Responsabilità da prodotto difettoso: la ripartizione dell’onere probatorio

in Giuricivile, 2018, 11 (ISSN 2532-201X), nota a Cass. Civ., Sez. III, sent. 20/11/2018, n. 29828

La responsabilità per danni da prodotto difettoso, che rappresenta sostanzialmente una species del modello codicistico tratteggiato dall’art. 2050 c.c. (ovverosia, della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose), conservando l’originaria caratterizzazione comunitaria anche nella trasposizione ordinamentale nazionale, è, di fatto, l’implementazione di un bilanciamento tra due istanze, pari ordinate, ma specularmente contrapposte: l’esigenza, trasversalmente avvertita, di tutelare il soggetto asseritamente debole sul mercato (il consumatore) e quella, antitetica, di mantenere circostanziata l’eterodirezione interventistica sulle dinamiche commerciali, limitandola nella sua versione meno invasiva possibile e capace, quindi, di frustrare al minimo il fisiologico sviluppo tecnologico e produttivo[1].

Premessa. – 1. Il caso in esame. – 2. (segue) I motivi di ricorso. – 3. Le definizioni “relazionali” alla base del modello di responsabilità. – 4. L’atteggiarsi dell’onere probatorio e la ripartizione tra produttore e danneggiato. – 5. La responsabilità presunta da prodotto difettoso. – 6. Conclusioni.

La Terza Sezione Civile della Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza in oggetto[2], compie una rassegna puntuale degli elementi costitutivi il modello di responsabilità de qua, evidenziando la relatività sottesa alle concettualità fondative (sicurezza, responsabilità, difetto e rischio), nonché esaminando la distribuzione, su di un piano teorico e pragmatico – operativo, dell’onere probatorio, con la sua ripartizione tra produttore e danneggiato. A tal riguardo, pare opportuno anteporre una sintetica rappresentazione delle circostanze fattuali e dei motivi di doglianza della ricorrente.

Leggi anche: La responsabilità civile da prodotto difettoso: tra garanzia per vizi e normativa speciale del Codice del Consumo

1. Il caso in esame

Una società a responsabilità limitata proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, che respingeva i gravami proposti in relazione alla pronunzia del Tribunale di Monza, con la quale veniva parzialmente accolta la domanda di risarcimento dei danni, formulata da parte resistente, subiti in conseguenza di un sinistro causato dall’esplosione anticipata di un fuoco pirotecnico, importato in Italia dalla ricorrente. Quest’ultima formulava sei motivi di ricorso.

2. (segue) I motivi di ricorso.

Segnatamente, la Società ricorrente denunziava:

  • con il primo motivo, la violazione o falsa applicazione degli artt. 1490, 1494 c.c., 103, 114, 115, 116, 117, 118, 120 D.lgs. n. 206/2005, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
  • con il secondo, la violazione degli artt. 2697 c.c., 61, 115, 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.
  • con il terzo, la violazione degli artt. 61 ss., 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La ricorrente lamentava che la Corte territoriale avesse ritenuto “difettoso” il prodotto in base alle mere dichiarazioni dei testi e disattendendo le risultanze della espletata C.T.U. “percipiente”, che, viceversa, aveva escluso la prova di un difetto del prodotto, difettando l’esatta individuazione della causa precisa.
  • con il quarto, la violazione degli artt. 61 ss., 116 c.p.c., in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Nello specifico, la Società evidenziava come la Corte di merito avesse fondato l’impugnata sentenza su un ravvisato “difetto d’informazione” e sulle “modalità di circolazione del prodotto”, circostanze, invero, mai allegati né provati dalla controparte.
  • con il quinto, la violazione degli artt. 1490, 1494, 2043 c.c., 114, 116 D.lgs. n. 206 del 2005, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., rilevando l’intervenuta interruzione della catena causale, determinata da una condotta gravemente negligente posta in essere dal danneggiato.
  • con il sesto, la violazione o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., poiché la summenzionata colpa grave del creditore – danneggiato avrebbe dovuto comportare una sensibile riduzione del quantum risarcibile (stimata in misura superiore al 50%).

I sei motivi, esaminati congiuntamente, stante la loro evidente interconnessione, a giudizio della Suprema Corte sono fondati e meritevoli di (un ponderato) accoglimento.

