterata dal possesso di utilizzabili”[4].
Chiariti i principi posti a fondamento dell’intervento del legislatore del 1925[5], la giurisprudenza ha dato una classificazione alle fattispecie dell’impianto sanzionatorio di settore, affermando che “L’ipotesi criminosa prevista dal combinato disposto degli artt. 1, 2 e 3, l. 19 aprile 1925, n. 475, … è strutturata come reato di mera condotta, ancorché obiettivamente e subiettivamente finalizzata alla produzione di un evento materiale antigiuridico (conferimento di un pubblico impiego), evento che nella struttura della fattispecie punitiva assume il ruolo di circostanza aggravante”[6]. Più in particolare, il reato in esame, “… è un reato di condotta che si perfeziona indipendentemente dal verificarsi dell’evento antigiuridico del conseguimento del pubblico impiego; pertanto è irrilevante che il fine non sia stato raggiunto, essendo sufficiente, per il verificarsi del reato, che la condotta fosse idonea a realizzare lo scopo per il quale è stata posta in essere”[7].
Si deve dunque ritenere consumato l’illecito al momento della condotta di falsificazione da parte del candidato alla laurea, al diploma o all’esame, ovverosia nel momento in cui questi utilizzi il materiale altrui, indipendentemente dal fatto che successivamente riesca a conseguire il titolo accademico o abilitarsi alla professione (che assume il solo valore di aggravante). Con la conseguenza che, per quanto reato di mera condotta (o secondo altro orientamento, al più di “evento solo giuridico”), esso è orientato tuttavia alla produzione di un evento materiale antigiuridico e, dunque, non si può escludere aprioristicamente la configurabilità del tentativo.
Sul punto, la Suprema Corte ha chiarito che il tentativo di plagio “è ravvisabile qualora il soggetto agente ponga in essere – con giudizio ex ante – atti caratterizzati dalla loro idoneità ed univocità rispetto alla produzione dell’evento voluto. Nel tentativo, infatti, l’idoneità degli atti va considerata in concreto con riferimento all’evento da raggiungere, mentre l’univocità degli atti va desunta dal modo in cui essi sono stati compiuti e da tutto il comportamento del soggetto agente”[8]: “Non è, pertanto, esclusa la configurabilità del tentativo, sempre che siano stati commessi atti univoci”[9].
Posto dunque che è stata ammessa la configurabilità del tentativo, la principale questione rimaneva e rimane quella di distinguerlo dalla fattispecie di reato consumata, ma non aggravata dall’evento. Per necessità logica e giuridica, sembra potersi concludere affermando che, se commette il reato di plagio nella sua forma aggravata il soggetto che, utilizzando opere altrui e facendole passare per proprie, ottiene il titolo accademico o l’abilitazione professionale, commette invece il reato nella sua forma base il soggetto che falsifichi il proprio elaborato, ma non veda realizzarsi l’evento materiale antigiuridico del conseguimento del titolo.
In altri termini, il tentativo sarebbe limitato alle ipotesi di condotta incompleta e imperfetta, ancorché consistente di atti univoci ed idonei (ad esempio, il tentativo non riuscito di copiare alcuni passi di un parere già svolto da altri, di cui si hanno dei fogli sottobanco non consentiti ad una prova di esame), mentre la condotta completa di falsificazione (ad esempio, l’effettivo utilizzo e l’inserimento nel proprio elaborato di informazioni reperite su materiale non consentito) configurerebbe la forma consumata di reato. Così secondo la Cassazione, per la quale “La condotta di chi, durante le prove scritte dell’esame di procuratore legale, venga sorpreso a copiare tesi già svolte da altri in precedenza è punibile a titolo di tentativo del reato di falsa attribuzione di lavori altrui”[10].
Al contrario, secondo una minoritaria ma ancora fertile giurisprudenza di merito, non sarebbe configurabile il tentativo poiché il reato di cui all’art. 1 della L. n. 475/1925 sarebbe classificabile quale reato “di pericolo essendo sufficiente, per la sussistenza di esso, che sia posta in essere una condotta idonea, diretta a fare in modo che il candidato possa utilizzare lavori di altri: che basti detto pericolo è reso evidente dal fatto che, [in caso di raggiungimento dello scopo: n.d.r.] il reato è più gravemente punito”[11], e non potendo concepirsi un pericolo del pericolo, non potrebbe anticiparsi sino al tentativo la soglia di punibilità.
Le condotte di plagio e le loro peculiarità
Quanto alle singole ipotesi di reato, la normativa speciale punisce non soltanto le ipotesi di falsificazione della tesi di laurea, del diploma di dottorato di ricerca e di diplomi accademici superiori (elaborati per conseguire un titolo), ma trova applicazione altresì ai casi di falsificazione delle prove di esame per l’accesso alle professioni intellettuali e in tutte le altre prove di abilitazione all’esercizio di mestieri (elaborati per superare un esame o un concorso), nonché ad ogni tipo di pubblicazione scientifica, studio o dissertazione (elaborati a fini scientifici)[12].
