La collazione ereditaria ex art 737 cc: profili probatori e giurisprudenza

in Giuricivile, 2018, 11 (ISSN 2532-201X)

È nota la disciplina della collazione ereditaria disciplinata dagli artt. 737 ss c.c.: la collazione consiste nell’obbligo dei coeredi (che hanno accettato l’eredità: perché se vi hanno rinunziato o se sono morti prima di avere accettato  o non sono più soggetti attuali della comunione ereditaria, non sussiste l’obbligo) di conferire alla massa ereditaria, in sede di divisione, le liberalità ricevute in vita da parte del defunto.

Con il presente articolo analizzeremo, in particolare, gli aspetti probatori della collazione ereditaria.

Sommario

1. Che cos’è la collazione?

L’istituto della collazione presuppone una situazione di comunione ereditaria, come emerge dall’art. 737 comma 1 c.c.

La collazione consiste – precisamente – nell’aumento della massa ereditaria mediante il conferimento di quanto i coeredi hanno ricevuto dal de cuius per effetto di donazioni dirette ed indirette (art. 737 comma 1 c.c.), salva la dispensa da parte del de cuius, la quale, tuttavia, opera solo- notoriamente- nei limiti della quota disponibile (art. 737 commi 1 e 2 c.c.).

La dottrina prevalente ravvisa nelle donazioni a favore del discendente o del coniuge una sorta di attribuzione anticipata rispetto alla futura successione.

L’istituto, che risale al diritto romano, ha subito varie evoluzioni storiche.

La dottrina prevalente attuale ritiene che la collazione abbia carattere obbligatorio: è, per la precisione, l’obbligo di conferire, in natura o per imputazione, quanto ricevuto per donazione diretta o indiretta (FORCHIELLI, BARASSI, BURDESE, COVIELLO ANGELONI), con caducazione dell’attribuzione patrimoniale, fermo restando gli effetti dell’atto donativo. Nello stesso senso, si pone, inequivocabilmente, la giurisprudenza della Corte di Cassazione (per tutte, Cass. 1° febbraio 1995 n. 1159).

La fonte dell’obbligazione consiste, come evidenziato da attenta dottrina (FORCHIELLI e ANGELONI) in un  prelegato obbligatorio ex lege anomalo, perché non opera a favore di uno dei coeredi, ma di tutta l’eredità ed a carico del solo donatario che deve conferire.

Nell’ipotesi in cui sussista concretamente la possibilità di scelta fra collazione per imputazione e collazione in natura, si è di fronte, perciò, ad un’obbligazione con facoltà alternativa (FORCHIELLI, ANGELONI).

2. La collazione presuppone una domanda?

La giurisprudenza prevalente ha escluso la necessità di una specifica domanda di condanna all’adempimento dell’obbligo di collazione, essendo stato ritenuto sufficiente un semplice riferimento negli atti di causa all’esistenza di pregresse donazioni a favore di uno dei soggetti tenuti alla collazione (art. 737 c.,c.): in tal senso ex plurimis Cass. Sez. II 19 novembre 2004 n. 21895.

Quindi essa presuppone, quantomeno, perché ne possa prendere coscienza il giudice, come meglio si vedrà in seguito una allegazione, il più possibile dettagliata e relativa alla liberalità di cui l’altro condividente avrebbe  beneficiato.

3. Nei confronti di chi si applica la collazione e quali ne sono i presupposti?

La collazione si applica ex art. 737 c.c. nei confronti del coniuge, dei figli e dei discendenti che concorrono alla successione e quindi siano coeredi.

Conseguentemente, anche le facilitazione probatorie ad essa connesse, non si applicano a persone distinte dai coeredi (p. esempio un terzo fatto oggetto dell’azione di riduzione).

Quindi, i presupposti specifici per l’applicabilità dell’istituto della collazione sono, brevemente, i seguenti:

  • a) l’esistenza di più coeredi inquadrabili nel paradigma di cui all’art. 737 c.c.;
  • b) l’esistenza di un relictum al momento della morte del testatoresecondo dottrina e giurisprudenza dominanti;
  • c) la deduzione e la sussistenza dell’esistenza di più liberalità eseguite da parte del defunto nei confronti dei soggetti di cui al superiore punto a).

Per quanto concerne anzitutto il requisito di cui al punto a) (esistenza di più coeredi), è noto che la collazione si applica solo ed esclusivamente ai coeredi e non ai soggetti estranei.

