Nell’ambito del diritto della crisi d’impresa esigenza preliminare è quella di salvaguardare l’integrità del patrimonio del debitore. Lo stesso, infatti, già dal momento della sua incapienza, é potenzialmente destinato ai suoi creditori. Per soddisfare tale esigenza ben potrebbe profilarsi all’orizzonte la prospettiva del mantenimento in attività dell’impresa, soprattutto nel momento in cui la stessa risulti dotata di valore d’avviamento.
Ma affinché il mantenimento della continuità aziendale sia nell’interesse dei creditori occorre che nel caso concreto sussista almeno una delle seguenti condizioni:
1) sussista un beneficio immediato, derivante dal fatto che l’impresa è in grado di generare immediatamente utili;
2) sussista un beneficio futuro, in quanto, a seguito di una eventuale ristrutturazione, l’impresa è potenzialmente in grado di tornare a produrre utili in un tempo relativamente breve.
Diversa considerazione vale nel caso opposto: ove l’impresa produca perdite e in prospettiva, non ha alcun valore, se non quello che deriva dalla somma dei suoi beni, la continuazione dell’attività di impresa appare inutile, in quanto il rapporto tra valore assorbito dall’impresa e valore creato dalla stessa è sbilanciato a favore del primo, in quanto vi è una prevalenza delle passività.
La giurisprudenza di legittimità ha statuito in una recente pronuncia che “la continuità aziendale rappresenta un bene che, dal punto di vista dei creditori, merita tutela solo se il complessivo valore del patrimonio del loro debitore possa ridursi qualora l’attività d’impresa venisse interrotta.[1]”
Da tale affermazione si può desumere il principio per cui la continuità aziendale è un vero e proprio bene, meritevole di tutela dal punto di vista dei creditori nel momento in cui l’interruzione dell’attività d’impresa possa determinare una riduzione del complessivo valore del patrimonio del debitore.
Inquadramento sistematico-normativo del concordato con continuità aziendale. Caratteri dell’istituto e forme che può assumere lo stesso, con particolare riferimento alla continuità diretta e indiretta
Da un punto di vista normativo la fattispecie del concordato con continuità aziendale è prevista dall’art. 186 bis l.fall., norma introdotta con il D.L. n. 83/2012, convertito con modificazioni dalla legge n. 134/2012. La ratio di tale intervento normativo va ravvisata nell’esigenza di porre rimedio ai problemi applicativi emersi in ipotesi di concordato preventivo in cui era stata mantenuta la continuità aziendale.
L’art. 186-bis l.fall. assieme al precedente art. 182 quinquies riguardano la specifica ipotesi in cui, in pendenza della procedura di concordato, vi sia esercizio dell’attività di impresa e tale esercizio diventi parte del parte del piano. Da qui l’opinione dominante in dottrina e giurisprudenza per cui le due menzionate norme non hanno creato una nuova figura di concordato. In tale prospettiva è utile l’analisi del comma 1 dell’art. 186- bis l.fall. che dispone: “quando il piano di concordato di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e) prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del presente articolo. Il piano può prevedere anche la liquidazione di beni non funzionali all’esercizio dell’impresa”.
Dalla norma si può desumere che la continuità aziendale può assumere in concreto 3 forme:
1) prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore;
2) cessione dell’azienda in esercizio;
3) conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione.
Con riferimento alla prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore occorre rilevare che in tal caso vi è un esercizio diretto dell’impresa da parte del debitore.
In relazione alla cessione dell’azienda in esercizio vi è da dire che in tal caso i creditori sono destinati ad essere soddisfatti “anche” con i proventi della cessione dell’azienda in esercizio.
Per quanto concerne il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, giova rilevare che con tale forma il debitore conferisce l’azienda, priva di debiti (se non quelli che le si intendano trasferire espressamente), in una o più società (di regola di nuova costituzione). I creditori potranno essere soddisfatti: 1) direttamente dalla società conferitaria che si pone come assuntore; 2) dal debitore con il corrispettivo della cessione della partecipazione.
Elemento che accomuna le tre forme con le quali può venire in rilievo la continuità aziendale è che i creditori sono esposti ad un duplice rischio: la riduzione dei valori e il maturare della prededuzione.
Quindi dall’art. 186-bis l.fall. si può facilmente desumere la circostanza secondo cui la continuità può esplicarsi sia nella forma della “continuità diretta”, sia nella forma della “continuità indiretta”.
Nel primo caso non vi è una separazione tra impresa e proprietà, in quanto l’esercizio della prima viene proseguito dallo stesso imprenditore, che trae i flussi per la soddisfazione dei creditori proprio da quell’attività.
