L’art. 825 del codice civile stabilisce che “sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico (art. 823 c.c.) i diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti […]”.
Parte della dottrina[1], distingue due tipologie di diritti reali pubblici: le servitù prediali pubbliche e i diritti di uso pubblico (o servitù di uso pubblico).
Il principale carattere differenziale tra i suddetti diritti reali è costituito dal fatto che nel primo caso le servitù si costituiscono a carico di un fondo privato per l’utilità di un bene demaniale. Nel secondo caso, le servitù si costituiscono a favore di una indeterminata collettività di cittadini per fini di pubblico interesse.
A tal uopo, si osservi che la sopra richiamata finalità di pubblico interesse deve essere corrispondente a quella perseguita dai beni demaniali[2].
Tale categoria di diritti reali non deve essere confusa con quella dei cosiddetti usi civici poiché questi ultimi sono autonomamente caratterizzati dalla fonte consuetudinaria, dalla titolarità collettiva e dal contenuto esteso al godimento dei frutti[3].
Differenti sono anche le modalità di costituzione: le servitù prediali pubbliche possono essere costituite, “oltre che per legge o in seguito ad atto amministrativo ablatorio, anche per contratto, per testamento, per destinazione del padre di famiglia e per usucapione”[4].
La costituzione dei diritti di uso pubblico può invece avvenire in forza di un provvedimento amministrativo, per usucapione e per effetto di dicatio ad patriam.
La “dicatio ad patriam“
La giurisprudenza di legittimità ha affermato che “la costituzione di una servitù di uso pubblico su bene privato per effetto di dicatio ad patriam postula un comportamento del proprietario che volontariamente mette a disposizione della collettività dei cittadini il bene medesimo, consentendone in modo continuativo l’uso al fine di soddisfare le esigenze di un numero indeterminato di individui, indipendentemente quindi dai motivi per i quali tale comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità o meno e dallo spirito che lo anima”[5].
La surriferita dicatio, però, non sortisce alcun effetto traslativo del bene, il quale continua a restare di proprietà del soggetto privato[6].
In ultima analisi, il Consiglio di Stato considera ammissibile anche l’acquisto per usucapione del diritto di uso pubblico da parte della collettività[7].
In particolare, affinché un’area privata possa essere usucapita risulta necessaria la sussistenza concomitante delle seguenti condizioni:
- “1) l’uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, considerati uti cives in quanto portatori di un interesse generale, non essendo sufficiente un’utilizzazione uti singuli, cioè finalizzata a soddisfare un personale esclusivo interesse per il più agevole accesso alla propria unità abitativa;
- 2) l’oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l’esercizio della servitù;
- 3) il protrarsi per il tempo necessario per l’usucapione”[8].
Per quanto concerne l’estinzione dei suddetti diritti demaniali si rammenti che, alla luce del prevalente orientamento della dottrina[9], il mancato esercizio dei poteri e delle facoltà in capo allo Stato, nel primo caso, o della collettività, nel secondo, non dispiega alcun effetto poiché i diritti demaniali sono imprescrittibili e inalienabili.
In tale prospettiva, il soggetto titolare del bene potrà riacquistare la pienezza del proprio diritto di proprietà “solo in seguito ad un apposito provvedimento della pubblica amministrazione interessata o quando si verifichino circostanze incompatibili con la persistenza dell’asservimento del bene privato a pubblici interessi”[10].
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[1] V. CAPUTI JAMBRENGHI, I beni pubblici, in Diritto Amministrativo, a cura di L. MAZZAROLI – G.PERICU – A. ROMANO – F.A. ROVERSI MONACO
[2] T. CAMPANILE – F. CRIVELLARI – L. GENGHINI, in I diritti reali, Manuali Notarili a cura di L. GENGHINI, Padova, 2011, p. 53.
[3] T. CAMPANILE – F. CRIVELLARI – L. GENGHINI, cit., p. 53
[4] T. CAMPANILE – F. CRIVELLARI – L. GENGHINI, cit., p. 52.
[5] Cass. 17 marzo 1995, n. 3117, in Mass. Giur. It.,1995; si veda altresì Cass. 12 agosto 2002, n. 12167, in Mass. Giur. It., 2002.
[6] Cass. 1 dicembre 1998, n. 12181, in Notariato, 1999, p. 329
[7] Sul punto si veda Cons. Stato 24 maggio 2007, n. 2618
[8] Cass. 9 luglio 2003, n. 10772, in Mass. Giur. It., 2003; Cass. 20 giugno 1995, n. 6952, in Mass. Giur. It., 1995
[9] Si veda E. CASTORINA – G. CHIARA, Beni pubblici, in Il Codice Civile, Commentario, fondato da P. SCHLESINGER, diretto da F.D. BUSNELLI, Milano, 2008, p. 234
[10] T. CAMPANILE – F. CRIVELLARI – L. GENGHINI, cit., p. 55.