Il fallimento della società cancellata dal registro delle imprese

in Giuricivile, 2019, 7 (ISSN 2532-201X)

L’art. 10 comma 1 L.F. prevede che “gli imprenditori individuali e collettivi possono essere dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo”.

Analogamente, anche l’art. 33 del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza (d. lgs. n. 14/2019), che entrerà in vigore dal 14 ottobre 2020, prevede che “la liquidazione giudiziale può essere aperta entro un anno dalla cessazione dell’attività del debitore, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l’anno successivo” (comma 1); “per gli imprenditori la cessazione dell’attività coincide con la cancellazione dal registro delle imprese e, se non iscritti, dal momento in cui i terzi hanno conoscenza della cessazione stessa” (comma 2, primo periodo). [1]

Il dies a quo del termine annuale di fallibilità dalla cancellazione

Il momento di decorrenza del termine annuale, per gli imprenditori soggetti agli obblighi di pubblicità presso la Camera di commercio, è stato individuato nel momento della cancellazione dal registro delle imprese a seguito di una serie di pronunce della Corte costituzionale. [2]

Prima di queste sentenze, recepite dal legislatore nel 2006, l’art. 10 L.F. disponeva che l’imprenditore commerciale poteva essere dichiarato fallito “entro un anno dalla cessazione dell’impresa”, accogliendo il c.d. principio di effettività: la fallibilità era ricondotta all’esercizio dell’impresa, desunto dalla giurisprudenza sulla base di indici molto ampi, con conseguente esposizione dell’imprenditore al fallimento praticamente senza termini.

L’individuazione del dies a quo dalla data, risultante per tabulas ed inoppugnabile, della cancellazione dal registro delle imprese, appare opportuna, in termini di bilanciamento tra le esigenze di soddisfazione del creditore e quelle di tutela dell’imprenditore cessato.

La cancellazione dal registro delle imprese, per le società di capitali, equivale alla cessazione della società, ai sensi dell’art. 2495 comma 2 cod. civ.

Diversamente, per gli imprenditori individuali, per le società di persone e nelle ipotesi in cui (anche per le società) la cancellazione sia avvenuta d’ufficio, l’art. 10 comma 2 L.F. ammette che il creditore possa provare la prosecuzione dell’attività d’impresa anche dopo la cancellazione, con applicazione in tal caso del principio di effettività.

Le società non iscritte al registro delle imprese (società irregolari e società occulte), si sostiene autorevolmente che il fallimento possa essere dichiarato senza limiti di tempo. [3]

A tale ipotesi viene accomunata quella della prosecuzione dell’attività di una società di capitali dopo la cancellazione della società, da parte dei soci: in questo caso, poiché la società di capitali non può proseguire come tale dopo la cancellazione, ai sensi dell’art. 2495 comma 2 cod. civ., si ritiene che si venga a costituire una società di fatto tra i soci, che saranno esposti personalmente al fallimento, senza limiti di tempo. [4]

In via generale, anche l’art. 147 L.F. (ed ora l’art. 256 d. lgs. 14/2019) prevede che il fallimento (o la liquidazione giudiziale) dei soci illimitatamente responsabili possa avvenire entro l’anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata.

Ciò premesso, quid iuris se, pur essendo stata proposta dai soggetti interessati (creditori e P.M.) istanza di fallimento di una società di capitali entro il termine previsto dall’art. 10 comma 1 L.F. (ed ora dall’art. 33 comma 2 d. lgs. 14/2019), la sentenza dichiarativa del fallimento (o la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale, nella disciplina del nuovo Codice) dovesse venire pronunciata oltre l’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese?

Ebbene, ad oggi, il rischio della durata del procedimento prefallimentare oltre l’anno dalla cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese è a carico del creditore, nonostante questi abbia presentato tempestivamente istanza di fallimento.

La Corte di Cassazione (sezione I, sentenza n. 8932 del 12/04/2013) ha escluso la ricorrenza dei presupposti per sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 comma 1 L.F. rispetto agli artt. 3 e 24 Cost., per due ordini di motivi.

In primo luogo, la diversa durata del procedimento prefallimentare non integra una disparità di trattamento dei creditori, ma è dovuta semplicemente al concreto svolgersi del procedimento, situazione di fatto irrilevante ai fini dell’illegittimità costituzionale dell’art. 10 comma 1 L.F.

Inoltre, la previsione del termine annuale di fallibilità dalla cancellazione costituisce un punto di mediazione, a tutela da un lato dell’interesse dei creditori, e dall’altro dell’interesse generale alla certezza dei rapporti giuridici, che coincide con l’interesse del cessato imprenditore.