Nel secondo caso la continuità è funzionale al “mantenimento in funzione dell’impresa”, al fine di non disperdere le componenti aziendali nell’ottica della vendita o del conferimento.
Le due forme dianzi indicate sono accomunate dalla medesima previsione legislativa, ma le differenziazioni tra le stesse consentono di distinguere le finalità cui le stesse tendono. Sono quindi ambedue specificazione del genere continuità aziendale, che in concreto può assumere diverse forme, cui corrispondono differenti finalità.
Nel concordato con continuità diretta la prosecuzione dell’attività è funzionale al “risanamento”: l’imprenditore, attraverso il tentativo di ricondurre nell’area della redditività l’impresa, tende al suo ritorno in bonis, ossia al ripristino della propria capacità di far fronte alle proprie obbligazioni. Vi sarà da valutare il successo o l’insuccesso del programma concordatario attuato, e il parametro di tale valutazione non potrà che essere dato dalla realizzazione del tentativo dianzi indicato. Infine, la prosecuzione della gestione aziendale da parte dell’imprenditore, proprio in quanto funzionale al tentativo di riconduzione dell’impresa all’area della redditività, non potrà che avere carattere duraturo.
Con la procedura concordataria attuata nella forma della continuità indiretta non si tende a ricondurre l’impresa nell’area della redditività, ma si tende alla “conservazione” del valore dei complessi aziendali in vista della loro cessione o del conferimento, da cui verranno ricavate le liquidità necessarie per il soddisfacimento dei creditori. Ciò che preme sottolineare è che il legislatore ha creato una separazione tra: 1) attività d’impresa prima della cessione o del conferimento; 2) attività d’impresa successiva alla cessione o al conferimento.
Lo stesso, tuttavia, si interessa solo della continuazione prima della cessione, favorita da agevolazioni di cui si parlerà in modo specifico in seguito. Giova anticipare che la ratio delle stesse è quella di consentire il trasferimento di un’azienda in esercizio alla scopo di ottenere una migliore liquidazione. Non è un caso se il legislatore, all’art. 186-bis, c.1 l.fall. faccia due volte riferimento all’azienda in esercizio: “la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio”.
Il legislatore sembra invece disinteressarsi completamente della continuità successiva alla cessione o al conferimento. Con riferimento alla stessa occorre evidenziare che la continuazione dell’attività avviene nell’ottica della ricollocazione sul mercato dell’azienda, al fine del mantenimento dei valori aziendali nella prospettiva di un miglior realizzo nell’interesse dei creditori. Quindi non viene in rilievo necessariamente la prospettiva che un nuovo imprenditore possa risanare l’impresa. In altri termini, è secondaria la prospettiva del risanamento dell’attività produttiva attraverso il mutare del soggetto titolare dell’impresa.
Regime giuridico del concordato con continuità aziendale. Le cautele e le agevolazioni normativamente previste: in particolare, i relativi profili funzionali e strutturali e il presupposto di applicazione delle medesime
Da quanto esposto in precedenza, la continuità aziendale si pone come “parte” della complessiva operazione concordataria che il debitore si propone di attuare. Da ciò deriva che l’applicazione dell’art. 186-bis l.fall. non dipende da una scelta del debitore. A quest’ultimo infatti è lasciata la scelta del se mettere in atto o non mettere in atto la fattispecie continuità aziendale: se sceglie di metterla in atto la disciplina applicabile è quella dettata dall’art. 186-bis l.fall..
Tale ultima norma prevede agevolazioni e cautele, funzionali alla tutela dei creditori, al fine di evitare il rischio che la continuità aziendale possa concretarsi in un danno per gli stessi.
Infatti l’art. 186-bis l.fall. prevede che: “nei casi previsti dal presente articolo:
- a) il piano di cui all’articolo 161, secondo comma, lettera e), deve contenere anche un’analitica indicazione dei costi e dei ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura;
- b) la relazione del professionista di cui all’articolo 161, terzo comma, deve attestare che la prosecuzione dell’attività d’impresa prevista dal piano di concordato è funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori;
- c) il piano può prevedere, fermo quanto disposto dall’articolo 160, secondo comma, una moratoria fino a un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori muniti di privilegio, pegno o ipoteca, salvo che sia prevista la liquidazione dei beni o diritti sui quali sussiste la causa di prelazione. In tal caso, i creditori muniti di cause di prelazione di cui al periodo precedente non hanno diritto al voto”.