Sul punto, il riferimento da operare  è all’art. 739 c.c., che esclude che siano considerate automaticamente persone interposte i discendenti e il coniuge del coerede che abbiano ricevuto donazioni in vita dal de cuius: tali donazioni non sono soggette a collazione. Si dibatte se il testatore possa imporre la collazione di donazioni non fatte a coeredi, dando luogo al fenomeno della c.d. collazione volontaria e sembra prevalere in dottrina la tesi secondo cui la collazione può essere imposta al donatario ma non a un terzo soggetto.

Per quanto riguarda il requisito sub b), negli interpreti prevale la tesi che sia necessaria la presenza di un relictum per la collazione (FIGLIOLI, AZZARITI, CASULLI; Cass. 17 novembre 1979 n. 5982) in quanto esso è il presupposto della divisione ereditaria; contra qualche sentenza della Corte di Cassazione (Cass. 6 giugno 1969 n. 1988).

4. Quali sono le liberalità oggetto di collazione?

Solo le liberalità dirette ed indirette, secondo le regole poste dagli artt. 737 ss c.c. possono essere fatte oggetto di allegazione e di richiesta di collazione in giudizio.

In particolare, gli articoli dal 737 c.c. in poi si riferiscono principalmente:

  • alle donazioni dirette;
  • alle donazioni indirette;
  • alle assegnazione varie a favore dei discendenti (v. art. 741 c.c.: assegnazioni a causa di matrimonio, per avvio ad attività produttiva o professionale, per soddisfare premi sull’assicurazione sulla vita o per pagare i loro debiti)
  • pure alle donazioni di modico valore, con l’eccezione di quelle del coniuge (art. 738 c.c.);

5. Cosa non è oggetto di collazione?

La domanda ha riflessi probatori di capitale importanza.

L’animus donandi  infatti, non si presume per il semplice fatto che sia acquisito agli atti di causa, per esempio, che una determinata somma sia stata consegnata dal de cuius ad uno dei coeredi.

Tutto ciò che, dunque, non rientra nel paradigma delle donazioni dirette e/o indirette non può formare oggetto di donazione, quindi si può sempre dimostrare e provare dall’interessato che eventuali elargizioni del de cuius non avevano le caratteristiche della liberalità.

In forza di questo principio, si considerano non collazionabili:

  1. somme versate e derivanti dall’adempimento dell’obbligo di contribuzione fra coniugi;
  2. somme erogate a titolo di  adempimento di obbligazioni naturali;
  3. liberalità d’uso, anche ingenti, come ammette la giurisprudenza (Cass. Civ. n. 18280/2016; Cass. Civ. n. 19636/2014);
  4. somme corrisposte in particolare a famigliari per altre causali, come  il mutuo o il compenso per un determinato mandato, etc.;
  5. ex art. 742 c.c. le spese di mantenimento e di educazione, le spese sostenute per malattia, le spese ordinarie fatte per abbigliamento e nozze;
  6. quanto si è percepito per effetto di società contratte col defunto senza frode (art. 743 c.c.);
  7. le cose perite per causa non imputabile al donatario (art. 744 c.c.)
  8. il vantaggio patrimoniale conseguente ad un acquisto fatto in sede di comunione legale dal coniuge mediante reddito proprio,  a meno che non siano stati acquistati beni personali del coniuge;
  9. le assegnazione a titolo di patto di famiglia (art. 768 quater, 4 comma c.c.);
  10. è poi dubbio che un comodato d’uso costituisca una liberalità collazionabile; prevale, per lo meno per l’ipotesi di comodato goduto in vita del defunto dal coerede l’ipotesi negativa, sul presupposto della gratuità del contratto.

6. Profili probatori: cosa deve allegare chi chiede la collazione?

Dato che la collazione (art. 737 c.c. è automatica), chi è che deve provare il fatto da cui deriva la collazione? Opera, sul punto, una sorta di inversione – o comunque facilitazione- dell’onere della prova.

Infatti, in tema di obbligo cd. “automatico” di “collazione” è sufficiente, per il coerede che chieda la collazione (e cioè l’agente in giudizio; ma potrebbe trattarsi del convenuto che chiede, a sua volta, la collazione nei confronti dell’attore o di altri condividenti) “la domanda di divisione e la menzione in essa dell’esistenza di determinati beni, facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire, quali oggetto di pregressa donazione. Incombe in tal caso sulla parte che eccepisca un fatto ostativo alla collazione l’onere di fornire la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti” (Cass. Civ. sez. II, 18.07.2005, n. 15131; Cass. Civ. sez. II 01.02.1995 n. 1159; Cass. Civ. 06.11.1986 n. 6490; nello stesso senso evidenzia trattarsi di eccezione; Cass. Civ. sez. II, 28.12.2011 n. 29372; per la giurisprudenza di merito: Tribunale di Milano, 17.10.2016 in Pluris; Tribunale Vicenza, sez. II, 13.03.2017 in Quotidiano Giuridico, 2017; Tribunale Prato, sez. Unica 29.01.2015 in Massima redazionale, 2015; Tribunale Palermo, sez. II, 15.03.2012 in Massima Redazionale, 2012 ).

