Il nostro ordinamento riconosce e promuove la libertà negoziale di ciascun consociato che costituisce esplicazione, da un lato, della personalità dei singoli cittadini e, dall’altro, della possibilità di esercitare in maniera autonoma l’iniziativa economica.
Nel contesto dei traffici giuridici, però, queste facoltà non possono essere fruite incondizionatamente in quanto non è consentito ledere o mettere in pericolo la sfera giuridica altrui.
Infatti, qualsiasi soggetto che ponga in essere comportamenti giuridicamente rilevanti, suscettibili di avere rilevanza esterna, non può esimersi dal prevedere ed accettare le conseguenze che da questi derivino. Per questa ragione vige il principio di autoresponsabilità che informa, dunque, l’esercizio dell’autonomia negoziale.
Il principio di apparenza del diritto
In particolare, è ben possibile che determinate condotte ingenerino nella controparte una sorta di legittimo affidamento circa la verificazione di specifici eventi. Tale condizione di aspettativa, tuttavia, potrebbe non trovare corrispondenza nella situazione di fatto, a causa di circostanze contingenti ovvero di comportamenti imprevedibili posti in essere da colui che abbia suscitato l’affidamento stesso.
In tale contesto, perciò, il legislatore, al fine di tutelare il soggetto affidato, contempla espressamente delle fattispecie ove, sebbene vi sia una discrasia tra realtà fenomenica e realtà giuridica, opera una fictio iuris che permette di ritenerle, invece, corrispondenti.
Si parla a tal proposito di apparenza del diritto.
Il pagamento al creditore apparente ex art 1189 cc
Con specifico riguardo alla materia obbligatoria, applicazione di ciò è costituita dall’istituto del pagamento al creditore apparente disciplinato dall’art. 1189 c.c.
La norma in questione prevede, infatti, che il debitore di buona fede sia liberato laddove adempia la prestazione a colui il quale, in base a circostanze univoche, appaia legittimato a riceverla.
Risulta lapalissiana, nel caso di specie, la divergenza tra circostanze fattuali e giuridiche in quanto il reale creditore è soggetto diverso da quello che in concreto beneficia dell’adempimento. Nonostante ciò, l’ordinamento cristallizza gli effetti della condotta del solvens, al fine di evitare che questi esegua la prestazione in due momenti diversi a soggetti differenti, con evidente aggravio della sua posizione debitoria.
L’istituto così ricostruito risponde, dunque, ad una primaria ratio di tutela della parte debole del rapporto obbligatorio a cui si accosta quella ulteriore di assicurare la speditezza e certezza dei traffici giuridici.
Difatti, in questo caso, l’operatività del principio di apparenza rende irrilevante l’errore in cui sia incorso il debitore sulla persona del creditore sollevando il primo dal compiere macchinosi accertamenti su chi sia legittimato a ricevere la prestazione, in ossequio al principio, di portata generale, di irrilevanza del creditore.
Altri casi di apparentia iuris
Il codice civile riconosce, peraltro, ulteriori fattispecie in cui si fa applicazione dell’apparentia iuris. In materia successoria, ad esempio, l’articolo 534. 2 c.c. fa salvi i diritti dei terzi acquistati a titolo oneroso da colui che appare legittimamente erede, il cd. erede apparente. Sul piano probatorio sarà onere dei terzi acquirenti dimostrare la propria buona fede, intesa quale ignoranza di ledere il diritto altrui.
Ancora, in tema di contratti, coerentemente con la disciplina ereditaria, l’articolo 1415 c.c. prevede l’inopponibilità della simulazione del contratto ai terzi che abbiano acquisito in buona fede diritti dal titolare apparente.
Punto di contatto tra i vari istituti esaminati è il rilievo dello stato di buona fede del soggetto che abbia ragionevolmente fatto affidamento sull’esistenza della situazione giuridica in realtà meramente apparente. Irrilevante si presenta, invece, il comportamento della controparte che abbia ingenerato tale convinzione.
L’apparentia iuris trova, perciò, larga applicazione sul piano ordinamentale, tanto che la dottrina e la giurisprudenza più attente si sono interrogate sulla possibilità di considerarla alla stregua di un principio generale e, dunque, di applicarla in chiave estensiva.
Il contratto concluso dal falsus procurator
In questa prospettiva, l’attenzione degli operatori del diritto si è particolarmente focalizzata sul tema della rappresentanza, sub specie della rappresentanza senza poteri.
Preliminarmente occorre chiarire che questa ipotesi si verifica qualora il rappresentante, anche detto falsus procurator, agisca in difetto di poteri rappresentativi ovvero eccedendo i limiti di quelli validamente conferitigli.
A ben vedere, siffatta condotta potrebbe avere una duplice portata lesiva: in primo luogo sarebbe suscettibile di vulnerare la sfera giuridica del terzo contraente che, facendo affidamento sulla presenza dei poteri rappresentativi, abbia contrattato col millantato rappresentante. A fortiori la sua attività potrebbe risultare pregiudizievole anche per il rappresentato, rectius il non rappresentato, che si troverebbe a subire gli effetti di un contratto che non ha autorizzato ed, in radice, non ha voluto.
In simili casi, l’art. 1398 c.c. si occupa di apprestare una specifica disciplina. Si prevede, infatti, che il falsus procurator sia responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per avere confidato senza sua colpa nella validità del contratto. La norma, dunque, pone una vera e propria regola di responsabilità in capo al rappresentante senza poteri che sarà tenuto al risarcimento del danno nei confronti della controparte, parametrato pacificamente al ristoro del cosiddetto interesse negativo, ossia l’utilità del terzo a non essere coinvolto in trattative inutili.