La norma prevede che, nel momento in cui nel piano di concordato sia prevista la continuità aziendale nelle 3 forme delineate poc’anzi (par. 2), esso deve avere specifici requisiti:
1) deve avere una maggiore analiticità;
2) la relazione del professionista ex art. 161 comma 3, l.fall. deve contenere una specifica certificazione con riferimento alla convenienza per i creditori della prosecuzione dell’attività di impresa.
Con riferimento alla prima “cautela” prevista dall’art. 186-bis, comma 2, lett. A), l.fall. occorre mettere in rilievo la circostanza che il legislatore ha imposto al debitore di effettuare un’analisi degli effetti e dei costi della continuità aziendale, che occorre illustrare nel piano, e ciò al fine precipuo di consentire agli organi della procedura ed ai creditori di effettuare le proprie valutazioni. Il debitore dovrà quindi indicare “analiticamente” i costi e i ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività di impresa, le risorse finanziarie necessarie a tal fine e le relative modalità di copertura. E sul punto determinante é la struttura assunta dal piano di concordato, in quanto tale analisi effettuata dal debitore deve coprire tutto il periodo in cui la continuità dell’attività d’impresa sia rilevante per i creditori. Emerge quindi, con riferimento alla prima cautela, l’esigenza di tutela del ceto creditorio.
La seconda “cautela” è prevista dall’art. 186-bis, comma 2, lett. B), l.fall., che stabilisce che la relazione del professionista ex art. 161, comma 3, l.fall. attesti:
1) la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano;
2) che l’attività di impresa sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori.
La ratio della previsione normativa è nel senso di chiedere al professionista di validare le informazioni trasmesse dal debitore nell’ipotesi in cui quest’ultimo espone i suoi creditori ai rischi e alle incertezze della continuità aziendale. Anche con riferimento a tale seconda “cautela” preminente è l’esigenza di tutela del ceto creditorio.
Quanto ai caratteri e alla natura di siffatte cautele, per la giurisprudenza di legittimità la prima delle suesposte “cautele” appare una specificazione delle regole che riguardano la corretta predisposizione del piano di concordato. Si legge infatti in Cass. I sez. civile, sent. n. 29742/2018 che: “Se redatto correttamente, infatti, quest’ultimo (piano di concordato), ove ipotizzi la continuazione dell’attività di impresa come modalità prevista dal concordato, dovrebbe comunque prendere posizione su costi e ricavi attesi dalla prosecuzione dell’attività, così come sulle risorse finanziarie necessarie e sulla loro fonte, a prescindere dalla sussistenza di una prescrizione ad hoc”.
La seconda cautela invece, sempre secondo un indirizzo consolidato della Suprema Corte, avrebbe carattere “innovativo”, non avendo la consistenza di specificazione di particolari regole. Essa è funzionale all’aggiunta di una ulteriore attestazione a quelle che il professionista deve rendere a norma dell’art. 161, comma 3, l. fall. Al professionista, soggetto indipendente, è richiesta una duplice verifica, sul piano e sulla proposta: 1) con riferimento al piano egli dovrà verificare che la continuità aziendale generi “valore”; 2) con riferimento alla proposta, egli dovrà verificare che la stessa, così come presentata in concreto dal debitore, metta a disposizione dei creditori almeno parte di tale “valore”.
Alla luce di quanto evidenziato in precedenza, le due cautele sopra analizzate sono funzionali a responsabilizzare debitore e professionista attestatore, e ciò nell’ottica della miglior tutela degli interessi dei creditori tutte le volte in cui sul soddisfacimento degli stessi incide l’andamento dell’impresa. E ciò è uno scenario delineabile in astratto quando:
1) la soddisfazione dei creditori dipende, in tutto o in parte, dal futuro andamento dell’impresa. In tal caso viene in rilievo un vero e proprio “rischio di perdita”, ipotizzabile quando: 1.1.) i creditori devono essere soddisfatti direttamente da chi esercita l’impresa (debitore o assuntore cui viene conferita l’impresa); 1.2) i creditori devono essere soddisfatti mediante il prezzo di vendita dell’azienda: può considerarsi l’ipotesi dell’acquirente dell’azienda che pagherà un prezzo tanto più elevato quanto più l’andamento sia positivo;
2) sui creditori potrebbe gravare un “rischio di prededuzione”, nel caso in cui l’impresa continui l’attività in pendenza di procedura, anche a prescindere dalla struttura della proposta e dalla destinazione dei ricavi prodotti dall’impresa ai creditori.
La circostanza che il legislatore abbia voluto mostrare un favor verso la fattispecie della continuità aziendale la si desume inoltre dalle agevolazioni normative che possono “facilitare” il ricorso alla stessa. Con riferimento a tali agevolazioni, le stesse possono essere di due tipi: 1) quelle esclusive del concordato di continuità; 2) quelle comuni a tutte le forme di concordato (residuali rispetto alle prime).
