La nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., conseguente alla riforma perpetrata dal Jobs Act (d.lgs. 81/2015), trasforma radicalmente la vecchia concezione dello ius variandi riconosciuto in capo al datore di lavoro.
Infatti, il nuovo comma 1 della suddetta disposizione recita che «Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte».
Si intuisce, fin da subito, che i parametri alla stregua dei quali valutare la legittimità o meno dell’adibizione a mansioni differenti rispetto a quelle pattuite in sede di assunzione del prestatore di lavoro, cambiano profondamente rispetto a quelli ricavabili in via interpretativa dalla precedente normativa che, invece, prescriveva il rispetto del generico principio inderogabile di “equivalenza” tra vecchie e nuove mansioni.
Dal vecchio al nuovo concetto di “equivalenza” delle mansioni
In primo luogo, va evidenziata una innovativa ratio legis volta a tutelare non più solo lo specifico bagaglio di conoscenze ed esperienze acquisite nella fase pregressa del rapporto di lavoro, ma più che altro la professionalità intesa in senso più generico, tarata sulla posizione formale occupata dal lavoratore in azienda, in virtù del sistema di inquadramento.[1]
Con il riferimento al livello di inquadramento si realizza, dunque, un rinvio alla contrattazione collettiva[2], ed in particolare ai sistemi di classificazione ed inquadramento del personale in essa contenuti, che assumono così una maggiore rilevanza rispetto al passato,[3] quali utile metro di controllo della modificazione legittima del contenuto della prestazione lavorativa.
Pertanto, scomparso dal testo il parametro di giudizio dell’equivalenza, sembra che il significato proprio delle parole utilizzate dal legislatore, secondo la loro connessione, indichi che, in caso di mutamento in fatto delle mansioni espletate, l’unico sindacato consentito al giudice eventualmente adito dal lavoratore sia quello di verificare se i nuovi compiti siano riconducibili al livello di inquadramento formalmente attribuito al medesimo; in caso di esito positivo di tale verifica, nessun’altra comparazione sarebbe consentita, in particolare con le mansioni in precedenza espletate dal dipendente e con la professionalità che dall’esercizio di esse ne è derivato.
In altre parole, mentre in precedenza era indispensabile un raffronto empirico tra vecchie e nuove mansioni condotto alla luce del criterio dell’“equivalenza professionale”, interpretato giudizialmente, con la nuova formula il giudizio è esclusivamente di sussunzione delle nuove mansioni nell’ambito della declaratoria astratta del livello di inquadramento.[4]
Il legislatore preferisce, quindi, affidarsi all’autonomia collettiva[5], considerata “la naturale autorità di governo delle problematiche relative alla mobilità professionale”, piuttosto che ad una eccessiva soggettività e discrezionalità dei giudici nell’interpretare quella che è stata definita una norma inderogabile a precetto generico, quale l’equivalenza.
Il ruolo della contrattazione collettiva secondo la Cassazione
Nonostante questa nuova concezione “formale” di equivalenza ancorata ai contratti collettivi, la Corte di Cassazione ha tenuto a precisare che il ruolo svolto dalla contrattazione collettiva in tema di inquadramenti e mansioni non vincola in modo assoluto la valutazione del giudice[6], il quale dovrà comunque sempre verificare che le mansioni assegnate al lavoratore nell’esercizio dello ius variandi «corrispondano alla specifica competenza tecnica del dipendente, ne salvaguardino il livello professionale, non lo danneggino altrimenti nell’ambito del settore o socialmente, e siano comunque tali da consentire l’utilizzazione del patrimonio di esperienza lavorativa acquisita nella pregressa fase del rapporto; di guisa che sussiste la violazione del disposto di cui all’art. 2103 cod. civ. qualora le nuove mansioni, pur comprese nel livello – o nella categoria – contrattuale già attribuito al dipendente, comportino una lesione del suo diritto a conservare e a migliorare la competenza o professionalità maturata, o pregiudichino quello al suo avanzamento graduale nella gerarchia del settore»[7].
L’elisione dell’espressione equivalenza non pare in grado, dunque, di determinare una revisione anche di questa posizione, connessa alle caratteristiche del contratto collettivo nel settore privato e al ruolo del giudice nell’interpretazione del medesimo, prima ancora che all’oggetto della valutazione giudiziale.