Infatti, per il coerede devono reputarsi sufficienti la domanda di divisione e la menzione in essa di determinati beni – indicati come oggetto di pregressa donazione diretta od indiretta e quali facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire – a sollecitare che il preliminare accertamento da parte del giudice della consistenza dell’esse abbia luogo con riferimento anche ai detti beni, con l’ulteriore ovvia conseguenza che sulla parte dalla quale si eccepisca un fatto ostativo alla collazione grava l’onere di fornirne la prova nei confronti di tutti gli altri condividenti (Cass. 27.4.01 n. 6116, Cass. 16.11.00 n. 14864, Cass. 1.2.95 n. 1159, Cass. 6.11.86 n. 6490).

Siffatta giurisprudenza pone rilevanti profili interpretativi.

Anzitutto, si deve ritenere che sia sufficiente certamente, per chi invoca la collazione del coerede, la semplice menzione in giudizio di una donazione diretta od indiretta, ma siffatta allegazione deve essere, per quanto possibile, specifica e non generica.

Essa infatti deve o dovrebbe individuare il bene che costituisce oggetto di donazione diretta ed indiretta e deve fornire, almeno congetturalmente, l’allegazione che sia stato il defunto a procurarne l’acquisto in capo al coerede, meglio se attraverso l’identificazione della modalità concreta attraverso cui il trasferimento del danaro sia potuto avvenire, per quanto ovviamente possibile.

Un’allegazione generica non sarebbe utile.

Si deve evidenziare infatti che per giurisprudenza costante: “Il principio di non contestazione, di cui all’art. 115 c.p.c., non opera in difetto di una specifica allegazione dei fatti che dovrebbero essere contestati; in particolare, la specificità dell’allegazione non può essere desunta anche dall’esame dei documenti prodotti, giacchè l’onere di contestazione deve essere correlato alle affermazioni contenute negli atti destinati a contenere le allegazioni delle parti” (Cassazione civile, sez. III, 22/09/2017,  n. 22055);

7. La collazione può essere chiesta in via gradata?

La collazione, peraltro, può essere chiesta come “graduata”: in primo luogo, per operare un esempio, può essere chiesta la collazione di un immobile (identificato come oggetto di donazione indiretta da parte del de cuius)  al valore attuale; in subordine, la collazione del denaro ex art. 751 c.c. utilizzato per comprarlo (specie nell’ipotesi in cui il de cuius abbia fornito solo una parte del danaro per l’acquisto; oppure nell’ipotesi in cui non si possa comunque discorrere di donazione indiretta dell’immobile).

Se poi la casa per esempio “ricevuta” da un coerede è stata costruita con denaro del donatario, si deve ritenere che essa sia esclusa dalla collazione, benché ovviamente l’operare dell’accessione comporti qualche difficoltà nell’ipotesi di collazione in natura.

Chiaramente, chi eccepisce il fatto estintivo alla collazione deve prendere posizione su entrambe le allegazioni e confutarle.

8. Spese, miglioramenti: qual è il loro regime?

In tema di collazione di immobile vengono poi in considerazione anche le disposizioni dell’art. 748 c.c. in materia di spese, miglioramenti e deterioramenti, norma che fa riferimento alle sole variazioni di valore e ai costi per addizioni e miglioramenti o spese straordinarie sopportati nel tempo precedente all’apertura della successione.

Opera, nella previsione, una inversione dell’onere della prova, in quanto si presumono apportate dal donatario tutte le migliorie effettuate nel periodo intercorrente tra la donazione e l’apertura della successione purché il donatario abbia gestito il bene (Cass. 4009/1981). Il valore delle migliorie si calcola non in base alle spese sostenute ma in relazione all’aumento di valore dei beni (Cass. 5982/1979).

Tali spese (straordinarie) e miglioramenti sono certamente suscettibili di essere “scomputati” dalla quota ereditaria, purché – dice la giurisprudenza – si siano tradotte in aumento di valore della cosa donata.

Questo viene accertato, di norma, tramite una CTU.

Ciò avverrà:

  • nella collazione per imputazione, mediante assegnazione al donatario di una parte inferiore del relictum, proporzionale al valore del bene donato all’apertura della successione, diminuito in relazione al valore dei miglioramenti e delle spese straordinarie;
  • in quella in natura, a mezzo di assegnazione sul relictum di una somma pari ai miglioramenti e alle spese straordinarie.