Come infatti chiarito dalla Suprema Corte, “In tema di falsa attribuzione di lavori altrui … deve ritenersi che trovano nella l. n. 475 del 1925 identica tutela sanzionatoria sia i lavori richiesti per l’abilitazione all’insegnamento professionale ed all’esercizio di una professione, che quelli richiesti per il conferimento di lauree, titoli scolastici o accademici. Ne consegue che anche il semplice diploma scolastico, individuabile nel titolo enunciato dalla legge, assolve alla funzione attestatrice di specifica preparazione del candidato, ed è notoriamente prodromico oltre che indispensabile, per l’accesso ad abilitazioni e professioni; l’alterazione della genuinità dell’elaborato integra, pertanto, anche in simili ipotesi, violazione della legge”[13].
Pertanto non vi rientra soltanto il plagio commesso durante l’esame di abilitazione alla professione, ma anche quello commesso nella stesura degli elaborati necessari a conseguire requisiti necessari, quali titoli e diplomi accademici, per poter partecipare a detto esame.
Inoltre, l’ambito di applicazione della legge del 1925, “che fa divieto di presentare come proprie dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti ed in genere lavori che siano opera d’altri, non riguarda soltanto i [documenti falsificati: n.d.r.] costituiti prima del concorso o dell’esame, bensì anche quelli svolti [e falsificati: n.d.r.] durante la prova scritta di esame”[14]. In altri termini, la falsificazione ben può avere luogo durante lo svolgimento dell’esame, specie nei casi in cui si utilizzi del materiale non consentito durante la prova e si attingano da esso argomenti e dissertazioni utili per la redazione dell’elaborato.
Ne consegue che integra il reato di cui all’art. 1 della L. n. 475/1925 colui “che, nel corso della prova scritta di un concorso o di un esame pubblico, riproduca, presentandolo come il frutto di una propria elaborazione, il testo di un’opera intellettuale ricopiato da un qualsiasi supporto che non contenga e che sia stato abusivamente impiegato nel corso della prova medesima (fattispecie relativa alla trascrizione integrale della motivazione di una sentenza del Tar nella prova scritta del concorso da dirigente di un ente locale)”[15].
A ben vedere, “con l’espressione “opera d’altri””, la normativa speciale non si riferisce ad un lavoro “compilato interamente da un soggetto diverso da quello che ne appare l’autore, ma anche al fatto oggettivo che il lavoro non sia proprio”[16], ricomprendendovi anche il caso in cui si utilizzi del materiale proveniente non da un’unica opera altrui, ma piuttosto trasponendo nel proprio elaborato singoli passi anche di opere diverse, di autori diversi, o addirittura nelle ipotesi di cucitura di singole frasi provenienti da distinti elaborati. Peraltro, “alcune pagine, stralciate da un libro di testo, sono qualificabili agli effetti degli art. 1 segg. L. 19 aprile 1925, n. 475 e la circostanza che l’argomento trattato nelle pagine stralciate non sia pertinente al tema che il candidato deve svolgere è irrilevante ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 2, una volta che sia certo che le pagine furono procurate al candidato per essere copiate”[17].
L’elemento fondamentale per integrare il plagio, dunque, è che il contenuto dell’elaborato non sia proprio, “cioè non sia frutto del proprio pensiero, svolto anche in forma riepilogativa od espositiva, ma che esprime tutta via quello sforzo di ripensamento di problematiche altrui che si richiede per saggiare le qualità espositive di un candidato”[18], non rilevando invece le modalità di redazione dell’elaborato non genuino, né chi o come abbia aiutato il candidato nell’alterazione della genuinità del proprio scritto.
Non mancano pronunce di segno parzialmente contrario, atte a distinguere il caso della mera copiatura da ipotesi lievemente differenti. Secondo tale orientamento, la copiatura pedissequa di tratti del parere di diritto civile, nel corso dell’esame di Stato all’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato non integra il reato di plagio letterario ove “accompagnata da un’elaborazione personale e critica del candidato”, poiché il candidato non si limiterebbe a presentare come proprio un lavoro altrui, ma a citare lavori altrui in una sua lettura critica[19].
In merito a tale questione, la giurisprudenza di legittimità si è reiteratamente interrogata con riguardo alle tesi di laurea, ipotesi applicativa più frequente e più pertinente. La Suprema Corte, in particolare, ha stabilito che “Integra il reato di cui all’art. 1, legge 19 aprile 1925, n. 475 la condotta di presentazione di una tesi di laurea consistente nella mera trasposizione grafica, senza alcun contenuto frutto di personale elaborazione o di valutazione critica della fonte utilizzata, di altro elaborato di diverso autore seppure con alcune correzioni e l’aggiunta di minimi elementi di novità (… App. Cagliari, 28/05/2010)”[20].
E ancora, “È configurabile il reato previsto dall’art. 1, legge 19 aprile 1925, n. 475, nel caso di presentazione di una tesi di laurea costituente la mera copiatura, seppure con minime variazioni, di una tesi precedentemente discussa da altri”[21].