Per quanto riguarda le agevolazioni normative del primo tipo possono menzionarsi:
1) la continuità contrattuale, di cui all’art. 186-bis, comma 3 l.fall.: “Fermo quanto previsto nell’articolo 169 bis, i contratti in corso di esecuzione alla data di deposito del ricorso, anche stipulati con pubbliche amministrazioni, non si risolvono per effetto dell’apertura della procedura (2). Sono inefficaci eventuali patti contrari”. In pratica per effetto della norma citata vi è una “sterilizzazione” del deposito della domanda come possibile causa di risoluzione dei contratti. Per effetto dell’apertura della procedura pertanto non si risolvono i contratti “in corso di esecuzione” alla data di deposito del ricorso, anche se gli stessi sono stati stipulati con una pubblica amministrazione. La seconda parte della norma in commento prevede altresì l’inefficacia di eventuali clausole contrattuali che prevedano in modo espresso lo scioglimento del contratto come conseguenza della sottoposizione a procedura concorsuale del debitore. La ratio della disposizione è far sì che non siano compromessi i benefici derivanti dai contratti in corso di esecuzione alla data del deposito della domanda. Con riferimento all’ambito applicativo, la norma de qua trova applicazione anche con riferimento ai contratti stipulati con una PA: “L’ammissione al concordato preventivo non impedisce la continuazione di contratti pubblici se il professionista designato dal debitore di cui all’articolo 67 ha attestato la conformità al piano e la ragionevole capacità di adempimento”. E’ necessario quindi che il debitore presenti una relazione con cui un professionista indipendente attesti che lo stesso contratto abbia una coerenza con il piano di concordato depositato ai sensi dell’art. 161, comma 2, lett. E) e che il debitore, in relazione a tale piano, è in grado di adempiere le obbligazioni derivanti da contratto. Con riferimento alle procedure di assegnazione di contratti pubblici è ammessa la partecipazione del debitore che ha presentato un concordato con continuità aziendale e che ha già presentato il piano, ma a condizione che l’impresa presenti in gara una relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d) l.fall., che attesti la conformità al piano del contratto e la ragionevole capacità di adempimento del contratto medesimo. E ciò in deroga alla regola che preclude ai soggetti sottoposti a procedure concorsuali di partecipare a procedure per l’assegnazione di contratti pubblici.
2) la possibilità di prevedere, nella proposta di concordato, una moratoria fino ad un anno dall’omologazione per il pagamento dei creditori prelatizi (art. 186-bis, comma 2, lett. C)
3) possibilità di pagare i fornitori strategici per la continuazione dell’attività d’impresa per i crediti anteriori da essi vantati (ex art. 182-quinquies, comma 4, l.fall).
Per quanto riguarda le agevolazioni del secondo tipo, che sono state definite “generali”, esse sono funzionali a facilitare il ricorso al concordato con continuità aziendale, ma non lo presuppongono. Esse nella specie sono: 1) sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione ex art. 182-sexies l.fall. in conseguenza del deposito di una domanda di concordato preventivo; 2) possibilità di contrarre finanziamenti prededucibili in pendenza di un concordato preventivo (art. 182-quinquies, commi 1, 2 e 3 l.fall.); 3) possibilità di sciogliere selettivamente i contratti onerosi (art. 169-bis l.fall.).
Per dar luogo all’applicazione delle norme facilitative e di cautela connesse alla continuità aziendale, occorre che si verifichi la fattispecie, anche se in modo parziale: se la continuità per esempio riguardasse un solo ramo aziendale, è in relazione a questo che si verificherà ai sensi del comma 3 dell’art. 182-bis l.fall. la conservazione dei contratti ed è sempre in relazione a questo che il piano e la relazione del professionista dovranno fornire le informazioni specifiche richieste dall’art. 186-bis comma 2, lett. A) e b). Stesso ragionamento secondo la giurisprudenza di legittimità andrebbe fatto nel caso in cui l’esercizio sia temporaneo e l’attività sia destinata a proseguire in mani diverse. Se infatti attività cessasse, verrebbe meno la stessa fattispecie.
La questione della compatibilità del concordato con continuità aziendale con l’affitto di azienda alla luce di Cass. I sez. civile, sent. n. 29742/2018: disamina degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali esistenti sul punto e della soluzione offerta dalla Suprema Corte
Tutto ciò premesso, occorre analizzare la specifica questione del se il concordato possa dirsi con continuità aziendale anche quando l’azienda è stata affittata o è destinata ad esserlo, tenendo conto delle fondamentali coordinate ermeneutiche fornite da Cass. I sez. civile, sent. n. 29742/2018.