3. Le definizioni relazionali alla base del modello di responsabilità.

La Terza Sezione, nella fase preliminare del suo iter argomentativo – motivazionale, pone in giustificato risalto che la giurisprudenza di legittimità abbia, invero anche a più riprese, evidenziato come l’art. 117 cod. cons. (e, prima ancora, nella precedente architettura sistematico – normativa, l’art. 5 D.P.R. n. 224/1988[3]) adotti una definizione relazionale di prodotto (nozione, di per sé, già ampia contenutisticamente e allargata, ancor maggiormente, dal lavorio della giurisprudenza comunitaria)[4] “difettoso”, associando siffatta caratterizzazione non a ogni prodotto insicuro, ma, contrariamente, solo a quello che non sia oggettivamente capace di offrire lo standard di sicurezza, che ci si possa legittimamente attendere, in relazione alla specifica modalità di commercializzazione, circolazione, presentazione, nonché alle caratteristiche palesi, alle istruzioni o alle avvertenze fornite e, da ultimo, all’utilizzo cui sia stato ragionevolmente deputato; pletora di caratteri da parametrare, necessitatamente, alle conoscenze così come cristallizzate al tempo della messa in commercio.

L’impossibilità di imbrigliare contenutisticamente in schemi rigidi predeterminati è caratteristica che accomuna tutti gli elementi, in un certo qual senso, fondativi della responsabilità da prodotto difettoso. In tal senso, gli stessi concetti archetipici di sicurezza e responsabilità si prestano esclusivamente a un riempimento valoriale per relationem, dal momento che, in un contesto ampiamente polimorfo, quale quello delle fattispecie risarcitorie, non possono scientemente vincolarsi a strutture preordinate.

Si è, difatti, precisato che il concetto di “difetto” sia sostanzialmente riconducibile a quello “di fabbricazione”, ovverosia alle ipotesi di assenza o carenza di istruzioni e che sia strettamente connesso al concetto di sicurezza: non può dirsi coincidente, pertanto, né con la nozione di “vizio” strettamente codicistica, di cui all’art. 1490 c.c. (in base al quale può trattarsi di un’imperfezione del bene, che può anche non comportare un’insicurezza del prodotto)[5], né, tantomeno, a quella di difetto di conformità, introdotto nell’ambito settoriale della disciplina sulla vendita dei beni di consumo, postulando, invero, un pericolo per il soggetto che fa un uso del prodotto o per coloro che, comunque, si trovano in contatto con esso[6]. Il legislatore ha, inoltre, precisato che il prodotto non possa essere di per sé considerato difettoso per il solo fatto che un similare più perfezionato sia stato, in qualunque tempo, messo in commercio e, al contempo, che possa, viceversa, sussumersi nella categoria de qua laddove non offra la sicurezza normalmente fornita dagli altri esemplari della medesima serie.

Discorso non dissimile può essere proposto per la sicurezza, che assume valore di parametro integrativo di riferimento: la nozione di prodotto “sicuro”, puntualmente contenuta nella disciplina sulla sicurezza generale dei prodotti, di cui all’art. 103 cod. cons. (e, precedentemente, nel D.lgs. n. 172/2004), coincide con quella di bene che, in condizioni di uso normali o ragionevolmente prevedibili, compresa la durata, la messa in servizio, l’installazione e le esigenze di manutenzione, non presenti rischi, oppure ne presenti dei minimi, comunque compatibili con l’impiego del prodotto e considerati accettabili nell’osservanza di un livello elevato di tutela della salute e della sicurezza delle persone, in relazione alle caratteristiche, all’eventuale effetto su altri prodotti, alla presentazione  e alle categorie di consumatori cui esso sia destinato (con particolare riguardo nei confronti di quelle maggiormente vulnerabili, come  bambini e anziani). La definizione è evidentemente a contenuto elastico. A contrario, prodotto “pericoloso” è qualsiasi prodotto che non risponda alla definizione di prodotto sicuro[7].

Tra quello asseritamente sicuro e quello, invece, pericoloso si innesta (anche perché introdotto successivamente, nell’ambito della direttiva sulla responsabilità del produttore) il prodotto difettoso, descritto anch’esso per il tramite di una clausola generale, unica soluzione pienamente compatibile con la molteplicità di modi di concretizzazione del difetto[8]. Il livello di sicurezza prescritto, al di sotto del quale il prodotto debba considerarsi difettoso, non corrisponde a quello della sua più rigorosa innocuità (proprio in considerazione della relatività sottesa al concetto di sicurezza), dovendo, viceversa, farsi riferimento ai requisiti di sicurezza generalmente richiesti dall’utenza, in relazione alle circostanze piuttosto specificamente indicate all’art. 117 cod. cons. (e già all’art. 5 D.P.R. n. 224/1988. L’attuale disposizione consumieristica, come anticipato, statuisce che:

«1. Un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui:

a) il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite;
b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente prevedere;
c) il tempo in cui il prodotto è stato messo in circolazione […]

3. Un prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie.»)

o ad altri elementi in concreto valutabili e concretamente valutati dal giudice di merito, nell’ambito dei quali debbono farsi rientrare gli standard di sicurezza eventualmente imposti dalle norme in materia[9]: il primo comma della disposizione codicistica de qua associa la “difettosità” del prodotto alla “mancanza di sicurezza” e, segnatamente, alla difformità esistente tra le condizioni di sicurezza concretamente offerte dal prodotto e quelle che sia legittimo attendersi dallo stesso[10].

Si è osservato come la verificazione del danno di per sé non deponga per la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma solo per una sua più indefinita pericolosità, invero insufficiente a fondare la responsabilità del produttore laddove non venga in concreto accertato che la stessa pone il prodotto al di sotto del livello di garanzia e di affidabilità richiesto dalle leggi in materia o dall’utenza[11].

4. L’atteggiarsi dell’onere probatorio e la ripartizione tra produttore e danneggiato

Quanto all’onere della prova, l’art. 120 del Codice del Consumo[12] (come già l’art. 8 d.p.r. n. 224 del 1988), con una formulazione che, invero, non ha escluso la permanenza in dottrina di dubbi ermeneutici indubbiamente rilevanti (si è posto, ad esempio, il problema di individuare puntualmente, nell’ambito di operatività piuttosto generale e astratto della disposizione de qua, quali circostanze debbano essere specificamente allegate e provate dal danneggiato, ai fini dell’accertamento della responsabilità del produttore e, più precisamente, quali di esse siano bastevoli per innescare efficacemente il meccanismo presuntivo, di natura legale, per comprovare la responsabilità del produttore)[13], prevede che il danneggiato debba provare il danno, il difetto (che, per assurgere a elemento idoneo a configurare la responsabilità del produttore, non deve rimanere in uno stato latente, ma, contrariamente, deve provocare effetti di carattere materiale e/o fisico; tali conseguenze concrete costituiscono la causa prossima del danno, mentre la causa remota[14] deve rintracciarsi nel difetto stesso)[15] e la connessione causale tra difetto e danno, ovverosia che il prodotto abbia evidenziato il difetto durante l’uso, che abbia subito un danno e che quest’ultimo sia eziologicamente ricollegabile al primo[16]. Previsione, di fatto, puntualmente trasfusa dall’art. 4 della Direttiva 85/374/CEE del Consiglio, del 25 luglio 1985, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi[17].

In un’architettura sistematica evidentemente improntata a un marcato paternalismo tutelare del soggetto asseritamente debole e svantaggiato (il consumatore danneggiato), il legislatore ha delineato uno specifico regime di responsabilità per il produttore, sul quale incombe la restante porzione della distribuzione dell’onere probatorio, sostanzialmente ricomprendente tutti quei fatti e quegli elementi che possano, in qualche modo, avere un’inferenza tale da escludere la configurazione della responsabilità ex art. 118 Cod. cons. Comprovato il danno, il difetto e la correlazione, da parte del soggetto danneggiato, il produttore, del tutto specularmente, è gravato dall’onere di addurre una “prova liberatoria”[18], consistente, di fatto, nella compiuta dimostrazione che il difetto contestato non esisteva nel momento in cui il prodotto era stato messo in circolazione, o, parimenti, che alla stessa epoca non poteva essere ragionevolmente individuabile e riconoscibile, in base allo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche del periodo: in definitiva, il produttore appare schermato dal solo rischio c.d. “da sviluppo”, che, invero, la summenzionata direttiva comunitaria poneva tra gli elementi facoltativamente annoverabili nel novero delle cause di esclusione della responsabilità, demandando a ciascuno Stato membro l’effettiva implementazione.