Evidentemente, le variazioni minime, atte ad inquadrare i frammenti di altrui elaborati nel proprio personale discorso, danno sì alla dissertazione uno svolgimento ed una struttura logica, ma non sono sufficienti a scongiurare la commissione dell’illecito, posto che la rielaborazione non può rinvenirsi in una mera parafrasi.
Da ultimo, pare opportuno aggiungere che l’art. 2 della L. n. 475/1925 prevede un’autonoma fattispecie di reato, speculare a quella dell’art. 1, per le condotte di chi permetta il plagio, scrivendo l’elaborato che poi il candidato utilizzerà, falsamente spacciandolo per proprio. Sostiene infatti tale norma che “Chiunque esegue o procura dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici, e in genere lavori per gli scopi di cui all’articolo precedente, è punito a norma della prima parte dello articolo stesso. È punito a termine del capoverso del detto articolo se l’aspirante consegua l’intento. In ogni caso la pena è aumentata da un terzo alla metà se concorra il fine di lucro; e se concorra anche l’abitualità, la pena è della reclusione da uno a tre anni”.
L’art. 2, in altri termini, sanziona l’autore dell’opera commissionata per un futuro utilizzo di plagio. Vi possono rientrare, con tutta evidenza, anche le ipotesi sfortunatamente diffuse nella pratica di servizi di tutoraggio e assistenza nella scrittura della tesi di laurea, ovvero di vera e propria compravendita di tesi di laurea già svolte e acquistate per conto terzi. Tali condotte sono peraltro punite a prescindere dalla circostanza che successivamente il candidato utilizzi effettivamente l’elaborato[22].
Sul punto, la Suprema Corte si è infatti premurata di chiarire che “Integra il reato di cui all’art. 2 della legge 19 aprile 1025, n. 475, e non la sua ipotesi tentata, la condotta di chi “procura” lavori o elaborati altrui al fine di superare un esame o un concorso ovvero per ottenere il rilascio di un titolo abilitativo, poiché, per il perfezionamento del delitto in questione, non è necessaria la presentazione di tali lavori alla commissione esaminatrice, elemento che costituisce la fattispecie solo del diverso reato previsto dall’art. 1 della medesima legge (… App. Milano, 18/04/2016)”[23].
Viceversa, se due soggetti cooperano nell’elaborazione di un identico testo scritto a quattro mani, che entrambi intendano utilizzare nello stesso contesto di esame, nessuno dei due può essere ritenuto creatore dell’opera plagiata ex art. 2 L. n. 475/1925, ma ricorrerà per entrambi, in forma concorsuale, l’ipotesi di cui all’art. 1. Secondo la Suprema Corte, infatti, “Integra il concorso di persone nel reato previsto dall’art. 1 … la diretta collaborazione di due o più persone nella realizzazione di opere in comune, sia pure in parte di altri, ovvero nella realizzazione da parte di uno di essi di un lavoro originale nello stesso contesto in cui il concorrente, di intesa con il primo, ne faccia uso mediante copiatura di presentazione per la successiva valutazione”[24].
Il rapporto tra i reati di plagio e i reati di falso e di truffa
Occorre a questo punto chiarire quali siano i rapporti tra i reati indicati nella normativa speciale della L. n. 475/1925 e quelli codicistici di falso e di truffa.
Quando a quest’ultima ipotesi, già da tempo la Suprema Corte aveva avuto modo di affermare che “Il candidato che ricopia, agli esami di concorso a pubblico impiego, una propria tesi già svolta in precedenza, con l’ausilio di pubblicazioni specializzate in materia, facendo ricerche e consultando autori e testi vari, viola … la norma penale prevista dalla l. 19 aprile 1925, n. 475, art. 1 e 3 e non quella di carattere generale prevista dall’art. 640 c.p., stante il rapporto di specialità fra le due norme incriminatrici ex art. 15 c.p.”[25]. Era poi tornata sul punto, confermando che “Le ipotesi criminose previste dagli art. 1 e 2, l. 19 aprile 1925, n. 475 … sono da ritenersi speciali rispetto al tentativo di truffa, come è dimostrato dalle circostanze che è previsto da tali norme un aggravamento di pene se l’intervento venga consentito”[26].
Quanto invece ai reati di falso, in particolare, la Suprema Corte ha affrontato la questione del concorso tra “il reato previsto dagli artt. 81, 110 c.p., 1 e 2 legge n. 475/25, per aver la … concorso nel procurare ad alcuni candidati che stavano sostenendo le prove scritte dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato[27] … [e] i delitti di falso [per induzione: n.d.r.], rispettivamente consumato e tentato, contestati ai sensi degli artt. 110, 81 (e 56), 48 e 479 c.p., per avere indotto, o tentato di indurre, in errore i componenti della commissione esaminatrice, nel primo caso in riferimento all’unica candidata che aveva ottenuto l’abilitazione, e, nei residui casi, in relazione ai candidati che non avevano conseguito il titolo”.