Sul punto è necessario riportare le opinioni divergenti emerse in dottrina e giurisprudenza nei mesi successivi alla pubblicazione della legge 134/2012.
Secondo un primo orientamento, che valorizza un’interpretazione letterale dell’art. 186-bis l.fall., il legislatore, nel definire i confini dell’istituto della continuità aziendale, ha considerato solo la cessione ed il conferimento, e non l’affitto, come forme attraverso cui è possibile esprimere la continuità indiretta dell’attività d’impresa. Oltre al dato letterale, i sostenitori di tale tesi rilevano che il rischio imprenditoriale sarebbe estraneo alla disciplina dell’affitto d’azienda, mentre sarebbe connaturato alla sola continuità aziendale come prospettata dal legislatore del 2012. Infatti si rileva che nel concordato con continuità vi è una maggiore rischiosità “intrinseca”, insita nella prosecuzione dell’attività di impresa in capo all’imprenditore. Per tali Autori a fronte di tale prosecuzione “intrinsecamente rischiosa” si ricollega la necessità di una produzione documentale sussidiaria, funzionale a fornire una indicazione analitica di ricavi e costi attesi dalla prosecuzione dell’attività, delle risorse finanziarie necessarie e delle relative modalità di copertura. Nell’affitto di azienda invece vi sarebbe un trasferimento sull’affittuario del rischio di impresa, salvo per quanto attiene la riscossione dei canoni: alla luce di tali premesse è stato sostenuto che in presenza di aziende affittate a terzi, ove il rischio incombe direttamente sull’affittuario (e non sul debitore), non troverebbe applicazione l’art. 186-bis l. fall.
Tale orientamento ritiene che possa operarsi una differenziazione a seconda che l’affitto d’azienda abbia inizio prima o dopo l’apertura del procedimento concordatario: infatti, nel caso in cui l’affitto di azienda abbia avuto inizio dopo l’apertura del procedimento concordatario il rischio d’impresa graverà temporaneamente sui creditori e ciò giustifica la predisposizione di un piano che possa fornire una descrizione previsionale dell’andamento aziendale, dai cui risultati dipende il miglior soddisfacimento dei creditori; invece l’affitto di azienda stipulato prima dell’apertura del procedimento concordatario potrebbe essere compatibile solo con uno schema concordatario “meramente liquidatorio”, in quanto l’affittante si limita a percepire i canoni di affitto. Si è poi ritenuto che, in presenza dell’affitto, non troverebbero giustificazione le agevolazioni di cui si è fatto menzione in precedenza, come per esempio la continuità contrattuale prevista dall’art. 186-bis, comma 3 l.fall. Si è argomentata tale prospettazione sostenendo che tali facilitazioni sono state previste dal legislatore per favorire la conservazione dell’azienda, e le stesse pertanto, non risulterebbero dirette all’incentivazione dell’investimento di parti terze.
La tesi opposta è basata essenzialmente sulla valorizzazione dell’elemento oggettivo della prosecuzione dell’attività d’impresa: tale orientamento predilige l’aspetto oggettivo della continuazione, indipendentemente dal soggetto che la pone in essere. Si va al di là quindi di una mera interpretazione letterale del dato normativo. Secondo i sostenitori di tale tesi la disciplina del concordato con continuità può trovare applicazione ogni volta che il soddisfacimento dei creditori è in qualche modo riconducibile alla prosecuzione dell’attività d’impresa.
Gli Autori favorevoli all’affitto ridimensionano anche la questione del rischio d’impresa trasferito sull’affittuario, in quanto l’affittante, a seguito della concessione in godimento dell’impresa a soggetti terzi, rimane esposto a vari rischi. Alla luce di ciò non si potrebbe negare la circostanza che il rischio di impresa continui a gravare sul soggetto in concordato (seppur indirettamente) e che l’andamento dell’attività d’impresa vada ad incidere sulla stessa fattibilità del piano.
Occorre dar conto anche di un orientamento minoritario, per il quale sarebbe indifferente la circostanza che, al momento della ammissione del concordato o del deposito della domanda, l’azienda sia esercitata dal debitore o da un terzo e questo perché in ogni caso, il contratto d’affitto è un mezzo funzionale attraverso cui giungere alla cessione o al conferimento dell’azienda, senza che si possa profilare il rischio della perdita dei valori intrinseci, tra cui l’avviamento. Tale orientamento presenta dei limiti in quanto non affronta fondamentali questioni, come per esempio quelle legate alla continuità contrattuale, alla moratoria nel pagamento dei creditori privilegiati.
