La defettibilità della disposizione di cui all’art. 2357 ter, co. 2, cc

in Giuricivile, 2019, 11, (ISSN 2532-201X)

Spesso si annovera la defettibilità – intesa come suscettibilità di una norma ad ammettere eccezioni implicite – tra le caratteristiche distintive dei principi giuridici, i quali talvolta verrebbero non applicati ad una determinata fattispecie o applicati solo parzialmente, proprio in ragione di tale peculiarità. Questa tesi, tuttavia, risulta smentita dalla possibilità di rinvenire l’esistenza di norme che non assumono la forma di principi, bensì di semplici regole, e che nondimeno risultano defettibili[1]. Con una recente pronuncia[2], infatti, la Corte di Cassazione ha affermato, in riferimento alla disposizione di cui all’art. 1428 c.c., che, ai fini dell’annullabilità del contratto, è sufficiente che l’errore commesso da una parte contraente sia essenziale – escludendo dunque il requisito della riconoscibilità – qualora esso sia bilaterale, cioè comune ad entrambe le parti: in tal caso non è applicabile il principio dell’affidamento, avendo ciascuna delle parti dato causa all’invalidità del negozio.

Ciò dimostra come l’ammissione di eccezioni implicite possa costituire una caratteristica non solo di un principio, ma anche di una regola e – si noti – di qualsiasi regola. In particolare, la defettibilità risulta essere una peculiarità riscontrabile anche nella disposizione di cui all’art. 2357-ter, II co., c.c., come modificata dal D.lgs. 29 novembre 2010 n. 224.

Essa stabilisce, con riguardo alle azioni proprie possedute dalle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, che “il diritto di voto è sospeso”, ma esse “sono tuttavia computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea”. Per le società c.d. aperte, la norma fa invece rinvio all’art. 2368, III co., c.c., in base al quale le azioni con voto sospeso sono computate solamente con riguardo alla regolare costituzione dell’assemblea, non invece ai fini dei quorum deliberativi.

Ciò che s’intende dimostrare è che la disposizione in esame esprime una norma defettibile, vale a dire, un significato precettivo suscettibile di eccezioni implicite. Essa infatti, in ragione della ratio normativa posta a suo fondamento dalla Corte di Cassazione[3], nonché dalla relazione illustrativa al D.lgs. di modifica alla disposizione, non risulta essere applicabile a tutte le fattispecie concrete in essa sussumibili. Da ciò scaturisce da un lato l’impossibilità di un’interpretazione tassativa della stessa, dall’altro la necessità, in determinati casi, di ricorrere alla norma generale in tema di computo delle azioni proprie ai fini del calcolo dei quorum assembleari, espressa dalla disposizione di cui all’art. 2368, III co.

Rilevanza delle azioni proprie in sede assembleare

Per quanto riguarda l’analisi proposta in questa sede, si assumerà che la totalità del capitale sociale risulti rappresentato in assemblea: perché la decisione sia validamente assunta sarà dunque necessario il voto favorevole della maggioranza del capitale sociale, a prescindere dall’assunzione della deliberazione in prima piuttosto che in seconda convocazione. Sotto questo aspetto, è prodromico a quanto segue porre l’attenzione sull’incidenza delle azioni proprie – una species del genus delle azioni con voto sospeso – sulla validità della delibera.

Computando tali azioni ai fini del quorum deliberativo infatti, il “denominatore”, indicante la percentuale di capitale sociale presente in assemblea, assumerebbe il valore di 100, comportando, ai fini della validità della delibera, un necessario aumento del “numeratore”, indicante la percentuale del capitale rappresentato favorevole alla delibera, il cui valore nel caso di specie deve essere pari a 50(%)+1. Non computando le azioni proprie, invece, il valore del denominatore diminuisce, rendendo sufficiente una percentuale favorevole, al numeratore, meno elevata.

Ratio della disposizione di cui all’art. 2357-ter, II co.

