Con sentenza n. 11250 del 10.05.2018 la Corte di Cassazione chiarisce alcuni profili di estremo rilievo in ordine alla risarcibilità del c.d. danno morale catastrofale, anche in considerazione della natura del pregiudizio subìto e della funzione del risarcimento nel nostro ordinamento giuridico.
Il Caso sottoposto all’attenzione della Corte
A seguito di un sinistro stradale tra autovetture, si verificava solo poche ore dopo l’incidente, il decesso della vittima ed i suoi eredi si attivavano agendo in giudizio nei confronti del conducente dell’altro mezzo e della sua assicurazione, al fine di ottenere il risarcimento dei danni.
In primo grado, il Tribunale riteneva che sulla vittima gravasse parte di responsabilità in ordine a quanto accaduto, in una misura pari al 20%, per aver accettato il rischio di salire su un’autovettura condotta da soggetto in stato di ebbrezza da assunzione di alcool, accogliendo parzialmente la domanda in favore degli eredi.
In sede di gravame, veniva confermata la decisione del giudice di prime cure.
Nei confronti di tale sentenza gli eredi proponevano, quindi, ricorso per Cassazione.
Le questioni trattate
Circa lo stato di ebbrezza alcoolica, osservava la Suprema Corte che quest’ultimo doveva ritenersi ragionevolmente conosciuto dalla vittima che, nonostante tutto, decideva di salire sull’autovettura in esame, finendo per accettare, in tal modo, il maggior rischio che la situazione comportava, data la sovraesposizione al pericolo venutasi a creare, ritenendosi, per tale motivo giustificata l’applicazione dell’art. 1227 c.c.
La tematica relativa alla pretesa mancanza di prova dell’esternazione dello stato di alterazione e, quindi, di una situazione di rischio effettivamente percepibile e apprezzabile da parte della vittima, in assenza di un’anomalia motivazionale, si configurava come censura avente quale sostanziale obiettivo una rivalutazione del materiale probatorio, inammissibile in sede di giudizio di legittimità.
Quanto al profilo risarcitorio, emergeva agli atti di causa che la vittima fosse caduta in stato di coma immediatamente dopo il sinistro, rimanendo incosciente prima della verificazione, a poche ore di distanza, dell’evento morte.
La domanda di risarcimento del danno biologico veniva rigettata, in quanto la vittima, pur essendo sopravvissuta, peraltro per un breve lasso temporale, non era cosciente, così come la richiesta di risarcimento del danno morale catastrofale, in considerazione della mancanza di lucidità nel periodo dell’agonia e, quindi, della capacità di percepire l’imminente verificazione dell’evento morte.
Il danno catastrofale
La Corte di Cassazione, peraltro, aveva già avuto modo di pronunciarsi in materia di danni – conseguenza di un sinistro stradale e dell’eventuale trasmissibilità iure hereditatis delle poste risarcitorie in quanto già transitate nel patrimonio del de cuius.
Così, al fine di meglio descrivere le tipologie di pregiudizi eventualmente subìti e di chiarire a quali condizioni essi siano ristorabili, la Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, con sentenza n. 15350 del 22.07.2015, aveva già avuto modo di escludere la risarcibilità del c.d. danno tanatologico o danno da morte, in cui il decesso della vittima si concretizza immediatamente o in un brevissimo lasso di tempo, rispetto alla verificazione del sinistro.
Evidenziava la Suprema Corte nella sua composizione più autorevole che, in tali casi, il diritto da lesione della vita sarebbe privo di un legittimo titolare, dovendosi comunque tenere ben distinte la lesione al bene giuridico vita e quella al bene salute.
Il primo, in definitiva, non può essere ragionevolmente considerato come la lesione al massimo livello e grado possibili del secondo, essendo i predetti, come sostenuto anche a livello di dottrina, beni ontologicamente diversi.
Peraltro, riconoscere un risarcimento in tali situazioni implicherebbe che sia ristorabile il danno- evento, ovverosia il pregiudizio in sé e per sé considerato, non, come di regola avviene, le conseguenze pregiudizievoli che si siano prodotte nel patrimonio della vittima.