Appare prima facie evidente come un contesto così delineato risulti particolarmente complesso da gestire, poiché fondato su di una valutazione delle circostanze fattuali “precaria”: su di un piano strettamente materiale e naturalistico, difatti, l’organo giudicante deve vagliare se, pur derivando il danno dal prodotto in sé (o, comunque, dal suo uso), vi sia stato un utilizzo anomalo/improprio da parte dell’utente danneggiato, o, invece, si sia in presenza di un difetto intrinseco di fabbricazione/progettazione del prodotto, oppure, ancora, se siano individuabili altre cause esterne (come, ad esempio, il fatto del terzo o un evento di origine naturale), in quanto tali escludenti l’eziologia tra difetto e pregiudizio. Si tratta, in sostanza, di porre in essere una vera e propria operazione di equilibratura eterodiretta, ovverosia di decidere a quale soggetto addossare la causa, ove ignota (ma, pur sempre, materialmente collegata), del danno: se all’utente danneggiato, adottando un’interpretazione marcatamente più restrittiva e rigorosa del concetto di “difetto” e di “prodotto difettoso”; se, del tutto specularmente, in capo al produttore, secondo una lettura più ampia, elastica ed evidentemente ispirata al paternalismo normativo[19].

Ciò premesso, ne deriva che, nell’alveo della responsabilità ascrivibile al produttore, non sia recepito il principio c.d. “di precauzione”, che concorrerebbe ad anticipare la tutela a un momento antecedente a quello della prova del danno o di un pericolo certo che determini l’insicurezza del prodotto: la precauzione, difatti, attiene a un pericolo sospettato e, in quanto tale, ancora incerto, poiché non ancora scientificamente suffragato. Nella ponderazione probatoria così come prevista, invece, pur non potendosi imporre al produttore l’onere di dimostrare l’assoluta innocuità del suo prodotto (a meno di paralizzare il mercato, costringendolo a strategie difensivistiche, frustrando, consequenzialmente, il progresso tecnologico), l’esimente de qua non può, tuttavia, essere ragionevolmente tradotta in una fattiva deresponsabilizzazione dello stesso attore: questi, (33) Cfr. S. Sica-V. D’Antonio, La responsabilità per danno da prodottidifettosi, La tutela del consumatore, a cura di P. Stanzione e A. Musio (Torino 2009), 608 s.assumendo contezza del difetto, deve, in ogni caso, diligentemente attivarsi per evitare che si possano realizzare dei pregiudizi nei confronti dei consumatori – utilizzatori, attraverso un monitoraggio continuo della sicurezza del prodotto, nonché un’adeguata informazione, in tutte le fasi della messa in circolazione (anche successive alla vendita)[20].

5. La responsabilità presunta da prodotto difettoso.

Incombendo, in definitiva, sul soggetto danneggiato provare la sussistenza degli elementi costitutivi della pretesa risarcitoria, se ne deduce, su di un piano più strettamente sistematico, che la responsabilità da prodotto difettoso integri un’ipotesi di responsabilità presunta e non, viceversa, di responsabilità oggettiva: è, al contempo, impossibile sostenere, quindi, che la semplice prova semplice del nesso di causalità, intercorrente tra il danno e il prodotto, sia bastevole a trasferire sul produttore l’onere di dimostrare che il prodotto non fosse difettoso o che sussistessero altre, escludenti, cause di responsabilità[21]. Anche e soprattutto in considerazione del fatto che la connessione causale da comprovare, da parte del soggetto danneggiato, sia quella intercorrente tra il difetto (non il prodotto) e il danno lamentato[22].

La prova della difettosità del prodotto può essere peraltro data anche per presunzioni semplici, ai sensi dell’art. 2729 c.c. Il meccanismo presuntivo, pur tuttavia, benché sdoganato da reiterate pronunce giurisprudenziali, è usufruibile, in un contesto “instabile” quale quello della responsabilità da prodotto difettoso, solo per il tramite di una sua applicazione ragionata. A tal riguardo, pare, senz’altro, opportuno sgomberare, sin da subito, il campo da un equivoco interpretativo: né il nesso eziologico, né, tantomeno il difetto del prodotto sono qualificabili propriamente alla stregua di “fatti” che, in quanto tali, possano essere dedotti da altri fatti; l’accertamento di una relazione qualificata di causa – effetto, così come il riconoscimento del mancato rispetto nel prodotto del livello di sicurezza atteso rappresentano il momento conclusivo di un processo valutativo che implica la considerazione anche di fatti, ma che non può ragionevolmente ridursi in un “fatto”: attraverso il ragionamento presuntivo è, semmai, possibile individuare quelle circostanze fattuali idonee alla ricostruzione del nesso causale o, parimenti, all’accertamento dell’effettiva sussistenza di una qualche difettosità rilevante del prodotto[23].