Secondo la giurisprudenza di merito che si era formata, il reato in questione assorbirebbe il falso per induzione in virtù del principio di specialità, trattandosi di una norma speciale nel cui ambito di applicazione rientrerebbe anche quello del falso ideologico, nell’ipotesi aggravata del conseguimento dell’intento[28]. Ciò in quanto i due reati avrebbero rationes sovrapponibili.
A ben vedere, oggetto della tutela dei reati contro la fede pubblica, come è quello di falso ideologico, è l’interesse pubblico alla genuinità materiale dell’atto e alla veridicità ideologica di quel che contiene[29], nonché la tutela del soggetto privato “sulla cui sfera giuridica l’atto sia destinato a incidere concretamente … In senso conforme ex multis, Sez. 5 Sent. 7187 del 9.12.2008 Ud. Rv 243154 (dep.19.2.2009); Sez. 3, Sentenza n. 2511 del 16/10/2014 Ud. (dep. 21/01/2015) Rv. 263416”.
Alla luce di questo principio, la Suprema Corte ha stabilito che vada respinta la tesi della Procura Generale, secondo cui dovrebbero distinguersi due diversi beni giuridici tutelati dai reati di plagio e da quelli di falso, i primi volti a tutelare la genuinità degli elaborati presentati alla commissione, e i secondi la veridicità delle attestazioni dei pubblici ufficiali componenti la commissione di esame, distinzione che secondo la Cassazione è da ritenersi soltanto apparente e non sembra riferirsi ad un effettivo contenuto di diversità.
Difatti, le norme speciali di cui agli artt. 1 e 2 l. n. 475/1925 “coprono l’intero spettro dell’azione posta in essere dagli indagati fino ai suoi ultimi effetti ed esiti. Posto che … in entrambi i casi (sia, quindi, per i candidati che si sono avvalsi di elaborati altrui, sia per chi glieli ha procurati), si prevede come aggravante della condotta il conseguimento dell’intento e, quindi, il positivo superamento della prova di esame con l’ottenimento dell’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato. Se ne deduce che non residua spazio alcuno per l’applicazione delle norme relative al falso ideologico per induzione … l’unica falsità che inficia l’atto pubblica [è] quella derivante dalle condotte contemplate nei primi due articoli della legge n. 475 del 1925”.
Del resto, se le norme speciali non esaurissero il disvalore penale della condotta di chi consegna in sede di esame degli elaborati non propri, fino all’esito finale del conseguimento dell’abilitazione, “si potrebbero configurare anche ulteriori falsi ideologici per induzione, … compiuti nel corso della valutazione del candidato, ad esempio nell’attribuzione delle votazioni per i tre compiti consegnati e nella ammissione (o anche non ammissione, ipotizzando il tentativo) alle prove orali”. Si avrebbero, pertanto, tanti illeciti quanti fossero le prove intermedie tra la presentazione della domanda di partecipazione all’esame e l’abilitazione, “così moltiplicando la risposta sanzionatoria alla condotta tutta, invece, ricompresa nelle norme speciali … [le quali] esauriscono la risposta sanzionatoria … sono da ritenersi speciali rispetto alle ipotesi di falso ideologico per induzione attinenti alla formazione dei successivi atti pubblici”[30].
Da ultimo, la Cassazione ha confermato lo stesso principio, per cui “Integra il reato previsto dagli artt. 1 e 2 della legge n. 475 del 1925 … e non anche quello di cui agli artt. 48 e 479 cod. pen. (falso ideologico per induzione) la condotta consistita nell’eseguire e procurare – ai concorrenti impegnati nelle prove scritte di esame per l’abilitazione all’esercizio della professione forense – elaborati formati all’esterno dell’aula destinata allo svolgimento delle suddette prove, stante il rapporto di specialità tra le due norme incriminatrici, le quali entrambe prevedono, come ipotesi aggravata, che l’aspirante consegua l’intento”[31].
Ciò varrebbe ad escludere il concorso non soltanto dei reati di falso ideologico, ma anche del reato di falsa dichiarazione ex art. 495 c.p. sulla propria identità nei casi in cui l’esecutore materiale dell’elaborato si spacci falsamente per il candidato formale della prova di esame[32].
Quanto invece ai reati di falso relativi al verbale di laurea e allo stesso diploma di laurea (o simili), quando gli stessi siano formati sulla base di documenti concernenti gli esami di profitto anch’essi viziati da falsità materiale o ideologica[33], la stessa Suprema Corte ne ammette l’estraneità rispetto alle ipotesi delittuose di cui alla normativa speciale, poiché “le attestazioni del superamento degli esami di profitto erano false in quanto gli stessi non erano mai stati sostenuti e non si versava, pertanto, nell’ipotesi del superamento della prova mediante la presentazione di elaborati non propri; in altri termini non si era neppure prospettato il concorso tra il ritenuto falso ideologico degli esiti parziali e dell’esito finale con le ipotesi previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 475/1925”[34]. Non resterebbe così escluso un potenziale concorso tra le due normative, nel caso di falsità del libretto di esami e al contempo della tesi di laurea.
