Comunione: differenze tra comunione ordinaria, legale, ereditaria, condominio e società

La comunione ordinaria

La comunione ordinaria, disciplinata dagli artt. 1100 ss c.c., si configura quando la medesima cosa forma oggetto del diritto di proprietà o del diritto reale di più persone, distinguendosi dalla proprietà individuale o solitaria, che si ha quando tali diritti appartengono ad un solo soggetto[1].

Posto che, come noto, caratteri essenziali della proprietà sono la pienezza (ius utendi et abutendi) e l’esclusività (ius excludendi alios), la dottrina si è a lungo interrogata su come giustificare la contestuale presenza di due autonomi diritti di proprietà su un medesimo bene.

Secondo alcuni, titolare del diritto dominicale sarebbe la collettività delle persone che vantano il diritto sul bene, quale ente giuridico con propri organi e proprie competenze, in quanto i limiti posti dal codice alle facoltà dei comunisti impediscono che si possa parlare di un diritto di proprietà dei singoli e, inoltre, le decisioni sono prese a maggioranza.

A ben vedere, però, non esiste un ente autonomo, con un proprio patrimonio, cui sia imputabile il diritto.

Altri hanno fatto riferimento alla c.d. proprietà plurima integrale: la comunione implica una pluralità di diritti di proprietà sul bene, tra loro uguali ma limitati, in quanto coesistenti con quelli degli altri[2].

In realtà la soluzione è correttamente individuabile solo tenendo in considerazione il concetto di quota, giacché la res, nella sua materialità, appartiene per intero a tutti, ma, idealmente, si scompone in tante quote quanti sono i partecipanti.

La quota, dunque, segna la misura della partecipazione di ciascuno, nei vantaggi e nei pesi[3].

Pertanto, il comproprietario può esercitare il diritto di proprietà su tutta la cosa comune nei limiti di cui all’art. 1102 c.c., mentre ha la piena disponibilità della propria quota, ai sensi dell’art. 1103 c.c.

Posto che il diritto di ogni comunista investe l’intero bene, trattasi di comunione pro indiviso, come confermato dalla prevalente giurisprudenza secondo cui, per quanto l’esercizio del diritto di ciascun contitolare sia limitato dalla compresenza di diritti uguali e concorrenti di altri, ciascuno è titolare di un diritto sull’intera cosa comune e non solo su una sua frazione[4].

Diritti e obblighi sono rinunciabili dal titolare mediante un negozio di natura abdicativa, con conseguente ripartizione del diritto tra gli altri comunisti, in proporzione delle loro quote; qualora rimanga un solo compartecipe, questi diviene proprietario esclusivo del bene, poiché il diritto di proprietà si espande in forza del principio di elasticità[5].

Modi di costituzione

Quanto ai modi di costituzione, è possibile distinguere tra

  • comunione volontaria, frutto dell’accordo delle parti,
  • comunione incidentale, derivante da un atto dei futuri contitolari diretto alla sua costituzione,
  • comunione forzosa, scaturente dall’esercizio di un diritto potestativo.

La disciplina codicistica, in quanto derogabile dal titolo, troverà applicazione soltanto in mancanza di una diversa regolamentazione negoziale.

Uso collettivo, uso frazionato e uso indiretto

Il diritto di ogni comunista, pur investendo il bene per intero, incontra un limite nel diritto degli altri compartecipi, pertanto ciascuno può servirsi della cosa comune (c.d. uso collettivo o promiscuo), ma senza alterarne la destinazione e impedire agli altri di farne uso.

Le parti possono pattuire il c.d. uso frazionato, accordandosi nel senso di dividere il godimento della res sulla base di alcuni criteri (spazio e/o tempo), purché la predetta utilizzazione rientri tra quelle cui è destinata la cosa comune e non alteri od ostacoli il godimento degli altri comproprietari[6].

Inoltre, se per la natura del bene o altre circostanze non sia possibile un godimento diretto del bene comune, è ammesso il c.d. uso indiretto, ad esempio mediante locazione[7].

L’amministrazione della cose comune

Per quanto concerne, poi, l’amministrazione, ad essa concorrono tutti i partecipanti ma, dal momento che di norma la comunione intercorre fra molte persone ed è difficile arrivare a soluzioni unanimemente condivise, la legge richiede che si decida secondo il principio di maggioranza, più o meno alta a seconda che si tratti, rispettivamente, di atti di amministrazione straordinaria (art. 1108 comma 2 c.c.) ovvero ordinaria (art. 1105 comma 2 c.c.).