A tale stregua, acquisita tramite fonti materiali di prova (o anche tramite il notorio o a seguito della non contestazione) la conoscenza di un fatto secondario, il giudice può, in via indiretta, dedurre l’esistenza del fatto principale ignoto (nella specie, il difetto del prodotto), sempre che le presunzioni abbiano il requisito della gravità (il fatto ignoto deve cioè essere desunto con ragionevole certezza, anche probabilistica), della precisione (il fatto noto, da cui muove il ragionamento probabilistico, e il l’iter logico seguito non debbono essere vaghi ma ben determinati), della concordanza (la prova deve essere fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto)[24], giacché gli elementi che costituiscono la premessa devono avere il carattere della certezza e della concretezza, essendo invero inammissibile la c.d. praesumptio de praesumpto, non potendosi valorizzare una presunzione come fatto noto, per derivarne da essa un’altra presunzione[25].

Orbene, la Corte territoriale, nella sentenza oggetto di impugnazione, ha disatteso i summenzionati principi.

6. Conclusioni

Nel confermare quanto statuito grado, il giudice del gravame ha ritenuto comprovato il requisito della pericolosità del prodotto (onere, come ampiamente rappresentato, incombente sul soggetto danneggiato), disattendendo i riscontri della consulenza tecnica, di tipo percipiente (e, in quanto tale fonte oggettiva di prova[26], sulla base delle cui risultanze il giudice è tenuto a dare atto dei risultati conseguiti e di quelli viceversa non conseguiti o non conseguibili, in ogni caso argomentando su basi tecnico-scientifiche e logiche[27]) e conferendo, al contempo, una centralità determinante alle dichiarazioni testimoniali.

Più nello specifico, la Corte è pervenuta a desumere, in maniera peraltro indiretta, la pericolosità del fuoco pirotecnico dalle mere modalità del fatto e del mero verificarsi del danno, in aperto contrasto, quindi, con il summenzionato principio in ossequio del quale la verificazione del danno di per sé non deponga per la pericolosità del prodotto in condizioni normali di impiego, ma, al più, solo per una più indefinita pericolosità del prodotto, invero insufficiente a fondare la responsabilità del produttore solamente allorquando non risulti in concreto accertato che essa pone il prodotto al di sotto del livello di garanzia e di affidabilità richiesto dalle leggi in materia o dalla utenza[28].

Così ponderando le risultanze probatorie, la Corte d’Appello ha argomentato sull’asserita pericolosità adducendo, da un lato, il mero rilievo estrinseco dell’anomalia del relativo anticipato scoppio (trascurando, peraltro, il carattere potenzialmente singolo e unitario di una siffatta circostanza), e, dall’altro, l’impossibilità di addivenire a risultati inconfutabili sull’eventuale prematura accensione del fuoco, indipendentemente da un utilizzo non corretto da parte del soggetto danneggiato.

In conclusione, la Terza Sezione Civile rileva come il dictum dell’impugnata sentenza risulti inammissibilmente basato, oltre che su una non consentita praesumptio de praesumpto, su una motivazione in radice intrinsecamente illogica[29], meramente apparente[30] e, pertanto, insussistente[31], (e, in quanto tale, passibile di controllo in sede di legittimità[32])[33].


[1] In tal senso, S. Parma, Responsabilità da prodotto difetto c.d. “product liability” ed il mondo delle lobby farmaceutiche (nota a Cass. Civ., Sez. III, 28 luglio 2015, n.15851), in Ridare.it, 9 dicembre 2015.

[2] Il riferimento è a Cass. Civ., Sez. III, 20 novembre 2018, n. 29828.

[3] Per un approfondimento sulla normativa di attuazione della Direttiva 85/374/CEE, G. Grasso, La responsabilità da prodotto difettoso, Incontro di studi sul tema: “Tutela dei Consumatori”, Roma, 14 – 16 novembre 2005, https://www.personaedanno.it/dA/0d2e3675da/allegato/AA_017854_resource1_orig.pdf.

[4] Così, F. Grotteria, Il paradigma della responsabilità civile nella sperimentazione clinica: alla ricerca di un equilibrio tra canoni tradizionali ed incertezza scientifica, in Rivista Italiana di Medicina Legale (e del Diritto in campo sanitario), fasc. 4, 1 agosto 2017, 1299.

[5] Si hanno vizi redibitori, che danno luogo alla garanzia di cui all’art. 1490 c.c., quando nella cosa venduta sussistono imperfezioni concernenti il processo di produzione, di fabbricazione e di formazione, che rendono la cosa inidonea all’uso al quale è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore: così, Cass. Civ., Sez. II, 12 febbraio 1994, n. 1424.