La questione delle tesi compilative
Una questione di particolare rilevanza in materia di plagio è senza dubbio quella relativa alle tesi di laurea a carattere c.d. compilativo, ossia fondate sulla raccolta, la ricognizione e la trascrizione del materiale relativo ad un determinato argomento e prive del carattere sperimentale di nuova elaborazione.
La giurisprudenza, più in particolare, si è interrogata sui confini tra un’ipotesi di plagio ex L. n. 475/1925 e una tesi compilativa, che raccolga passi tratti da opere di dottrina di altri autori e le predisponga in una successione ordinata al fine di sviluppare un discorso logico e argomentato.
Sul punto è intervenuta la Suprema Corte, chiarendo che “integra il reato di cui all’art. 1 … la condotta di presentazione di una tesi di laurea consistente nella mera trasposizione grafica, senza alcun contenuto frutto di personale elaborazione o di valutazione critica della fonte utilizzata, di altro elaborato di diverso autore seppure con alcune correzioni e l’aggiunta di minimi elementi di novità”[35].
Sostiene infatti che “La Corte di merito ha proceduto ad una puntuale analisi degli elementi di identità fra l’elaborato prodotto dalla ricorrente e quello altrui dalla stessa utilizzato, pervenendo alla conclusione di trovarsi di fronte ad una copiatura “pressoché integrale” con minime variazioni”. È degno di estremo interesse soffermarsi sugli elementi di fatto che la Corte di merito aveva utilizzato per delimitare il plagio nelle ipotesi di tesi compilative[36] e per escludere la natura compilativa della tesi di laurea[37].
La Suprema Corte, dunque, arriva ad ammettere il plagio letterario anche nelle tesi compilative, sulla scorta del fatto che “una tesi compilativa dovrebbe essere connotata, quantomeno, da una elaborazione critica dei dati acquisiti da fonti diverse e posti a confronto verificandone l’attendibilità e traendo conclusioni che, in quanto frutto di una personale riflessione, offrano un contributo scientifico autonomamente apprezzabile e non può certo concretarsi nella mera riproduzione grafica di un diverso elaborato di produzione altrui con modeste aggiunge che non incidono minimamente sull’impianto complessivo del testo”.
Ove infatti l’elaborato compilativo presenti somiglianze con un lavoro altrui tante e tali da privare completamente la tesi di qualsiasi apporto personale, dovrebbe pertanto ritenersi plagiata. Fra gli apporti personali che la tesi deve contenere, è necessaria quantomeno la presenza di una valutazione personale delle informazioni raccolte: “… risulta significativa la circostanza che la ricorrente, volendo comporre … una tesi compilativa, non abbia avvertito la necessità di citare l’autore dal quale aveva ricavato gli unici dati utilizzati né di esprimere un giudizio di mera adesione o di dissenso sulle conclusioni cui lo stesso perveniva e che, a quanto risulta, pedissequamente riproponeva”.
E a fronte della difesa dell’imputato, che aveva eccepito proprio la natura compilativa del lavoro, ove normalmente si ripropongono dati e contenuti scritti da altri esperti della materia, la Suprema Corte ha rilevato come in una tesi compilativa debbano comunque essere valorizzati gli elementi innovativi e il personale apporto dell’autore che, prendendo posizione sulle informazioni raccolte, le commenta, ne deduce delle conseguenze, propone soluzioni alle questioni affrontate, e in generale dà un’elaborazione critica, con delle conclusioni idonee a fornire al tema un contributo effettivo nel mondo scientifico.
Pertanto, proprio la mancanza di ogni minima originalità del lavoro integra il reato[38].
La sorte del provvedimento amministrativo di attribuzione del titolo e la pubblicazione della sentenza
Occorre poi soffermarsi sulla sorte del titolo accademico o dell’abilitazione professionale conseguiti in ragione del plagio e sulle altre conseguenze previste dalla legge in materia di plagio.
Anzitutto, la giurisprudenza di legittimità chiarisce che, nel caso in cui il candidato sia sorpreso durante la prova a falsificare il proprio elaborato, “la norma penale concorre con quella amministrativa che consente l’espulsione del candidato sorpreso a copiare tesi già svolte ovvero a consultare testi diversi da quelli autorizzati”[39].
Quanto invece alla legittimità in sé, sotto il profilo amministrativo, dell’esame o del concorso in occasione del quale si è tentato o consumato il reato, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che “In caso di annullamento per plagio delle prove scritte di un candidato all’esame di maturità sorpreso in possesso di un foglio contenente l’elaborato già svolto, la commissione esaminatrice deve adeguatamente motivare in ordine all’incidenza della supposta frode nell’economia dell’elaborato redatto dal candidato, dimostrando che la positiva valutazione dell’elaborato stesso non sarebbe stata possibile senza il sostanziale apporto del plagio”[40]. Peraltro, “non basta la coincidenza di due sole frasi, ma vi deve essere una consistente e non marginale riproduzione pedissequa e fraudolenta di un testo, redatto da altre persone, cioè deve trattarsi di un’opera, il cui contenuto risulta copiato per ampie parti, poiché solo in tal caso può escludersi che l’opera sia stata redatta personalmente ed autonomamente”[41].