In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che prevedere una sorta di “effetto prenotativo” dell’istanza di fallimento rispetto alla fallibilità, vanificherebbe la ratio della disposizione dell’art. 10 comma 1 L.F.

A conforto di questa tesi, in chiave sistematica, si tenga presente quanto avviene nel procedimento regolato dall’art. 22 L.F.

Qualora il tribunale abbia rigettato l’istanza di fallimento, il ricorrente potrà proporre reclamo davanti alla Corte d’appello, la quale, nell’ipotesi di accoglimento del reclamo, rimetterà gli atti al tribunale, perché proceda alla dichiarazione di fallimento.

L’art. 22 comma 5 L.F. prevede che il termine annuale per la declaratoria di fallimento previsto dall’art. 10 comma 1 L.F. decorra dalla data (di pubblicazione) del decreto di accoglimento del reclamo reso dalla corte d’appello. [5]

In questo caso, stante l’erronea pronuncia del tribunale sulla fallibilità, viene fittiziamente fatto decorrere il termine annuale di fallibilità, con finalità chiaramente cautelative per gli istanti il fallimento, per l’ipotesi in cui il fallimento non possa più essere dichiarato entro l’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, per cause a lui non imputabili.

Emerge dunque chiaramente dal dato normativo come la legge non attribuisca alcun rilievo alla circostanza che l’istanza di fallimento sia stata proposta nei termini di cui all’art. 10 comma 1 L.F.

Questione relativa alla nullità della sentenza dichiarativa di fallimento resa oltre l’anno dalla cancellazione

La Suprema Corte, nella pronuncia citata, ha anche preliminarmente ritenuto ammissibile nel giudizio di legittimità la questione relativa alla nullità della sentenza dichiarativa di fallimento, resa oltre l’anno dalla cancellazione dal registro delle imprese: non si tratterebbe, infatti, di una questione nuova, non deducibile per la prima volta nel giudizio di legittimità (in quanto non dedotta come motivo di reclamo avverso la sentenza di fallimento), “poiché tale ipotesi ricorre soltanto quando la questione non dedotta innanzi al giudice del merito non era da questi rilevabile d’ufficio ovvero, pur essendo rilevabile d’ufficio, comportava nuovi accertamenti di fatto non consentiti in sede di legittimità”.

Più di recente, la Corte costituzionale (sentenza n. 9 del 13/01/2017) ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla sezione fallimentare del Tribunale di Verona, rispetto all’art. 10 comma 1 L.F., nella parte in cui non interrompe il decorso del termine annuale, in pendenza di una domanda di concordato preventivo presentata dall’imprenditore (società di capitali) durante l’anno dalla cancellazione del Registro delle imprese.

Nel caso di specie, erano state presentate diverse istanze di fallimento nei confronti di una società di capitali, durante in pendenza dell’anno dalla cancellazione della stessa dal registro delle imprese.

Con l’evidente fine di impedire la dichiarazione di fallimento, alcuni ex-soci della società cancellata aveva depositato, in nome della società, domanda di concordato preventivo.

Tale domanda era stata dichiarata poi inammissibile (per inosservanza dei prescritti obblighi informativi) dal Tribunale di Verona, ma solo successivamente al decorso dell’anno dalla cancellazione della società dal registro delle imprese.

Il Tribunale fallimentare, in sede di procedimento prefallimentare, aveva rilevato che la dichiarazione di fallimento era ormai preclusa dal decorso del termine annuale previsto dall’art. 10 L.F.

Sollevata la questione di legittimità costituzionale, la Corte costituzionale ne ha dichiarato l’inammissibilità, in quanto è infondata la premessa di fatto: secondo i giudici di legittimità costituzionale, infatti, la legittimazione dell’impresa cancellata dal Registro delle imprese a presentare domanda di concordato preventivo è discutibile e tendenzialmente esclusa sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza (Cass. civ., sez. VI, ord. n. 21286/2015).

In effetti, la cancellazione dal registro delle imprese è causa di estinzione della società di capitali (art. 2495 comma 2 cod. civ.), e non si verifica alcuna successione (a titolo universale) dell’attività di impresa in capo ai soci: conseguentemente, agli stessi non può spettare la legittimazione attiva a proporre una domanda di concordato preventivo, avuto riguardo alla ratio stessa dell’istituto, sia nel tipo liquidatorio che in continuità.

La cancellazione di una società (ed in generale di una impresa) dal registro delle imprese, comportando la fine della attività imprenditoriale, presuppone che sia già avvenuta la fase di liquidazione dell’attivo e del passivo sociale. Non si comprende, allora, come una società cancellata, a mezzo dei suoi ex-soci, possa legittimamente presentare domanda di concordato preventivo liquidatorio.