Peraltro, quanto alle spese e ai miglioramenti successivi all’apertura della successione, si ritiene che, così come spettano alla comunione i frutti, debbano essere divise pure le poste passive.

Sulla modalità pratica attraverso cui ciò può avvenire non vi è piena concordia: secondo taluni, il coerede potrebbe reclamare il rimborso o a mezzo dell’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 c.c. (in questo senso, si è espresso Visalli, La collazione), oppure in sede di procedimento di resa dei conti ex art. 723 c.c. (nello stesso senso, Cass. 2 febbraio 1999, n. 857), salva l’applicazione dell’art. 1150 al donatario possessore che restituisca l’immobile in natura (così Burdese, ma la giurisprudenza sembra escluderlo).

Tutte tali ragioni debitorie e creditorie debbono essere oggetto del procedimento di resa dei conti. Il coerede, infatti, può pretendere, come mandatario o utile gestore degli altri compartecipi alla comunione ereditaria, il rimborso delle spese eseguite per la cosa comune, le quali si ripartiscono al momento dell’attribuzione delle quote, secondo il principio nominalistico, dato che lo stato di indivisione riconduce all’intera massa i miglioramenti stessi.

In ogni caso, il credito di un partecipante alla comunione relativo ai miglioramenti eseguiti sulla cosa comune costituisce credito di valuta, non suscettibile di rivalutazione monetaria, ma produttivo di interessi dal giorno della domanda (Cass. 27 aprile 1991, n. 4633).

Pertanto, entro i limiti suddetti, si può essere  titolari del diritto al “rimborso”.
Per tale credito – che non sia mai stato oggetto di accordo né circa l’ammontare, né circa la data del pagamento – la prescrizione si ritiene decorra soltanto dal momento della divisione, cioè dal tempo in cui si è reso o si sarebbe dovuto rendere il conto, non essendo  configurabile, con riguardo a tale credito, un’inerzia del creditore alla quale si possa riconnettere un effetto estintivo, giacché l’obbligo della resa dei conti dal momento in cui è sorta la comunione e l’esigenza dell’imputazione alla quota di ciascun comunista delle somme  di cui è debitore verso i condividenti traggono origine, appunto, dalla divisione.

Ma come si fa ad evitare la collazione di un bene, cioè a dimostrare che esso è esente da collazione (sebbene gli altri coeredi o taluno di essi sostenga il contrario)?

Anzitutto sarebbe buona norma dimostrare che si disponeva, all’epoca, di un reddito sufficiente a comperare l’immobile, senza aiuti da parte del defunto.

Sul punto si cita Tribunale Monza 13/07/2006 in Giur. Merito, 2007, 9, 2249: «Osserva, tuttavia, il Tribunale che in assenza di dati concreti sull’ammontare e stabilità delle retribuzioni della convenuta, non vi sono elementi concreti per affermare che essa avesse un patrimonio sufficiente per acquistare l’immobile, «occultato», se così si può dire, nel conto del padre […]».

In ogni caso, la prova decisiva è rappresentata dalla possibilità di offrire la cd. tracciabilità del pagamento tramite assegni e/o bonifici, se l’acquisto non proviene dal defunto: la persona che vuole evitare la collazione di un immobile dovrebbe per es. produrre i documenti tutti che dimostrano che è stato lui a pagare il bene immobile (od anche mobile, se la collazione è richiesta rispetto ad essa).

Tale dimostrazione deve essere fornita evidentemente per iscritto, perché, al di là dei limiti di prova del pagamento, le testimonianze specie se di famigliari non possono che essere, almeno nella normalità dei casi, guardate con sospetto da parte del magistrato.

Ovviamente, la prova delle migliorie incombe sull’avente diritto.

9. Che rilievo hanno le cd. dichiarazioni ricognitive del defunto?

Spesso il defunto lascia degli scritti: per esempio “ho lasciato tot euro (oppure ho intestato il fondo Tusculano) a mio figlio Mevio”.

Il punto è stato approfondito soprattutto dalla dottrina notarile (fra i contributi più significativi,  benché dedicati principalemente all’ipotesi di ricognizione proveniente da entrambi i contraenti,  può consultare quello del notaio Trimarchi) e si tende a ritenere che tali atti ricognitivi siano ammissibili​.

Quanto al loro valore probatorio, secondo tale fonte, mentre un’eventuale dichiarazione proveniente dal beneficiario dell’atto liberale o da entrambi sicuramente farebbe piena prova, si deve ritenere che quella proveniente dal solo disponente-donante abbia valore indiziario, benché sicuramente assai rilevante, soprattutto qualora concorrano altri indizi quali la mancanza di redditi sufficienti a giustificare l’acquisto​  e l’insussistenza di “tracce bancarie” del pagamento.

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