Inoltre, nel primo caso la maggioranza si calcola per teste, nel secondo per quote.

Un limite all’autonomia negoziale delle parti è posto dalla legge con il divieto del c.d. patto di indivisione, per cui la comunione non può essere pattuita per una durata superiore a dieci anni e, qualora sia stato previsto un termine maggiore, esso si riduce a quello legale.

Lo scioglimento della comunione

Infine, allo scioglimento della comunione ordinaria si procede mediante divisione,

  • negoziale, se tutti i comunisti sono concordi,
  • ovvero giudiziale, quindi per ordine del Tribunale su domanda di uno dei partecipanti che “può chiedere in qualsiasi momento lo scioglimento”, salvo si tratti di cose che, se divise, cesserebbero di servire all’uso cui sono destinate (artt. 1111 e 1112 c.c.)[8].

Se possibile, la divisione si attua in natura, trasformando le quote ideali in parti fisiche della res, altrimenti si procede alla sua assegnazione in proprietà ad uno dei partecipanti, che verserà in denaro il valore della loro quota, oppure alla sua vendita con conseguente ripartizione dei ricavi tra i partecipanti[9].

Il condominio

La figura del condominio ricorre quando coesistono, in un medesimo edificio, più unità immobiliari in proprietà esclusiva di singoli condomini e parti comuni strutturalmente e funzionalmente connesse al complesso delle prime.

Gli appartamenti sono oggetto di proprietà solitaria dei singoli, mentre altre parti, cd. parti comuni, specificamente indicate dalla legge (quali, a mero titolo esemplificativo, il suolo, i parcheggi e i cortili) sono oggetto di comproprietà tra tutti.

Posto che, a livello sistematico, il Titolo VII della comunione contiene al proprio interno, al capo II, la disciplina del condominio, si è ritenuto che tra i due istituti intercorra un rapporto di genere a specie, anche alla luce del rinvio generale di cui all’art. 1139 c.c.

In particolare, il condominio sarebbe una comunione forzosa.

Prima di analizzare le differenze tra le figure in parola, pare opportuno premettere qualche breve cenno sulla specifica normativa di riferimento (artt. 1117 ss c.c.), peraltro oggetto di un recente intervento riformatore (l. 220/2012).

Il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni

Salva diversa disposizione del titolo, il diritto di ciascun condomino sulle parti comuni è proporzionale al valore della relativa unità immobiliare e, trattandosi appunto di comunione forzosa, non è possibile né rinunciarvi né sottrarsi al pagamento delle relative spese.

Stante il rinvio, deve ritenersi applicabile l’art. 1102 c.c. in tema di uso della cosa comune (c.d. uso promiscuo) e di miglioramenti, rispetto al quale vale la pena di precisare che “la nozione di pari uso della cosa comune non va intesa nei termini di assoluta identità dell’utilizzazione del bene da parte di ciascun comproprietario, in quanto l’identità nel tempo e nello spazio di tale uso comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio, pure laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento dell’oggetto della comunione”[10].

Invero, per pacifica giurisprudenza, non è necessario che gli utilizzi dei singoli condomini siano corrispondenti, non essendo “precluso al comproprietario il diritto di trarre dal bene condominiale una utilità maggiore e più intensa rispetto agli altri comproprietari, ovviamente nel rispetto dei paletti imposti dall’art. 1102 c.c.”[11].

Le differenze tra comunione ordinaria e condominio

Il diritto del singolo. Passando ai tratti peculiari, una prima caratteristica consiste nel diritto di cui il singolo è titolare, giacché il comunista vanta un diritto sull’intera cosa, mentre il condomino è titolare sia di un diritto sulla cosa comune che di un diritto di proprietà esclusiva sul proprio immobile.

Le quote. Inoltre, se è vero che in entrambi i casi le singole partecipazioni sono identificabili dalle quote ideali, è anche vero che nella comunione esse si presumono uguali (art. 1101 c.c.), mentre nel condominio sono proporzionali al valore dell’unità immobiliare ed espresse in millesimi (art. 1118 c.c.).