Nel caso del danno tanatologico, non matura un diritto che effettivamente venga a far parte del patrimonio del danneggiato e, quindi, non sarà possibile alcuna trasmissibilità delle poste in rilievo in favore degli eredi del de cuius.
Così le Sezioni Unite avevano dimostrato di non seguire quell’impostazione giurisprudenziale fatta propria dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 1361 del 2014, in base alla quale il danno alla vita dovrebbe essere sempre ristorabile sussistendo, in siffatti, casi un’eccezione tale per cui il danno sorgerebbe prima, al momento dell’evento lesivo in cui il soggetto è ancora dotato di capacità giuridica e potrebbe ritenersi subito acquisito al suo patrimonio.
Il bene vita, di contro, secondo quanto argomentato dalle Sezioni Unite, è fruibile solo in natura dal suo titolare e non risulta suscettibile di essere reintegrato per equivalente.
Non si può, peraltro, ritenere che la lesione resti priva di tutela, giacché si applicherà la sanzione penale che riveste la funzione di protezione nei confronti di beni che presentano rilevanza primaria all’interno dell’ordinamento giuridico.
Ciò detto, occorre, tuttavia, distinguere tra danno tanatologico e danno biologico terminale, quest’ultimo consistente nel pregiudizio alla salute e nei postumi invalidanti causati dal sinistro, risarcibile se sia trascorso un apprezzabile lasso di tempo prima della verificazione dell’evento morte, inteso come perdita di un bene non patrimoniale da parte della vittima dell’illecito mentre è ancora in vita (Corte di Cassazione, sentenza n. 28478/2017).
In sostanza, il diritto al risarcimento del danno matura dal momento in cui la vittima subisce delle lesioni sino a quello del decesso.
Si verifica, quindi, un vulnus ad una situazione giuridica soggettiva che porta alla nascita di un pregiudizio che viene acquisito al patrimonio della vittima e che, dunque, potrà essere trasmesso agli eredi.
Il danno catastrofale viene, invece, ricondotto dalla giurisprudenza più recente al danno morale soggettivo o subiettivo, inteso come cosciente e lucida percezione, nonché attesa dello spegnimento della propria vita, trattandosi di pregiudizio che presenta, all’evidenza, una notevole intensità in termini di sofferenza.
La vittima, come ricordato dalla giurisprudenza (Corte di Cassazione, sentenza n. 12722/2015), è consapevole della gravità delle proprie condizioni e attende lucidamente “l’approssimarsi ineluttabile della morte”.
Il ristoro del pregiudizio subìto viene, quindi, riconosciuto dall’ordinamento giuridico, a condizione che la vittima si sia mantenuta lucida nell’apprezzabile lasso temporale che precede la morte, con una sofferenza morale di intensità massima, sebbene protratta per un periodo di tempo, nella consapevolezza della perdita del massimo bene giuridico riferito alla persona.
Le conclusioni della Suprema Corte
In relazione alla vicenda sottoposta alla propria attenzione, la Corte di Cassazione concludeva evidenziando che il risarcimento del danno catastrofale, qualificato come pregiudizio subìto dal danneggiato che attende lucidamente lo spegnersi della vita, può essere riconosciuto agli eredi come danno morale, a condizione che, al momento della morte, fosse già entrato a far parte del patrimonio della vittima.
Dunque, se manca la prova dello stato di coscienza in capo alla predetta in quell’intervallo di tempo che intercorre tra il sinistro e la verificazione dell’evento morte, alcun pregiudizio sarà risarcibile per la perdita della vita, neppure sotto il profilo di danno biologico, non potendo dirsi acquisito in capo alla stessa un diritto che dipende dalla sua morte.
Del resto, la principale funzione svolta nel nostro ordinamento, dal risarcimento del danno consiste nel ristorare il soggetto danneggiato dei pregiudizi patiti a seguito dell’illecito, ovverosia delle conseguenze negative che si siano prodotte nella sua sfera giuridica, riportando la situazione della vittima, per quanto possibile, allo status quo ante.
Si tratta, dunque, di una funzione principalmente riparatoria e consolatoria, per cui ben può essere, invece, concesso ai parenti il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale con la persona defunta, già in precedenza riconosciuto dalla giurisprudenza, con sentenza n. 12408/2011.