Sulla questione è intervenuta di recente la Suprema Corte, affermando che le azioni proprie nelle società che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio debbano essere computate tanto ai fini della regolare costituzione dell’assemblea, quanto ai fini della regolare assunzione delle sue deliberazioni. Con tale pronuncia la Corte ha palesato il significato della disposizione, modificata appositamente dal legislatore nel 2010 per chiarificarne il contenuto. La Corte, tuttavia, non si è limitata ad applicare la disposizione codicistica, spingendosi invece ad esplicitarne la ratio. Quest’ultima, secondo le parole della sentenza, consta nell’ “impedire che le azioni proprie modifichino i rispettivi poteri fra i soci, e più in generale che non ne risulti alterata la c.d. funzione organizzativa del capitale sociale”, nonché nella necessità che le azioni proprie vengano computate nel quorum deliberativo “al fine di evitare che se ne disponga l’acquisto preordinando il medesimo, mediante l’eventuale regola di scomputo da detto quorum, a favorire il socio di controllo[4].

La Suprema Corte afferma dunque che la ragione giustificatrice di tale disciplina ha fondamento nella tutela della minoranza azionaria: se non si tenesse conto, infatti, delle azioni proprie ai fini del quorum deliberativo, sarebbe sufficiente, ai fini della deliberazione, una inferiore soglia di maggioranza; gli amministratori, rappresentanti in larga parte degli interessi del socio di comando, potrebbero cioè disporre l’acquisto di azioni proprie – privo di limiti nelle società non quotate – così da determinare un abbassamento del quorum necessario, agevolando in tal modo l’assunzione di decisioni da parte del solo socio di comando.

Nella fattispecie esaminata dalla Corte di Cassazione nella sentenza sopracitata, la delibera è stata assunta con il voto favorevole del socio di controllo, rappresentante il 47% del capitale sociale; di contro si erano opposti i due soci titolari delle quote di minoranza, rappresentanti congiuntamente il 43%. In particolare, il Presidente dell’assemblea non aveva tenuto conto, ai fini del quorum deliberativo, del voto delle azioni proprie, affermando la validità della delibera. La Corte, coerentemente con la ratio della disciplina contenuta nell’art. 2357-ter – ossia la tutela della minoranza azionaria – ha dichiarato la necessità del computo delle suddette azioni proprio a questi fini. Diversamente, il socio di comando avrebbe potuto decidere le sorti della società, avendo la facoltà e il potere di approvare qualsivoglia delibera assembleare, pur detenendo una quota di capitale rappresentante una maggioranza solo relativa.

Non applicabilità della disposizione di cui all’art. 2357-ter, II co., a tutte le fattispecie

Urge a questo punto sottolineare come possano darsi situazioni che presentino visibili differenze rispetto al caso posto all’attenzione della Suprema Corte, alla luce delle specifiche posizioni ricoperte dai soci in sede assembleare. Si immagini, ad esempio, di invertire le quote di capitale sociale detenute dai soci protagonisti della controversia, mantenendo fermo il dato del 10% di azioni proprie. In tale eventualità il 47% del capitale sociale sarebbe rappresentato, congiuntamente, dai soci di minoranza, rappresentanti, ipoteticamente, il 12%, il 15% e il 20%, e nel nostro caso favorevoli alla delibera; il socio di comando, Beta Holding s.r.l., contrario alla delibera assembleare, risulterebbe invece titolare del 43%.

Come sopra esposto, l’applicazione dell’art. 2357-ter, II co., mira alla specifica tutela della minoranza in sede assembleare: è con questo preciso intento che il legislatore ha voluto palesare il significato della norma nella sua successiva modifica nel 2010. Viceversa, nella fattispecie appena descritta, l’applicazione dell’art. 2357-ter, II co., risulterebbe inadeguata ed oltremodo ingiustificata. Essa comporterebbe, difatti, un rovesciamento concettuale ed un palese cambio di direzione rispetto alla stessa ratio della norma, così come palesata dalla Suprema Corte. Sarebbe infatti la stessa Beta Holding s.r.l. a risultare visibilmente avvantaggiata dall’applicazione della disposizione in esame. Infatti, l’azionista titolare della maggioranza relativa delle azioni, già socio di comando e titolare del potere di nomina degli amministratori, sarebbe ulteriormente posto nella condizione di poter servirsi delle azioni proprie in sede di delibera assembleare: risulterebbe cioè titolare del potere di invalidare la delibera, impedendo all’assemblea di raggiungere il quorum necessario, proprio in forza del computo delle azioni proprie. E – si badi – è proprio il potere del socio (o dei soci) di comando, e non quello della maggioranza che si forma contingentemente in sede assembleare, che la norma si propone di arginare. La stessa Relazione illustrativa al D.lgs. n. 224/2010 afferma infatti che tramite l’applicazione della norma si vuole evitare “che l’acquisto di azioni proprie (effettuato con risorse comuni) – e disposto dal Consiglio di Amministrazione – diventi strumentale alla modifica del peso organizzativo delle partecipazioni all’interno dell’assemblea, ad ingiustificato vantaggio di alcuni e a danno di altri[5].