Ne consegue che non è sufficiente la prova del possesso di materiale non consentito, o comunque di mezzi e strumenti adatti all’alterazione della genuinità dell’elaborato, ma va concretamente dimostrato (pur con presunzioni semplici, si può ritenere) che l’elaborato ne ha beneficiato e che senza di essi non si sarebbe potuta ragionevolmente ottenere una valutazione positiva dell’esame, solo in tal caso potendosi ritenere che il plagio abbia avuto un concreto effetto viziante e che l’esame effettivamente non risponda alla paternità del candidato.
In secondo luogo, giova precisare che un’ulteriore conseguenza è prevista dall’art. 5 della L. n. 475/1925, secondo cui “Nei procedimenti relativi ai reati previsti dalla legge, qualora il fatto sia accertato, deve essere dichiarata nella sentenza la esistenza di esso anche se, per qualsiasi motivo, non si debba procedere o non possa essere pronunciata condanna”.
Ciò significa che il semplice accertamento che il fatto sussista e sia avvenuto obbliga il giudice, anche in qualsiasi caso di assoluzione, di pronunciare tale accertamento in sentenza. Come precisato dalla Suprema Corte, infatti, “L’art. 5 della l. 19 aprile 1925 n. 475 … deve essere inteso nel senso che, quando risulta una causa di estinzione del reato, ma già esistono le prove le quali rendono evidente che il fatto sussiste il giudice, pur non pronunciando condanna, dichiara in sentenza l’esistenza del fatto medesimo e provvede ad eliminare gli effetti civilistici o amministrativi”[42].
Le statuizioni accessorie di cui all’art. 5, proprio perché svincolate dalla condanna penalistica, sono dunque dettate dal legislatore a tutela della pubblica fede, quando le prove raccolte rendano manifesta la falsità, consentendo così di formulare sulla stessa un giudizio di certezza, anche per i soli fini civilistici ed amministrativi[43].
Sul punto, la seconda parte dell’art. 5 fa derivare dall’accertamento del plagio il provvedimento accessorio della cancellazione del titolo accademico, sancendo che “La sentenza di condanna o quella che dichiara che il fatto sussiste, ordina la cancellazione del provvedimento che ne sia derivato. La cancellazione si effettua secondo le norme contenute nei capoversi secondo e seguenti dell’articolo 576 del codice di procedura penale[44], in quanto siano applicabili. La sentenza di condanna è affissa in tutte le università del regno, quando trattasi di esami universitari”.
Tuttavia, va precisato che secondo la Suprema Corte tale accertamento va espressamente enunciato dal giudice di merito, non potendosi altrimenti desumere dal corpo della motivazione. L’adozione dei provvedimenti di cancellazione, per quanto stabilita obbligatoriamente dalla legge[45], presuppone che la falsità dell’opera intellettuale sia stata espressamente dichiarata nel dispositivo della sentenza.
In mancanza, il Pubblico Ministero non può che impugnare la sentenza di merito omissiva del punto, altrimenti passando in giudicato il relativo capo e, in ogni caso, non potendo il giudice dell’impugnazione, in assenza di un’espressa domanda di riforma, procedere a disporre la cancellazione del titolo accademico d’ufficio[46].
[1] Cass. Pen. V, 2.12.1980, Rv. 1981, 357, Giur. It. 1982, II, 256.
[2] Cass. Pen., 22.2.1989, Riv. Pen., 1990, 593.
[3] Cass. Pen. VI, 22.2.1985, n. 9489.
[4] Trib. Imperia, 28.4.1983, Difesa Pen., 1983, 2, 117.
[5] Da segnalarsi altresì Cass. Pen. V, 4.7.2007, n. 34384, secondo cui “Ai fini del sequestro preventivo di cosa di cui è consentita la confisca (art. 321, comma 2, c.p.p.) è sufficiente l’esistenza di un nesso strumentale fra la res e la perpetrazione del reato, non essendo necessario che la cosa si è anche strutturalmente funzionale alla commissione del reato, nel senso che debba essere specificamente predisposta per l’azione criminosa (nella specie è stato dichiarato legittimo il sequestro preventivo del telefono cellulare utilizzato, nel corso della prova scritta dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione di avvocato, per comunicare con persone che si trovava all’esterno)”.
[6] Cass. Pen. 4.6.1984, Gius. Pen., 1985, II, 483.
[7] Cass. Pen., 6.11.1984, Riv. Giur. Scuola, 1985, 968.
Vale la pena precisare che le pronunce appena citate fanno riferimento a casi aventi quali imputati non tanto i candidati che utilizzarono il plagio (ex art. 1), ma piuttosto (come meglio infra) i soggetti che abbiano procurato l’elaborato da plagiare al candidato (ex art. 2). La sola condotta di “fornitura” di materiale finalizzato al plagio letterario (specie nei concorsi pubblici e negli esami per l’abilitazione alle professioni) consuma il reato, senza che sia necessario l’evento giuridico del conseguimento del titolo. Tuttavia, detti principi ben possono valere altresì per i candidati stessi, posto che l’aggravante del conseguimento del titolo è soltanto eventuale, e che dunque l’illecito-base si struttura come reato di condotta (potrebbe al più considerarsi l’“evento solo giuridico” dell’utilizzo del materiale falsificante).