[6] V. Cass. Civ., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 13458.

[7] Così art. 103, lett. b), cod. cons.

[8] In tal senso, E. Bellisario, Il danno da prodotto conforme tra regole preventive e regole risarcitorie, in Europa e Diritto Privato, fasc. 3, 2016, 841.

[9] V. Cass. Civ., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 13458.

[10] Così, E. Bellisario, op. cit.

[11] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 13458; Cass. Civ., Sez. III, 13 dicembre 2010, n. 25116.

[12] Disposizione della cui costituzionalità si dubita in dottrina, per la surrettizia disparità di trattamento che viene a creare con la fattispecie di responsabilità ex art. 2050 c.c., di cui la responsabilità da prodotto difettoso costituisce, sostanzialmente, una specificazione.

[13] Così, G. Stella, Causa ignota del danno derivante dall’uso del prodotto e responsabilità del produttore per prodotto difettoso, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 5, 1 maggio 2017, 1444B.

[14] La condotta del soggetto reso responsabile non si pone come causa del pregiudizio, se non in termini di una causa remota, legata, in quanto tale, alla mancata individuazione di misure adeguate a prevenire quel tipo di danno verificatosi: così, F. Piraino, Il nesso di causalità, in Europa e Diritto Privato, fasc. 2, 1 giugno 2018, 399.

[15] Così, V. Papagni, Nessun risarcimento se manca la prova del difetto del fustino di candeggina esploso (nota a Cassazione civile, 19 febbraio 2016, n.3258, sez. III), in Ridare.it, 9 settembre 2016.

[16] V., da ultimo, Cass. Civ., Sez. III, 28 settembre 2018, n. 23477.

[17] Sul punto, CGUE, Sez. II, 21 giugno 2017, n. 621.

[18] V. art. 7 Direttiva 85/374/CEE.

[19] Così, G. Stella, op. cit.

[20] Così, A. Purpura, Responsabilità del produttore per danno da vaccino e onere della prova, in Europa e Diritto Privato, fasc. 2, 1 giugno 2018, 809.

[21] Così, V. Papagni, op. cit.

[22] In tal senso, Cass. Civ., Sez. III, 26 giugno 2015, n. 13225.

[23] Così, R. Pucella, Danno da vaccini, probabilità scientifica e prova per presunzioni, in Responsabilità Civile e Previdenza, fasc. 6, 1 giugno 2017, 1796.

[24] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 13458; Cass. Civ., Sez. III, 26 giugno 2008, n. 17535, per cui (mutuando quando già affermato in Cass. Civ., Sez. III, 9 agosto 2007, n. 17457) «quando il giudice di merito sussuma erroneamente, sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta.»; Cass. Civ., Sez. Trib., 2 marzo 2012, n. 3281.

[25] Cfr. Cass. Civ., Sez. II, 28 gennaio 2000, n. 988; Cass. Civ., Sez. II, 28 gennaio 1995, n. 1044; Cass. Civ., Sez. III, 6 luglio 2018, n. 17720.

[26] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 30 settembre 2014, n. 20548; Cass. Civ., Sez. III, 27 agosto 2014, n. 18307; Cass. Civ., Sez. III, 26 febbraio 2013, n. 4792; Cass. Civ., Sez. III, 20 ottobre 2014, n. 22222; Cass. Civ., Sez. III, 13 marzo 2009, n. 6155; Cass. Civ., Sez. III, 19 gennaio 2006, n. 1020.

[27] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 22 febbraio 2016, n. 3428; Cass. Civ., Sez. III, 26 febbraio 2013, n. 4792; Cass. Civ., Sez. III, 13 marzo 2009, n. 6155; Cass. Civ., Sez. III, 19 gennaio 2006, n. 1020.

[28] In tal senso, Cass. Civ., Sez. III, 29 maggio 2013, n. 13458; Cass. Civ., Sez. III, 13 dicembre 2010, n. 25116.

[29] V. Cass. Civ., Sez. III, 6 luglio 2018, n. 17720.

[30] V. Cass. Civ., Sez. Un., 3 novembre 2016, n. 22232.

[31] V. Cass. Civ., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053.

[32] In tal senso, Cass. Civ., Sez. VI, 5 maggio 2017, n. 10973.

[33] Il Collegio, quindi, cassa con rinvio la sentenza impugnata.

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