Le quote servono per individuare la misura in cui i singoli sono tenuti a partecipare alle spese per la cosa comune, con la differenza che il comunista può rinunciare al suo diritto mentre ciò è precluso al condomino, se non congiuntamente alla porzione immobiliare di proprietà esclusiva.

A tal proposito è stato precisato[12] che è nulla la clausola, contenuta in un contratto di vendita di un’unità immobiliare di un condominio, che escluda dal trasferimento la proprietà di alcune delle parti comuni, perché in questo modo si attuerebbe una rinuncia del condomino alle predette parti, vietata dal capoverso dell’art 1118 c.c.

Invero, la ratio che giustifica la differente disciplina risiede nella “diversa utilità dei beni che formano oggetto del condominio e della comunione: rispettivamente, l’utilità strumentale e l’utilità finale. Le parti comuni dal codice sono considerate beni strumentali al godimento dei piani o delle porzioni di piano in proprietà esclusiva; cose in comunione costituiscono beni autonomi, suscettibili di utilità fine a sé stessa e come tali sono considerate”[13].

In altre parole, le parti condominiali comuni, essendo serventi rispetto all’utilizzo dell’immobile in proprietà solitaria, sono necessarie per il suo godimento, con la conseguenza che la cessione delle parti comuni può avvenire solo contestualmente alla cessione dell’immobile; al contrario, con riferimento alla cosa in comunione, ciascun comunista può sempre disporre della propria quota (art. 1103 c.c.).

Lo scioglimento della comunione. Per le medesime ragioni, la legge ammette ciascun partecipante a chiedere lo scioglimento della comunione, a meno che la divisione delle cose impedisca alle stesse di servire all’uso cui sono destinate (artt. 1111 e 1112 c.c.), laddove nel condominio vige la regola della indivisibilità, salve eccezioni (art. 1119 c.c.).

Del resto, neppure in relazione all’immobile di proprietà individuale sussiste un potere di disposizione totale in capo al titolare, il quale non può eseguire opere che rechino danno alle parti comuni o a stabilità, sicurezza e decoro architettonico dell’edificio (art. 1122 c.c.), a dimostrazione della preminenza dell’interesse collettivo.

Sul punto è stato ritenuto che, salve eventuali limitazioni derivanti dal regolamento approvato da tutti i condomini, la norma de qua “non vieta di mutare la semplice destinazione della proprietà esclusiva ad un uso piuttosto che ad un altro, purché non siano compiute opere che possano danneggiare lo parti comuni dell’edificio o che rechino altrimenti pregiudizio alla proprietà comune”[14].

L’amministrazione della cosa comune. Ulteriori profili differenziali emergono circa l’amministrazione della cosa comune.

In primo luogo, nella comunione non è mai obbligatoria la nomina di un amministratore, a prescindere dal numero dei partecipanti, nomina che è invece necessaria nell’ipotesi in cui i condomini siano più di otto (art. 1129 comma 1 c.c.).

In secondo luogo, se in tema di comunione la legge nulla dispone, nei condomini in cui vi siano più di dieci condomini è richiesta l’adozione di un regolamento condominiale (art. 1138 comma 1 c.c.).

La soggettività del condominio

È infine opportuno soffermarsi sulla soggettività del condominio.

Secondo la tesi tradizionale, esso consisterebbe nella semplice proprietà comune di alcune parti dell’edificio poste a servizio di altre parti ed a queste ultime legate da un rapporto necessario e perpetuo di accessorietà e complementarietà a senso unico: la comunione sarebbe quindi meramente strumentale rispetto all’esercizio dei singoli diritti di proprietà esclusiva.

In senso più ampio, invece, parte della dottrina ha fatto riferimento ad una “situazione mista di comproprietà e concorso di proprietà solitarie”, configurando il condominio come una struttura organizzativa in cui vi sono organi titolari di poteri gestori volti a realizzare l’interesse del condominio (interesse oggettivo), distinto dagli interessi dei singoli condomini (interessi soggettivi).

Ancora, la giurisprudenza ha parlato di “ente di gestione”, che è però sfornito di una personalità giuridica distinta da quella dei singoli partecipanti.

In senso favorevole a tale personalità si richiamano i lavori preparatori della l. 220/2012, dove v’era stato un tentativo che però non andò in porto.