Al fine della risoluzione della questione risulta utile distinguere la figura dell’affitto di azienda in: 1) affitto puro o fine a sé stesso; 2) affitto-ponte.
Tra i due, quello che ha avuto maggiore successo nella prassi applicativa e giurisprudenziale è stato l’affitto ponte, finalizzato al trasferimento dell’attività in esercizio.
Con tale schema di affitto vi è da parte dell’affittuario l’assunzione irrevocabile di un obbligo all’acquisto sotto la condizione dell’omologazione. Lo stesso soggetto garantisce la continuità aziendale durante la procedura. Viene per così dire conferita solidità alla proposta, che trova un elemento di rassicurazione per il ceto creditorio nel vincolo all’acquisto. Con riferimento all’ambito applicativo soggettivo, tale schema è utilizzabile sia nel caso in cui il potenziale acquirente sia un soggetto terzo, sia nel caso in si tratti di una società newco costituita dall’imprenditore in crisi.
Si è posto quindi il problema della compatibilità dell’affitto nella versione ponte con l’art. 186-bis l.fall.. Per risolvere tale problema sono stati individuati 3 requisiti prioritari:
1) al momento della domanda vi deve essere la sopravvivenza dell’azienda in esercizio in capo all’imprenditore: tale condizione consente l’applicazione dell’art. 186-bis l.fall (anche con riferimento alla produzione del piano);
2) nel piano concordatario deve esservi la previsione dell’affitto e della successiva cessione, in tal modo rispettando il disposto di cui all’art. 186-bis l.fall. nella parte in cui dispone: “quando il piano di concordato di cui all’art. 161, comma 2, lett e), l.fall. prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessazione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione, si applicano le disposizioni del presente articolo”;
3) la conservazione in capo al debitore della qualità di imprenditore.
Uno schema frequentemente usato nella soluzione concordataria, e riconducibile al contratto d’affitto ponte con le caratteristiche dianzi indicate, prende il nome di concordato “preconfezionato” o “chiuso”, in base al quale le condizioni economiche vengono concordate tra il terzo affittuario/promittente cessionario e l’imprenditore in crisi prima dell’apertura della procedura concordataria. E ciò porta con sé implicazioni di notevole rilievo: il valore attribuito all’asset aziendale sarà dettato dal grado di soddisfacimento che si vuole dare ai creditori (e non dal valore obiettivo dell’azienda), con la possibilità di porre in essere condotte abusive in frode ai creditori stessi. A tale circostanza l’ordinamento ha reagito con l’introduzione dell’art. 163-bis l.fall., che impone l’avvio di procedure competitive prima dell’adunanza dei creditori. Tale ultima disposizione normativa è chiaramente finalizzata ad esporre il bene o il ramo aziendale, oggetto della proposta, ad una valutazione di mercato, che sappia alzare i profili di corrispettivo rispetto a quelli che debitore e affittuario hanno pattuito. L’ipotesi di procedure competitive troverà applicazione pertanto:
1) nel caso in cui il piano di concordato comprende una offerta da parte di un soggetto già individuato avente ad oggetto il trasferimento in suo favore (art. 163-bis, comma 1, l.fall.);
2) caso in cui, pendente la fase prenotativa, il debitore chiede l’autorizzazione alla stipulazione di un contratto di affitto d’azienda (163-bis, ult. comma, l.fall.).
Per la Suprema Corte “la lettura della legge n.134 induce a ritenere che il legislatore del 2012 abbia non solo inteso favorire la prosecuzione dell’attività d’impresa in senso tanto soggettivo quanto oggettivo (basti pensare alla compiuta disciplina sui contratti in corso di esecuzione o alla puntuale regolamentazione dei finanziamenti) ma si sia dimostrato particolarmente preoccupato degli effetti di tale scelta, così temendo una espansione incontrollabile della prededuzione a danno della concorsualità”[2].
Con riferimento ai caratteri salienti della continuità aziendale la il Supremo Collegio afferma che essa: “è stipulazione definitoria contemporaneamente “opaca e duttile”, che va intimamemente collegata al rapporto materiale e giuridico che il debitore intende mantenere con la propria azienda durante, in vista ed ai fini del risanamento”[3].
La Corte distingue altresì tra una continuità in senso “forte”, ove il piano concordatario prevede il pagamento dei creditori attraverso la prosecuzione dell’attività d’impresa da parte del debitore, e una continuità in senso “debole”, ove il risanamento venga attuato attraverso una serie di attività strumentali alla cessione dell’azienda in esercizio, come l’affitto di azienda (che secondo la Suprema Corte può essere accompagnato “eventualmente ma non necessariamente” da una proposta irrevocabile di acquisto ad un prezzo garantito).