Anche per questi motivi la nozione di equivalenza sembra sopravvissuta alla sua formale eliminazione dal testo della disposizione novellata.
[1] Così M. BROLLO, Disciplina delle mansioni (art. 3), cit., 51.
[2] Trattandosi di un rinvio implicito ed indiretto, si avrà riguardo alla generalità dei contratti collettivi, e non già solamente di quelli siglati da sindacati comparativamente più rappresentativi cui all’art. 51, d.lgs. n.81/2015.
[3] Cfr. M. BROLLO, Disciplina delle mansioni (art. 3), cit., 53, dove parla della fonte contrattuale come «centrale e sovrana nell’individuazione della latitudine del cambiamento professionale esigibile per effetto del potere unilaterale del datore di lavoro».
[4] In tal senso si è già espressa la giurisprudenza di merito (Trib. Roma, 30 settembre 2015, est. Sordi, in LG, 2015, 11, p. 1031 e ss., con nota di F. Aiello) secondo cui “a differenza che nel passato, è oggi legittimo lo spostamento del lavoratore a mansioni che appartengono allo stesso livello di inquadramento cui appartenevano quelle svolte in precedenza dallo stesso dipendente, non dovendosi più accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza del dipendente” (la pronuncia è annotata adesivamente da NUZZO, Il nuovo art. 2103 c.c. e la (non più necessaria) equivalenza professionale delle mansioni, in RIDL). La sentenza si segnala anche perché esamina un mutamento di mansioni disposto prima del 25 giugno 2015 ma in atto ancora dopo tale data: secondo la pronuncia, costituendo il demansionamento una sorta di illecito “permanente”, per cui la liceità della condotta datoriale deve essere compiuta con riferimento alla disciplina legale e contrattuale vigente giorno per giorno, l’assegnazione di determinate mansioni considerata illegittima in un certo momento, può non esserlo più in un momento successivo; con l’ulteriore conseguenza, in tale ultimo caso, che il datore di lavoro non può essere condannato al risarcimento del danno per il periodo successivo al 25 giugno 2015 né all’assegnazione di mansioni al lavoratore diverse da quelle in atto svolte. Al contrario Trib. Ravenna, 30 settembre 2015, inedita a quanto consta, ha ritenuto non applicabile la nuova normativa alla fattispecie concreta “perché il fatto generatore del diritto allegato nel giudizio (il demansionamento) si è prodotto nel vigore della legge precedente. Ed il fatto che segna il discrimine tra una normativa e l’altra è proprio il prodursi del demansionamento; con la correlata tutela reintegratoria e risarcitoria. A nulla conta invece che essa continui nel vigore della legge successiva; la quale peraltro non contiene alcuna norma retroattiva e nemmeno di diritto intertemporale”.
[5] Sin dalle “Osservazioni e proposte sulla revisione della legislazione sul rapporto di lavoro avanzate dal CNEL” (4 giugno 1985, n. 206/154, relatore Mengoni) si poneva l’accento sulla “strutturale difficoltà del giudice ad esercitare poteri di controllo in questa materia” prospettandosi come soluzione migliore quella di affidare alla contrattazione collettiva il compito di definire in concreto il rapporto di equivalenza.
[6] Cass. 20 marzo 2004, n. 5651, in Giust. civ. Mass., 2004, f. 3; Cass. 23 novembre 1995, n. 12121, in Dir. lav., 1996, II, p. 356; Cass. 9 aprile 1992, n. 4314, in Riv. it. dir. lav. 1993, II, p. 287; Cass. 23 gennaio 1988, n. 539, in Not. giur. lav., 1988, p. 313; ma già Cass. 8 febbraio 1985, n. 1038, in Foro it., 1986, I, c. 149. L’arresto giurisprudenziale più recente in argomento, confermato dalle decisioni successive, è comunque Cass. Ss.Uu. 24 novembre 2006, n. 25033, in Foro it., 2007, I, c. 786, che riconosce all’autonomia collettiva significativi spazi di intervento.
[7] Così Cass. 17 luglio 1998, n. 7040, in Riv. it. dir. lav., 1999, II, p. 276; Sul punto anche Cass. 1° settembre 2000, n. 11457, in Lav. giur., 2001, p. 173.