Ebbene, ciò che il legislatore aveva inteso evitare formulando la disposizione di cui all’art. 2357-ter, II co., si verificherebbe, in questa fattispecie, applicando quella stessa norma: ne deriverebbe l’attribuzione a Beta Holding s.r.l. di una posizione di sproporzionato rilievo decisorio nei confronti dei soci di minoranza, con la eventuale possibilità di bloccare la delibera assembleare. Ci troveremmo di fronte ad un palese contrasto con la ratio giustificatoria dello stesso art. 2357-ter, II co., in virtù della quale il legislatore aveva disposto il computo delle azioni proprie ai fini del quorum deliberativo, proprio per non concedere al socio di comando di servirsene a proprio vantaggio.

Da quanto detto emerge che l’applicazione della disposizione in esame risulterebbe del tutto priva di giustificazione, proprio perché non dotata di un fondamento razionale o, perlomeno, non dotata del fondamento giustificativo enunciato e reso esplicito dalla Suprema Corte.

Nozione di “azionista di controllo”

Risulta ora indispensabile soffermarsi attentamente sul significato attribuito alla figura dell’“azionista di controllo”, da intendersi come titolare di un numero di azioni tale da consentire allo stesso di controllare il Consiglio di Amministrazione, nominandone la maggioranza (o la totalità) dei componenti, e da identificarsi, nel caso ipotetico appena proposto, con Beta Holding s.r.l. A questo punto, potrebbe essere mossa un’obbiezione: il titolare di una quota ancorché consistente di azioni non avrebbe la certezza assoluta di determinare la maggioranza dei consiglieri di amministrazione, soprattutto nel caso in cui il sistema adottato sia un voto di lista. Tuttavia, tale evenienza dipende dal sistema di nomina del consiglio stabilito dalla legge o dallo statuto. Le disposizioni di legge, in particolare gli artt. 147-ter e 148 del TUF, statuiscono l’obbligo dell’adozione di un sistema proporzionale, i.e. con voto di lista, solamente per le società che facciano ricorso al mercato del capitale di rischio, fattispecie che esula dal tipo societario oggetto dell’analisi proposta in questa sede. Considerando una società c.d. chiusa, infatti, salvo una diversa disposizione dello statuto, è necessario fare riferimento alla modalità di nomina di default, ergo il sistema maggioritario. Adottando un tale meccanismo, Beta Holding s.r.l. risulterebbe certamente titolare del potere di nomina del Consiglio di Amministrazione, detenendo la maggioranza relativa delle azioni. Da ciò scaturisce, in particolare, il potere del socio di controllo Beta Holding S.r.l. di disporre l’acquisto di una quota di azioni da parte della stessa società.

Né si potrà scalfire tale argomento sostenendo che, in ogni caso, l’acquisto di azioni proprie deve essere autorizzato dall’assemblea dei soci, ai sensi dell’art. 2357, II co. In sede assembleare, infatti, assumerebbe una rilevanza decisiva l’influenza esercitabile dal socio titolare della maggioranza delle azioni, supportata dalla decisione del Consiglio di Amministrazione. Insomma, il potere di comando – nella particolare forma dell’acquisto di azioni proprie -, trovi esso espressione in via di fatto o aritmeticamente, è esercitato, salvo l’esistenza di sindacati di voto che leghino le volontà dei soci di minoranza, dal socio titolare, nel caso esposto nel paragrafo precedente, del 43% delle azioni, vale a dire Beta Holding s.r.l.

Specialità dell’art. 2357-ter, II co., e necessaria applicazione dell’art. 2368, III co.