Parimenti, l’ordinamento tutela la sfera giuridica dello pseudo rappresentato: il contratto concluso dal falsus procurator, infatti, non è vincolante per il primo ed è, perciò, inefficace. Interessante appare proprio quest’ultimo profilo in quanto, nel caso di specie, la mancanza di poteri rappresentativi rileva sul piano effettuale e non su quello della validità del contratto. Viene, difatti, escluso che ci si trovi al cospetto di un contratto nullo ovvero annullabile.
Tale assunto è facilmente argomentabile se si getta lo sguardo all’art. 1399 c.c. che disciplina l’istituto della ratifica. La norma, segnatamente, prevede che il falso rappresentato possa, mediante un’apposita manifestazione di volontà, sanare il difetto di rappresentanza in modo da cristallizzare, con effetto retroattivo, gli effetti del negozio concluso tra il terzo ed il falsus procurator. Ebbene, tale considerazione vale ad escludere che il contratto così stipulato sia affetto da nullità in quanto nel nostro ordinamento, in linea generale, vige il principio della nullità insanabile.
Specularmente, è possibile escludere che il deficit di procura valga quale causa di annullabilità del contratto stesso. Ciò sulla base della circostanza che il negozio annullabile è idoneo a produrre effetti fin quando intervenga la sentenza costitutiva di annullamento: evenienza, questa, che non trova spazio nella disciplina di cui si discute, posto che il regime legale esclude in radice la produzione di qualsivoglia effetto del contratto concluso in carenza di rappresentanza.
Il contrasto giurisprudenziale sul contratto concluso dal falsus procurator
Peraltro, pacificamente riconosciuta l’inefficacia del negozio, il dibattito giurisprudenziale ha avuto ad oggetto un interessante profilo processuale: la possibilità di rilevare d’ufficio l’inidoneità contrattuale a produrre effetti.
Sul punto, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 11377 del 2015 hanno optato per l’opzione positiva sulla base di un complesso iter logico-motivazionale. In sintesi, i giudici di legittimità hanno riconosciuto alla mancanza di rappresentanza natura di elemento costitutivo della pretesa del terzo.
Infatti, laddove un soggetto agisca in giudizio per vedersi riconosciuto e tutelato un diritto che trovi la sua fonte in un contratto concluso con il falsus procurator, non si limita a dedurre gli elementi costitutivi del contratto ex articolo 1325 c.c. “ma anche che detto contratto è stato concluso da un soggetto, il rappresentante, autorizzato dal rappresentato a stipulare in suo nome, o che lo pseudo rappresentato, attraverso la ratifica, ha attribuito ex post al falso rappresentante quella legittimazione a contrarre per lui, che gli mancava al tempo del contratto”.
Su queste basi, quindi, l’inefficacia del negozio non costituisce eccezione in senso stretto e, pertanto, “ove il difetto di rappresentanza risulti dagli atti, di esso il giudice deve tener conto anche in mancanza di specifica richiesta della parte interessata, alla quale, a maggior ragione, non è preclusa la possibilità di far valere la mancanza del potere rappresentativo come mera difesa”.
Chiarito ciò sul crinale processuale, è palese come nell’ipotesi di cui si discute la tutela giuridica sia assicurata allo pseudo rappresentato ed al terzo contraente purchè entrambi versino in uno stato di buona fede, intesa rispettivamente come ignoranza incolpevole della condotta del falso rappresentante ed affidamento senza colpa rispetto all’esistenza dei poteri rappresentativi.
Lo sforzo interpretativo dei giudici di merito e di legittimità si è, però, esteso fino a considerare le ipotesi in cui il legittimo affidamento del terzo sia alimentato dalla condotta colposa del rappresentato. È ben possibile, infatti, che quest’ultimo adotti dei comportamenti attivi per stimolare la contrattazione pur essendo consapevole di non aver autorizzato l’affare, ovvero semplicemente si limiti a tollerare l’attività del falsus procurator in ordine alla conclusione di negozi per suo conto.
Ebbene, in tali evenienze il rappresentato non subisce più l’agere dello pseudo rappresentante ma diventa anch’egli soggetto attivo del processo di mistificazione posto in essere a discapito del terzo contraente. Si suole parlare, al riguardo, di apparenza colposa. Orbene, in questi casi, la tutela apprestata alla controparte incolpevole non ha più natura risarcitoria, bensì reale. È principio riconosciuto dalla giurisprudenza, infatti, che il contratto sia vincolante e produca effetti anche nella sfera giuridica del rappresentato. Viene così operata una finzione giuridica che permette, da un lato di stabilizzare la posizione del terzo contraente e, dall’altro, di responsabilizzare la condotta del soggetto rappresentato.
Sulla scorta delle considerazioni mosse si può, in conclusione, ritenere che il principio di apparentia iuris assolva ad una molteplicità di funzioni. Imponendo comportamenti ponderati, in primo luogo, esso si atteggia quale limite e criterio cui deve conformarsi l’esercizio della libertà negoziale. In più, esso risponde sicuramente ad una ratio di tutela del contraente senza colpa il cui assolvimento coinvolge necessariamente, alla luce dell’interpretazione più moderna, la valorizzazione della clausola generale di buona fede.