Inoltre, ad avviso delle Sezioni Unite[15], dalla riformata disciplina emergerebbero una serie di indicatori favorevoli alla configurabilità della personalità giuridica, quali gli obblighi per l’amministratore di tenere distinta la gestione del patrimonio del condominio e di quello personale o di altri condomini (art. 1129 comma 12 n. 4 c.c.), per l’assemblea di costituire un fondo speciale per la manutenzione straordinaria e le innovazioni (art. 1135 n. 4 c.c.) e per i condominii, in tema di trascrizione, di indicare l’eventuale denominazione, l’ubicazione e il codice fiscale (art. 2659 n. 1 c.c.).

Si legge infatti che “se pure non è sufficiente che una pluralità di persone sia contitolare di beni destinati ad uno scopo perché sia configurabile la personalità giuridica e se dalle altre disposizioni in tema di condominio non è desumibile il riconoscimento della personalità giuridica (…) tuttavia non possono ignorarsi gli elementi sopra indicati, che vanno nella direzione della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pure attenuata personalità giuridica e comunque (…) di una soggettività giuridica autonoma”.

Ad oggi tuttavia non si ritiene che tale personalità sussista.

Comunione legale

Il codice civile del 1942, nella sua formulazione originaria, prevedeva che il regime legale dei rapporti patrimoniali tra coniugi fosse quello della separazione legale dei beni.

Fu la riforma del 1975 che, equiparata la posizione giuridica di questi, pose come regola il regime di comunione, così da realizzare una piena condivisione degli incrementi di ricchezza che ogni componente della coppia avesse ottenuto, anche singolarmente, in costanza di matrimonio, in coerenza con il principio di solidarietà economica.

Tale comunione non è però universale, comprensiva di tutto quanto appartiene a ciascuno dei coniugi, ma si riferisce ai soli acquisti compiuti in costanza di matrimonio, peraltro salvo qualche eccezione.

In particolare:

  • alcuni beni diventano oggetto di comunione appena acquistati durante il matrimonio (c.d. comunione immediata),
  • altri cadono in comunione solo se se sussistenti al momento dello scioglimento della stessa (c.d. comunione differita o de residuo),
  • mentre altri ancora non possono per legge farne parte, rimanendo nella titolarità esclusiva del singolo coniuge (c.d. beni personali)[16].

Tramite convenzione matrimoniale ex art. 162 c.c. le parti possono scegliere un diverso regime patrimoniale, ossia la separazione dei beni o la comunione convenzionale, cioè una comunione disciplinata diversamente, seppur negli stringenti limiti di legge.

Rapporto e differenze tra comunione ordinaria e comunione legale

Tanto premesso in linea generale, si deve osservare come la comunione legale non sia riconducibile in toto alla comunione ordinaria.

Le quote. Per giurisprudenza costante configura una “comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei, trattandosi di comunione finalizzata, a differenza della comunione ordinaria, non già alla tutela della proprietà individuale, ma piuttosto a quella della famiglia”[17].

Tale affermazione è pacifica sin da una pronuncia della Consulta[18] di fine anni ’80, dove si statuì che nella comunione ordinaria le quote sono oggetto di un diritto individuale dei singoli partecipanti e delimitano il potere di disposizione di ciascuno sulla cosa comune (art. 1103), laddove nella comunione legale i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni della comunione (art. 189 comma 2).

Nella comunione legale la quota non è elemento strutturale, svolgendo solo la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189), la misura della responsabilità sussidiaria di ciascun coniuge con i propri beni personali verso i creditori della comunione (art. 190) e la proporzione in cui, sciolta la comunione, l’attivo e il passivo saranno ripartiti tra coniugi o loro eredi (art. 194).

I rapporti con i terzi. Quindi, nei rapporti coi terzi, ciascuno ha il potere di disporre dei beni della comunione.

Lo scioglimento della comunione. In ragione della tutela della famiglia, la comunione può sciogliersi solo nei casi ex lege (art. 191 c.c.), può comprendere soltanto i beni previsti dal codice (art. 177 c.c.) ed è costituita da quote inderogabilmente uguali (artt. 194 comma 1 e 210 comma 3 c.c.).

La natura giuridica. Alla luce di tali tratti peculiari, diverse sono le teorie elaborate sulla sua natura giuridica.