[8] Cass. Pen. VI, 22.2.1995, n. 9489.
[9] “(Fattispecie nella quale il tentativo è stato escluso per la mancanza dell’univocità degli atti posti in essere, consistiti nel possesso da parte di alcuni candidati all’esame di abilitazione alla professione di procuratore legale di un telefono cellulare, del quale non si erano ancora asserviti al momento della sorpresa)” (Cass. Pen. V, 6.10.1993, n. 9906, Rv. 196435, Riv. Pen., 1994, 1010).
[10] Cass. Pen. VI, 22.2.1995, n. 9489.
[11] Trib. Imperia, 28.4.1983, Difesa Pen., 1983, 2, 117.
[12] Vale la pena di ricordare che, in caso di conseguimento del titolo, della dignità accademica o del riconoscimento professionale, la pena è aggravata con la previsione di una sanzione minima.
[13] Cass. Pen. V, 17.12.1999, n. 2165, Cass. Pen., 2001, 2693.
[14] Cass. Pen. V, 2.12.1980, Rv. 1981, 357, Giur. It. 1982, II, 256.
[15] Cass. Pen. VI, 21.6.2010, n. 32368, Rv. 248039; Trib. Campobasso, 28.1.2014, Massima Redazionale 2014.
[16] Cass. Pen. II, 4.6.2008, n. 34726, Giur. It., 2009, 3, 701.
[17] Pret. Imperia, 13.11.1982, Difesa Pen., 1983, 2, 117.
[18] Cass. Pen. II, 4.6.2008, n. 34726, Giur. It., 2009, 3, 701.
[19] Trib. Nocera Inferiore, 27.2.2017, Quotidiano Giuridico, 2017.
[20] Cass. Pen. III, 13.4.2011, n. 18826, Rv. 250332.
[21] Cass. Pen. III, 13.4.2011, n. 18826, Dir. Pen. e Processo, 2011, 7, 821.
[22] Il che conferma la natura di reato di mera condotta, specie della presente fattispecie ex art. 2 (v. supra).
Al contrario, nel caso di una semplice offerta di tali servizi, la legge speciale si limita a prevedere delle sanzioni amministrative. L’art. 4 della L. n. 475/1925 stabilisce infatti che “Chiunque con qualsiasi mezzo, offre di procurare od eseguire dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici, e in genere, lavori agli scopi di cui agli articoli 1 e 3 è punito per il semplice fatto dell’offerta, con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire 400.000 a 2.400.000. Qualora l’offerta sia fatta a mezzo stampa, ovvero sia fatta in modo abituale, si applicala sanzione amministrativa pecuniaria da lire 800.000 a 4.800.000. Nella prima ipotesi, il tipografo, se non è concorso nell’illecito, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire 150.000 a 900.000”.
Possono considerarsi incluse in tale fattispecie anche le attività di sponsorizzazione, pubblicità e volantinaggio aventi ad oggetto proposte di assistenza ed aiuto nella redazione di tesi di laurea ed elaborati simili. Ciò appare coerente con la finalità della normativa, che è quella di garantire che gli elaborati siano il frutto esclusivo e genuino del candidato.
[23] Cass. Pen. V, 30.3.2017, n. 26438, Rv. 270536, CED Cassazione, 2017.
[24] “(fattispecie relativa a elaborati presentati negli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione forense, nella quale la corte ha annullato la condanna per omesso accertamento delle modalità con cui gli imputati, collocati in due plessi diversi e quindi non in grado di comunicare fra loro, avevano collaborato nella copiatura … App. Lecce, 05/03/2014)” (Cass. Pen. III, 10.12.2014, n. 15445, Rv. 263346, CED Cassazione 2015; Cass. Pen. V, 9.5.2008, n. 36625, Rv. 241639, CED Cassazione, 2008).
[25] Cass. Pen., 10.12.1984, Riv. Pen., 1985, 1123.
[26] Cass. Pen., 2.5.1989, Riv. Pen., 1990, 387.
[27] “(a Bari, nella sessione 2014/2015) elaborati altrui, che venivano redatti (in base alle tracce comunicate dai medesimi candidati tramite telefono cellulare) all’esterno dell’aula, da un “gruppo di lavoro” di cui ella faceva parte, ciò facendo a fini di lucro … soggetti professionalmente attrezzati (componenti il gruppo almeno due legali, il cugino della …, avv. …, ed uno dei componenti della commissione di esame)”.
[28] C. App. Lecce, 13.11.2015, Massima Redazionale, 2015.
[29] Cass. Sez. Un. 25.10.2007 – 18.12.2007, n. 46982, Rv. 237855.