Ne deriva che la continuità sarà tanto più debole quanto più probabile e prossima sarà la perdita di contatto dell’imprenditore con la propria azienda. Sempre per il Supremo Collegio quanto più la continuità potrà dirsi forte, tanto più puntuali e penetranti dovranno essere il contenuto stesso del piano concordatario di cui all’art. 186-bis, comma 2, lett.a) l.fall. e le attestazioni di cui alla lett b) del medesimo articolo. In caso di continuità forte ancora maggiore dovrà essere la possibilità, per il tribunale, di controllare in modo puntuale, non solo la sussistenza dei requisiti previsti dall’art. 186-bis comma 2, lett.a) l.fall., e così la formazione dei crediti prededucibili, ma anche il vantaggio per i creditori nella continuità rispetto alla liquidazione di cui alla lettera b) del medesimo disposto legislativo; e ciò secondo la Suprema Corte “soprattutto con riferimento al periodo successivo al passaggio in giudicato del decreto di omologa, quando il controllo del tribunale scompare definitivamente, salvo ricostituirsi a seguito del procedimento per la risoluzione del concordato ai sensi del novellato art. 186 l.fall., che ha previsto che la risoluzione del concordato non possa essere richiesta dal commissario giudiziale”[4].
Con riguardo alla valorizzazione oggettiva della prosecuzione dell’attività d’impresa, il Giudice di legittimità ritiene indifferente la circostanza che, al momento della ammissione al concordato o del deposito della domanda, l’azienda sia esercitata dal debitore, o da un terzo, come nel caso di affitto della stessa, in quanto, in ogni caso, “il contratto d’affitto costituisce semplice strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell’azienda senza il rischio della perdita dei valori intrinseci, primo fra tutti l’avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, produrrebbe in modo irreversibile”[5].
Per la Suprema Corte in altri termini ogni volta che la prosecuzione dell’attività d’impresa da parte dell’affittuario (a prescindere dal momento della stipulazione del contratto di affitto) assuma rilievo in riferimento alle finalità del piano, e cioè influenzi la soddisfazione dei creditori concorsuali, si avrà un concordato con continuità aziendale, la cui disciplina sarà quella di cui all’art. 186-bis l.fall.
Per rafforzare tale conclusione il Supremo Collegio nella pronuncia in esame sostiene che la formulazione dell’art. 186-bis l.fall. rende chiaro che “ciò su cui l’attenzione del legislatore ha mostrato di appuntarsi è la “azienda in esercizio”, indipendentemente dalla circostanza che essa sia condotta dal debitore o da soggetti diversi (cessionari o conferitari)”. Di qui, fra l’altro, la riconducibilità dell’affitto di azienda stipulato anteriormente al deposito della domanda nel perimetro applicativo dell’art. 186- bis (fattispecie che va sotto il nome di continuità indiretta)[6]”.
Il Giudice di legittimità non manca di condividere l’idea che il legislatore del 2012 abbia inteso favorire il risanamento “diretto” o “indiretto” dell’azienda, ed attraverso il suo mantenimento in esercizio, il pagamento dei creditori concorsuali. E proprio muovendo da tale idea che la Suprema Corte ritiene che ogni negozio giuridico prodromico e funzionale al risanamento stesso, come anche l’affitto d’azienda, deve essere assoggettato alla disciplina della continuità aziendale. E la Corte, pur ritenendo l’argomento non decisivo, sottolinea che l’imprenditore affittante conserva ancora una “serie di obblighi giuridici”, come per esempio il divieto di concorrenza ex art. 2557 c.c. e la tutela dei segni distintivi, i quali non fanno venire la sua natura di imprenditore commerciale, nonostante venga meno il suo rapporto materiale con l’azienda.
La Suprema Corte ritiene inoltre che la disciplina “esclusivamente propria” del concordato con continuità, con riferimento alla continuità contrattuale, ai contratti pubblici e alla possibilità di moratoria fino ad un anno per i crediti privilegiati non sembra incompatibile con l’affitto d’azienda. E questo tenuto conto che le stesse si pongono come “disposizioni di favore” dell’esercizio dell’attività d’impresa, che lo supportano, nell’ottica del miglior soddisfacimento dei creditori: e ciò per la Corte anche attraverso “un congruo differimento dei pagamenti più impegnativi (ai creditori privilegiati)”.
Il Supremo Collegio nella sentenza in commento si sofferma anche sulla estensibilità della facoltà, debitamente autorizzata, di pagamento di crediti anteriori ai sensi dell’art. 182-quinquies comma 5, l. fall.