Per la tesi soggettiva si tratta di un autonomo soggetto di diritto distinto dai coniugi, mentre secondo quella oggettiva – prevalente – essa dà semplicemente luogo ad un’ipotesi di contitolarità di beni assoggettata ad un particolare regime normativo, per quanto concerne la circolazione dei beni e la garanzia patrimoniale, in ragione delle esigenze familiari[19].

La comunione ereditaria

Qualora l’eredità sia acquistata da più persone, sui beni ereditari si forma una comunione tra i coeredi, in particolare una comunione incidentale, e trova applicazione la disciplina generale sulla comunione ordinaria (artt. 1110 ss c.c.).

Le differenze tra comunione ordinaria ed ereditaria

Struttura e divisione. Una prima differenza risiede nel fatto che la comunione ordinaria presenta una struttura per così dire atomistica, tant’è che il codice parla sempre di “cosa comune”, mentre la comunione ereditaria è una universitas iuris.

Infatti, la divisione della prima deve tendenzialmente avere luogo in natura ex art. 1114 c.c., mentre nel secondo caso è necessario procedere alla formazione delle porzioni, previa stima dei beni, in modo da comprendere beni mobili, immobili e crediti che presentino natura e qualità uguali ex art. 727 c.c.

Le quote. Inoltre, se nella comunione ereditaria le quote sono predeterminate dalla legge (successione legittima) oppure individuate dal de cuius (testamento), in quella ordinaria si presumono uguali.

Le norme sulla divisione sono quelle previste dal libro delle successioni agli artt. 713 ss c.c., cui l’art. 1116 c.c. fa rinvio in quanto non siano in contrasto con la disciplina delle cose comuni.

Diritti e obblighi dei comunisti. Le differenze derivano dal fatto che, nell’ambito del diritto successorio, coesistono interessi, diritti e obblighi tanto personali quanto patrimoniali, laddove la comunione si connota pressoché esclusivamente sotto il profilo economico.

Pertanto il coerede è titolare di alcune situazioni giuridiche intrasmissibili anche qualora alieni la propria quota ereditaria.

Alienazione della quota. Nella comunione ordinaria ogni comunista può alienare liberamente la propria quota (art. 1103 c.c.), mentre in quella ereditaria si è voluto evitare che nei rapporti tra coeredi, tendenzialmente legati da vincoli affettivi, si intromettano estranei con fini speculativi.

Pertanto i coeredi sono titolari di un diritto di prelazione (art. 732 c.c.), in forza del quale, quando uno degli altri voglia alienare la sua quota o parte di essa, essi devono essere preferiti ai terzi.

In particolare, il coerede che intende procedere all’alienazione deve notificare loro la proposta col prezzo, affinché questi decidano entro due mesi, decorsi i quali il primo potrà liberamente alienare ad estranei.

Il retratto successorio

Se il coerede procede alla vendita in mancanza della notificazione, gli altri possono ricorrere al c.d. retratto successorio, ossia esercitare il diritto potestativo di riscattare la quota per il prezzo pagato sostituendosi all’acquirente nel negozio di alienazione, quindi procedere all’esecuzione coattiva in forma specifica del diritto di prelazione violato nei confronti dei terzi acquirenti.

Alla luce della descritta finalità “il retratto successorio, previsto in tema di comunione ereditaria al fine di impedire l’intromissione di estranei nello stato di contitolarità determinato dall’apertura della successione “mortis causa”, non si applica nella situazione di comunione ordinaria conseguente alla congiunta attribuzione di un bene ad alcuni coeredi in sede di divisione, non potendo, peraltro, operare in tal caso l’art. 732 c.c. in virtù del rinvio di cui all’art. 1116 c.c., in quanto per la comunione ordinaria vige il principio di libera disposizione della quota, ai sensi dell’art. 1103 c.c.”[20].

Di recente è stato però precisato che il retratto trova comunque applicazione qualora una porzione di immobile della quota ereditaria si trovi già in comunione ordinaria, poiché “essendo il retratto esercitato per l’intera quota ereditaria, l’erede subentra, tramite l’acquisto della quota, nella situazione preesistente”[21].