Men che meno si comprenderebbe la proposizione di una domanda di concordato preventivo in continuità, esclusa in radice dalla cancellazione dal registro delle imprese, che nelle società di capitali produce effetti costitutivi dell’estinzione della società.

Laddove la domanda di concordato preventivo sia stata proposta come “difesa” rispetto all’istanza di fallimento, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “la domanda di ammissione al concordato non è uno dei mezzi attraverso i quali si esplica il diritto di difesa del fallendo in sede di istruttoria prefallimentare e non può essere intesa quale strumento dilatorio, posto a disposizione dell’impresa insolvente per ritardare la dichiarazione di fallimento”. [6]

La Suprema Corte ha dunque chiarito che la proposizione della domanda di concordato preventivo da parte di una società di capitali cancellata è contraddittoria rispetto alla avvenuta cancellazione.

Pertanto, a contrario, si può affermare che nell’ipotesi di specie i procedimenti prefallimentari sarebbero dovuti proseguire, indipendentemente dalla proposizione della domanda di concordato preventivo – con il limite, ripetutamente riaffermato dalla giurisprudenza, che la dichiarazione di fallimento deve intervenire comunque entro l’anno dalla cancellazione di fallimento.

Domanda di concordato preventivo di una società non cancellata, in pendenza di istanza di fallimento

Rimane da esaminare un’ultima questione, in ordine alla proponibilità della domanda di concordato preventivo da parte di una società non cancellata, in pendenza di istanza di fallimento.

Il tema investe più in generale il rapporto tra l’istanza di fallimento e la domanda di concordato preventivo.

L’art. 160 L.F. (“Presupposti per l’ammissione alla procedura” di concordato preventivo) è stato riformulato nel 2005, in particolare con l’eliminazione dell’inciso relativo alla facoltà del debitore di proporre domanda di concordato preventivo “fino a che il suo fallimento non è dichiarato“.

Da questo inciso, la giurisprudenza desumeva il principio della prevalenza del concordato rispetto al fallimento, con il corollario della impossibilità di dichiarare il fallimento senza previa decisione (negativa) sull’ammissibilità dell’eventuale domanda di concordato preventivo (Cass. civ. sez. I, n. 18190/2012; SS.UU., n. 1521/2013). Sul piano processuale, il procedimento fallimentare si sospendeva ex art. 295 c.p.c., in attesa della pronuncia (pregiudiziale) sulla domanda di concordato preventivo.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenze n. 9935/2015 e n. 9936/2015, hanno affermato che, a fronte dell’attuale testo dell’art. 160 L.F., vale la regola della continenza della domanda di fallimento rispetto a quella di concordato preventivo.

In altre parole, i procedimenti andranno necessariamente riuniti, ex art. 39 comma 2 c.p.c., ed il giudice adito dovrà prima pronunciarsi in ordine alla domanda di concordato preventivo, e successivamente sul fallimento, seguendo una regola di priorità logica, ancorché la Suprema Corte non ravvisi, nell’odierna disciplina, l’esistenza di un rapporto di pregiudizialità tecnico-giuridica tra i due istituti. [7]

In particolare, le sentenze citate hanno stabilito il seguente principio di diritto: “la domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi di un abuso del processo”.

Dunque, mentre la domanda di concordato preventivo presentata dalla società di capitali cancellata in pendenza di un procedimento prefallimentare è inammissibile, la medesima domanda presentata dalla società non cancellata, pure in pendenza di un procedimento fallimentare, determina che quest’ultimo debba essere riunito al procedimento di concordato preventivo, ex art. 39 comma 2 c.p.c.: il Tribunale, una volta rigettata la domanda di concordato preventivo, potrà, ove ricorrano i presupposti, dichiarare il fallimento della società.


[1] L’art. 33 comma 2, secondo periodo, d. lgs. 14/2019, prevede l’obbligo per l’imprenditore di mantenere aperta per un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese la casella di posta elettronica certificata comunicata nei pubblici registri.

[2] Corte cost. n. 66/1999, n. 319/2000, n. 361/2001 e n. 131/2002.

[3] G. F. Campobasso, Diritto commerciale, vol. 1, VII ed., 2014, p. 105; vol. 2, VIII ed., 2014, p. 126 nt. 155.

[4] Ibidem, p. 106 nt. 30.

[5] Nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, la norma è riportata all’art. 50 comma 6.

[6] Cass. civ., sez. VI, ord. n. 21286/2015.

[7] Peraltro, l’art. 161 ultimo comma L.F. si occupa espressamente di questa possibilità, prevedendo – con evidenti finalità preventive di domande di concordato dilatorie – che in pendenza della dichiarazione di fallimento il termine concesso per il deposito dei documenti nel c.d. “concordato in bianco” sia ridotto al minimo di sessanta giorni, prorogabili di altri sessanta.

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