Con tale norma, come rilevato in dottrina e in giurisprudenza, vi sarebbe una indubbia rottura del principio di concorsualità e del divieto posto dall’art. 168 l.fall., in quanto la stessa realizza sostanzialmente una conversione di crediti concorsuali in crediti prededuttivi.
Ma per la Suprema Corte, proprio il segnalato impiego dell’affitto di azienda quale “tappa” di un percorso in funzione di una ricollocazione dell’impresa competitiva sul mercato, nella prospettiva di affidabilità soggettiva dell’affittuario in relazione al piano di prosecuzione delle attività imprenditoriali, “può ben giustificare il pagamento di crediti anteriori per prestazioni di beni o di servizi anche nell’ipotesi di continuità con affitto d’azienda. Evidentemente non ad opera diretta del terzo affittuario in bonis, siccome soggetto estraneo al concordato, ma del debitore richiedente una specifica autorizzazione.[7]”
Il Supremo Collegio inoltre, al fine di rafforzare le proprie conclusioni, richiama la legge n. 155/2017, per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza, la quale all’art. 2 comma 1, lett. G) prevede che la continuità aziendale “può essere assicurata anche tramite un diverso imprenditore”, precisando al successivo art. 6, comma 1, lett. I), n. 3) che le norme sul concordato in continuità si applicano “anche nei casi in cui l’azienda sia oggetto di contratto di affitto, anche se stipulato anteriormente alla domanda di concordato”
Tale discorso secondo la Suprema Corte può essere condotto anche con riferimento all’affitto “puro”, cioè quello non funzionale alla cessione dell’azienda, ma alla sua semplice dislocazione in capo all’affittuario, con successiva retrocessione (durante la fase esecutiva del piano, o al termine di essa) al debitore. Per lo stesso Giudice di legittimità tale fattispecie non avrebbe natura liquidatoria, in quanto in essa il piano consente il ritorno in bonis dell’imprenditore, addossando “temporaneamente” oneri e rischi connessi alla conduzione diretta dell’attività a terzi, senza che nell’ipotesi de qua venga in rilievo una qualche dismissione di cespiti aziendali, salva l’ipotesi in cui vengano alienati beni “non funzionali” alla continuità.
Il Supremo Collegio aggiunge inoltre che la continuità aziendale è configurabile allorquando vi sia un’azienda in esercizio e il debitore prevede di continuare a gestirla e/o cederla a terzi o conferirla in società. Con riferimento all’oggetto della cessione o del conferimento, la Suprema Corte sottolinea che oggetto dell’una e dell’altra sia un’azienda, vale a dire il complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, e non i beni separatamente considerati.
La Corte conclude enunciando il seguente principio di diritto: “il concordato con continuità aziendale disciplinato dall’art. 186-bis l.fall. è configurabile anche quando l’azienda sia già stata affittata o sia destinata ad esserlo, rivelandosi affatto indifferente la circostanza che, al momento dell’ammissione alla suddetta procedura concorsuale o del deposito della relativa domanda, l’azienda sia esercitata dal debitore o, come nell’ipotesi dell’affitto della stessa, da un terzo, in quanto il contratto d’affitto, recante o meno l’obbligo dell’affittuario di procedere poi all’acquisto dell’azienda (affitto ponte oppure puro) può costituire uno strumento per giungere alla cessione o al conferimento dell’azienda senza il rischio della perdita dei suoi valori intrinseci, primo tra tutti l’avviamento, che un suo arresto, anche momentaneo, rischierebbe di produrre in modo irreversibile”[8].
La Corte sostiene quindi la compatibilità tra affitto d’azienda e continuità aziendale e ritiene che il contratto d’affitto (sia ponte che puro) possa essere funzionale nella prospettiva della cessione o del conferimento dell’azienda, senza che vi possa essere il rischio di perdita dei valori intrinseci dell’azienda, in particolare il valore d’avviamento. Rischio che potrebbe invece profilarsi in modo irreversibile in caso di arresto anche momentaneo dell’azienda.
[1] Cass. I sez. civile, sent. n. 29742/2018, dep. 19/11/2018
[2] Cass. I sez. civile, sent. n. 29742/2018, dep. 19/11/2018
[3] Cass. I Sez. civile, sent. da ult.citata
[4] Cass. I sez. civile, sent. da ult. citata
[5] Cass. I Sez. Civ., sent. Da ult. citata
[6] Cass. I sez. civile, sent. da ult. citata
[7] Cass. I sez. civile, sent. da ult. citata
[8] Cass. I sez. civ., sent. da ult.citata