Dal momento che la comunione ereditaria cessa solo con la divisione tramite la trasformazione dei diritti dei singoli partecipanti su quote ideali dell’eredità in diritti di proprietà individuali su singoli beni, lo scioglimento nei confronti di uno solo dei coeredi non fa venir meno il diritto di prelazione a favore dei coeredi, in quanto “la comunione residuale sui beni ereditari si trasforma in comunione ordinaria, con la conseguente inapplicabilità dell’art. 732 c.c., soltanto quando siano state compiute le operazioni divisionali dirette ad eliminare la maggior parte delle varie componenti dell’asse ereditario indiviso al momento dell’apertura della successione”[22].

Le differenze tra la comunione ordinaria e le società

Lo scopo lucrativo. Il tratto peculiare della società rispetto alla comunione emerge dal disposto dell’art. 2247 c.c., secondo il quale, mediante il contratto di società, “due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili”.

I soci, dunque, si accordano per svolgere un’attività economica, laddove i comunisti esercitano in comune il godimento di un determinato bene, caso in cui si parla di comunione a scopo di godimento e l’art. 2248 c.c. rinvia alla disciplina della comunione ordinaria (artt. 1100 ss c.c.).

Per principio consolidato “l’elemento discriminante tra comunione a scopo di godimento e società è costituito dallo scopo lucrativo perseguito tramite una attività imprenditoriale che si sostituisce al mero godimento ed in funzione della quale vengono utilizzati beni comuni”[23], sottolineandosi che la comunione si caratterizza per la prevalenza dell’elemento statico del godimento dei beni secondo la loro destinazione, mentre la società per quello dinamico della strumentalità dei beni al compimento di un’attività, i cui utili saranno ripartiti tra le parti.

Il vincolo di destinazione. Dai tratti peculiari della società – esercizio dell’attività d’impresa e funzionalizzazione dei beni comuni verso tale attività – deriva, quale logico corollario, che, se nella comunione i partecipanti possono autonomamente comportarsi come proprietari rispetto al bene comune, seppur nei limiti dei diritti altrui, in ambito societario viene impresso un vincolo di destinazione sulla res, la quale è suscettibile di essere utilizzata solo per l’esercizio in comune dell’attività d’impresa (art. 2256 c.c.).

Lo scioglimento. Inoltre, mentre la disciplina societaria (artt. 2272 e 2284) richiede la volontà di tutti i soci al fine di sciogliere o liquidare la società, essendo i beni sociali assoggettati alle pretese creditorie, la normativa in tema di comunione (art. 1111) rimette a ciascun comunista la facoltà di domandare lo scioglimento.

Il patrimonio sociale. Invero, i conferimenti dei soci vanno a costituire il patrimonio sociale, imputabile alla società in sé, mentre nella comunione ciascun partecipe è titolare del proprio patrimonio, in cui rientra anche la quota della cosa comune.

La liquidazione della quota. Peraltro, in sede di liquidazione della quota, il socio uscente avrà diritto soltanto ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota determinata “in base alla situazione patrimoniale della società nel giorno in cui si verifica lo scioglimento” (art. 2289) oppure alla liquidazione delle azioni “tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni” (art. 2437ter).

Dunque, il socio recedente non ha diritto alla restituzione dei beni conferiti.

Il rapporto con i creditori. Altro profilo differenziale concerne i creditori, giacché, ai sensi dell’art. 2267 c.c., essi possono far valere i propri diritti sul patrimonio sociale, il quale è infatti esclusivamente destinato alla loro soddisfazione ed è autonomo rispetto ai creditori particolari dei singoli soci, laddove nella comunione non si distingue tra creditori della comunione e creditori personali dei comunisti.

Il discrimen diviene più incerto qualora si tratti di un bene produttivo, nonostante l’astratta chiarezza del criterio ordinario, in forza del quale si rientra nell’ambito della comunione se i compartecipi non utilizzano il bene, lo cedono in godimento a terzi o si limitano a raccoglierne i frutti naturali, non potendo detta attività qualificarsi come d’impresa ex art. 2082 c.c., mentre sussiste una società se i soci, mediante il bene produttivo, esercitano attività d’impresa[24].

La trasformazione della comunione in società. Peraltro la giurisprudenza di legittimità ha ammesso che la trasformazione della comunione in società possa risultare tanto da un atto formale quanto dal comportamento in concreto assunto dai comproprietari con lo svolgimento, di fatto, di attività di impresa e l’utilizzazione all’uopo di beni comuni[25].