Preso atto della non applicabilità dell’art. 2357-ter, II co., alla ipotetica fattispecie descritta poc’anzi e alla luce del particolare rapporto con la disciplina dettata dall’art. 2368, III co., mettendo a paragone le due diverse disposizioni normative si evince il carattere di specialità della prima, in quanto derogatoria della seconda. La peculiarità dell’art. 2357-ter è rinvenibile considerando innanzitutto la sua successiva introduzione rispetto all’art. 2368 con la quale il legislatore ha voluto dettare una più specifica e puntale disciplina in merito alle azioni proprie.[6]

Queste ultime vanno infatti considerate una più specifica sottocategoria delle più generali azioni per le quali non è esercitabile il diritto di voto. Mentre infatti la disposizione dell’art. 2368 tratta del tema generale relativo alla “Costituzione dell’assemblea e validità delle deliberazioni”, affermando al III co. che “Salvo diversa disposizione di legge, le azioni per le quali non può essere esercitato il diritto di voto sono computate ai fini della regolare costituzione dell’assemblea” e che “le medesime […] non sono computate ai fini del calcolo della maggioranza e della quota di capitale richiesta  per l’approvazione della deliberazione”, l’art. 2357-ter detta una specifica “Disciplina delle proprie azioni”: al II co., difatti, dopo aver affermato la sospensione del diritto di voto relativo alle proprie azioni, impedendone dunque agli amministratori l’esercizio, prevede, in deroga a quanto disciplinato dall’art. 2368, III co., e collocandosi normativamente in quel “salvo diversa disposizione di legge” di cui sopra, che le azioni proprie siano tuttavia “computate ai fini del calcolo delle maggioranze e delle quote richieste per la costituzione e per le deliberazioni dell’assemblea”.

Infine, ciò che determina la peculiarità e la specialità normativa della disposizione di cui all’art. 2357-ter, II co., è soprattutto l’esistenza un presupposto di fatto, necessario perché la fattispecie concreta possa essere sussunta sotto la previsione astratta dettata dall’art. 2357-ter, II co., e la stessa disposizione svolga la sua funzione, in linea e coerentemente con la ratio che la giustifica giuridicamente.

Tale presupposto consiste nella eventualità che l’azionista di controllo, servendosi delle azioni proprie, abbassando queste ultime il quorum deliberativo se non computate, possa assumere decisioni autonomamente. L’ipotetica fattispecie descritta, come già sottolineato, assume un profilo totalmente differente: sono infatti i tre soci che singolarmente rappresentano la minoranza ad aver approvato la delibera e a essersi opposti al socio di comando, rappresentante da sé solo il 43% del capitale. L’applicazione della norma stessa – è bene ribadirlo – andrebbe a vantaggio del socio il cui potere essa stessa avrebbe la funzione di limitare.

Non sussistendo tale presupposto di fatto, presente invece nel caso affrontato nella recente sentenza della Cassazione, la norma risulta inapplicabile ed emerge la necessità di sussumere la fattispecie sotto la disciplina generale ex art. 2368, III co. Applicando quest’ultima disposizione, le azioni proprie non possono essere computate ai fini del quorum deliberativo: la delibera assunta dal 47% del capitale sociale, espressione della minoranza azionaria, sarebbe dunque da ritenersi senz’altro valida.

Conclusioni

La disposizione di cui all’art. 2357-ter, II co., esprime, dunque, un significato precettivo defettibile, in quanto non risulta applicabile a tutte le fattispecie concrete, come nel caso portato ad esempio. Non si tratta, per giunta, di una lacuna normativa, né tanto meno di una mancanza del legislatore: la presenza di eccezioni implicite esprime invece una manifestazione del peculiare rapporto tra norma e ragione giuridica che la giustifica, tra legislatore ed interprete.


[1] Luzzati, Prìncipi e princìpi. La genericità nel diritto, Giappichelli, Torino, 2012, p. 42.

[2] Cass. Civ. 25 maggio 2017, n. 13234.

[3] Cass. Civ. 10 ottobre 2018, n. 23950.

[4] Nt.3.

[5] Relazione illustrativa al D.lgs. 29 novembre 2010, n. 224.

[6] La prima introduzione dell’art. 2357 – ter c.c. risale al 1986.

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