[30] Cass. Pen. V, 26.1.2017, n. 3871, Quotidiano Giuridico, 2017; Cass. Pen. V, 4.10.2016 – 20.1.2017, n. 2739, Quotidiano Giuridico, 2017, poiché, aggiunge, anche facendo “applicazione del principio generale di specialità ai sensi dell’art 15 c.p., potendo aggiungersi … che l’art 1 della legge 475/1925 prevede ipotesi di falsificazione di atti pubblici specificamente ed analiticamente indicati, (dissertazioni, studi, progetti tecnici ed in genere lavori o elaborati che siano opera di altri, indicati nella norma), in occasioni delimitate (partecipazione a concorsi per il conferimento di titoli scolastici o accademici per l’abilitazione all’esercizio di professioni ed altre simili indicate netta norma) e punisce, altresì, il conseguimento del risultato, concretizzato, all’evidenza, in un titolo pubblico ottenuto tramite l’inganno dei soggetti deputati ad esprimere le necessarie valutazioni, concepito come aggravante. Pertanto ben può affermarsi che la normativa dell’art 1 legge 475/1925 sia una legge speciale rispetto alla norma ex art. 479 cp, poiché comprende tutti i suoi elementi, nel caso concreto anche in riferimento ai pubblici ufficiali destinatari dell’attività decettiva, e contiene, inoltre, le suddette caratteristiche specializzanti rispetto alla norma codicistica, che ha carattere generale”.
[31] Cass. Pen. V, 4.10.2016, n. 2740, Rv. 268862, CED Cassazione, 2017; Cass. Pen. V, 28.6.2018, n. 47509, Quotidiano Giuridico, 2018.
[32] Cass. Pen. V, 15.4.1986, n. 4726, Rv. 172930.
[33] Cass. Pen. VI, 11.7.2014, n. 37240, Rv. 260332.
[34] Cass. Pen. V, 4.10.2016 – 20.1.2017, n. 2739.
[35] Cass. 12.5.2011, n. 18826.
[36] “In particolare la Corte d’Appello ha accertato che: – era identica la suddivisione in capitoli e paragrafi; – l’indice era integralmente copiato ad eccezione dei riferimenti alle pagine conseguenti alla diversa formattazione … ; – era identica la composizione grafica anche negli “a capo” e nell’uso del grassetto e del corsivo; – erano identiche le modalità di citazione, senza note nel testo e con l’indicazione del solo nome dell’autore; – ad eccezione dell’indicazione di due testi e la correzione di un refuso tipografico, era identica anche la bibliografia; – erano identiche le tabelle finali, alle quali era stato modificato il solo carattere tipografico e corretto un refuso; – erano identici i casi clinici esaminati. La Corte territoriale rileva, sul punto, che si trattava di casi risalenti a cinque anni addietro, nonostante il tema fosse di particolare attualità e presentati come direttamente osservati, titolando il paragrafo relativo come “Casistica personale”, nonostante la palese incompatibilità con il corso di studi seguito dalla ricorrente e la sua età anagrafica che porterebbero a collocare tale diretta osservazione dei pazienti ad un periodo in cui la stessa frequentava ancora il liceo; – l’apparato iconografico, ad eccezione di tre fotografie, era identico; – il testo e la forma erano identici; – medesime erano, infine, le conclusioni. I giudici dell’appello individuano, per contro, le seguenti differenze: – sostituzione di pochi termini, correzioni di qualche refuso e piccole modifiche della punteggiatura e delle forme verbali; – la presenza di una introduzione con considerazioni di natura discorsivo – sociologica; – sei righe aggiunte al capitolo “Biomeccanica e cinematica del rachide cervicale””.
[37] Vi era anche il riferimento specifico all’osservazione sperimentale di pazienti, in realtà peraltro mai avvenuta, come dimostra la circostanza che si trattava di casi clinici risalenti nel tempo a quando la ricorrente frequentava ancora il liceo, e dunque difettanti del requisito dell’originalità.
[38] Cfr. anche Cass., Pen. VI, 21.6.2010, n. 32368, Guida Dir., 2010 (49) 76 e Riv. Pen., 2010, 1248, che ha riconosciuto il plagio anche nel caso di integrale copiatura del testo di una sentenza, ancorché citata, nell’elaborato di una prova concorsuale, poiché anche tale operazione denota la mancanza di autonoma elaborazione logica del candidato (v. anche Cass. Pen. II, 10.12.1984, Chiodi, in Cass. Pen., 1986, 997).
[39] Cass. Pen. VI, 22.2.1985, n. 9489; Cass. Pen. VI, 22.2.1995, n. 9489.
[40] Cons. Stato VI, 20.5.1995, n. 475.
[41] T.A.R. Basilicata, Potenza I, 29.4.2013, n. 205.
[42] Cass. Civ. I, 11.2.1995, n. 1540, Mass. Giur. It., 1995.
[43] Cass. Pen., 22.2.1989, Riv. Pen., 1990, 601.
[44] Cfr. l’attuale formulazione dell’art. 537 c.p.p..
[45] cfr. Cass. Pen. V, 22.2.1989.
[46] Cass. Pen. 12.5.2011, n. 18826.