Sul punto assume preminente rilievo il dibattito circa l’ammissibilità di quel tertium genus qualificato quale “comunione d’impresa”.

La comunione d’impresa

Secondo parte della dottrina, la figura in parola sussisterebbe quando due o più soggetti acquistano in comunione un fondo e vi esercitano personalmente un’attività agricola (c.d. comunione d’impresa agricola) o un’azienda commerciale e vi esercitano direttamente tale attività (c.d. comunione d’impresa commerciale), ovvero quando ricevono in eredità un bene produttivo e continuano personalmente l’attività economica (c.d. comunione d’impresa incidentale).

Tale orientamento evidenzia che, da un lato, mancherebbe il conferimento dei beni in società e dunque non si formerebbe un patrimonio autonomo, e, dall’altro, vi sarebbe esercizio in comune di un’attività economica, ragione per cui troverebbero applicazione le regole della comunione e non della società, sul presupposto che, ai fini della valida costituzione di una società, debba ricorrere un’espressa manifestazione di volontà che trasformi la comunione dei beni in autonomo patrimonio sociale.

Una nota pronuncia della Corte di legittimità[26] ha escluso expressis verbis tale categoria intermedia tra comunione a scopo di godimento e società, le quali si differenziano in base all’esistenza o meno dell’esercizio in comune di un’attività d’impresa.

Di conseguenza, nel caso di comunione d’azienda, laddove il godimento si concretizzi nel diretto sfruttamento di questa da parte dei partecipanti alla comunione, è configurabile l’esercizio di un’impresa collettiva, nelle forme della società regolare oppure irregolare o di fatto.

Ciò vale anche per l’azienda compresa in un’eredità: essa rimarrà in comunione incidentale finché i coeredi si limitino a godere della medesima, mentre si trasformerà in società qualora questi inizino ad esercitarla con fine di lucro.

È esclusa la coesistenza di una comunione d’azienda e di una società lucrativa, in quanto lo scopo di lucro esclude la comunione a scopo di godimento[27].

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[1] F. Galgano, Diritto privato, Padova, 2010, 175.

[2] L. Nivarra – V. Ricciuto – C. Scognamiglio, Diritto privato, Torino, 2016, 775 s.

[3] F. Galgano, Op. cit., 176.

[4] Cass. civ., sez. VI, 28 gennaio 2015, n. 1650.

[5] Cass. civ., sez. II, 9 settembre 2009, n. 23691.

[6] Cass. civ., sez. II, 28 gennaio 1985, n. 434.

[7] Cass. civ., sez. II, 5 settembre 2013, n. 20394.

[8] F. Caringella – L. Buffoni, Manuale di diritto civile, Roma, 2016, 466.

[9] F. Galgano, Op. cit., 178.

[10] Cass. civ., sez. II, 14 aprile 2015, n. 7466.

[11] Cass. civ., sez. VI, 14 novembre 2014, n. 24295.

[12] Cass. civ., sez. II, 29 gennaio 2015, n. 1680.

[13] Cass. civ., Sez. Un., 31 gennaio 2006, n. 2046.

[14] Cass. civ., sez. II, 27 ottobre 2011, n. 22428.

[15] Cass. civ., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 19663.

[16] A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2015, 1246 ss.

[17] Cass. civ., sez. III, 14 marzo 2013, n. 6575.

[18] Corte cost., 17 marzo 1988, n. 311.

[19] L. Nivarra – V. Ricciuto – C. Scognamiglio, Diritto privato, Torino, 2013, 863 s.

[20] Cass. civ., sez. II, 27 marzo 2015, n. 6293.

[21] Cass. civ., sez. II, 7 marzo 2017, n. 5754.

[22] Ex multis, Cass. civ., sez. II, 12 ottobre 2007, n. 21491.

[23] Cass. civ., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3028.

[24] A. Torrente – P. Schlesinger, Op. cit., 334 s.

[25] Cass. civ., sez. I, 10 novembre, 1992, n. 12087.

[26] Cass. civ., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3028.

[27] G. Cucinella, Brevi riflessioni sulle differenze tra comunione a scopo di godimento e società, in Rivista di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’Ambiente, 2010, 143 ss.

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