
La giurisprudenza di cassazione, sebbene negli ultimissimi anni non abbia mostrato interesse per il tema della parte che sta da sola in giudizio davanti al Giudice di Pace, in tempi più risalenti ma pur sempre vicini ha interpretato le norme del codice di rito (artt. 82 e 113 c.p.c.) armonizzandole col valore costituzionale del diritto alla difesa. Ne è emersa una concezione esaltata del diritto della parte a stare da sola in giudizio; concezione che andrebbe ripresa e valorizzata nelle aule di giustizia secondo lo spirito delle recenti riforme. Per un approfondimento su questi temi, ti consigliamo il volume “Formulario commentato della famiglia e delle persone”, acquistabile cliccando su Shop Maggioli o su Amazon.
Formulario commentato del processo civile innanzi al giudice di pace
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L’opera fornisce per ogni argomento procedurale lo schema della formula, disponibile anche online in formato editabile e stampabile.
Lucilla Nigro
Autore di formulari giuridici, unitamente al padre avv. Benito Nigro, dall’anno 1990. Avvocato cassazionista, Mediatore civile e Giudice ausiliario presso la Corte di Appello di Napoli, sino al dicembre 2022, è attualmente Giudice ordinario di pace.
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Il diritto a stare da soli davanti al GdP (art. 82 cc. 1 e 2 c.p.c.)
Il tema della parte che si difende da sola, in particolare davanti al giudice di pace, è appunto vecchio e appare ormai di scarso interesse, se si assume quale indice la giurisprudenza di cassazione e gli argomenti cui questa dedica prevalentemente la propria attenzione. Al contrario, la parte che decide di stare da sola nel giudizio tributario e nelle cause di lavoro è stato preso svariate volte in considerazione dalla Suprema Corte anche negli anni più recenti.
Il punto di partenza in materia è sempre costituito dal dato codicistico, l’art. 82 del codice di rito, con le modifiche più recentemente apportate che però, come noto, concernono solo la definizione dell’entità economica delle controversie.
Il primo comma appare definitivo nella sua lapidarietà, stabilendo la possibilità per la parte di stare in giudizio da sola davanti al giudice di pace solo se il valore della causa è pari o inferiore a € 1.100.
Si tenga presente, detto in via incidentale ma non trascurabile, che stare in giudizio da sola o delegare altro soggetto, ovviamente non abilitato alla difesa tecnica e a vedersi conferita procura alla lite, risultano del tutto equivalenti per comune convinzione della giurisprudenza e della dottrina. È contenuto in modo inespresso ma chiaro nella norma del Codice ed è stato abbastanza di recente ancora ribadito dalla Suprema Corte (Cass. Sez. I Civ. sent. 6 aprile 2006 n. 8026).
Il secondo comma assume come punto di partenza non la lettera del comma precedente bensì quella che individua come la sua ratio, ossia evitare che l’impegno, in linea primaria ma non esclusiva quello economico, cui la parte deve fare fronte per stare in giudizio ecceda se non appunto l’entità precisa della somma in gioco, per lo meno il valore che la controversia riveste agli occhi della parte stessa, in un calcolo che è allo stesso tempo materiale e esistenziale.
La norma infatti fa riferimento all’entità della causa, intesa appunto nel riferimento immediato a un parametro di natura squisitamente economica, ma soprattutto alla natura della controversia.
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L’autorizzazione giudice: anche inespressa
L’automatismo posto in essere dal primo comma cede subito di fronte alla valutazione del giudice, cui il secondo comma lascia piena e totale libertà.
Non è chiaro se la dizione “anche”, nella lettera della norma, allude al fatto che l’istanza della parte intenzionata a stare da sola nel giudizio può essere formulata al giudice a voce in udienza senza dovere necessariamente depositare in atti istanza scritta e formale; oppure se vuole precisare con maggiore dettaglio la libertà concessa in materia al giudice, che potrebbe quindi autorizzare sua sponte la parte a stare in giudizio da sola pure nel caso in cui questa non abbia in alcun modo o forma fatto istanza in proposito.
Di sicuro viene escluso ogni rigore formale, in particolare quello dello scritto, in relazione a detta autorizzazione e non solo riguardo alla attività in proposito della parte direttamente interessata ma anche e soprattutto per quanto concerne il provvedimento del giudice che la concede; provvedimento che a sua volta può quindi non venire assunto in modo espresso e formale ma essere solo implicitamente contenuto negli atti di causa.
L’autorizzazione da parte del giudice non solo può emergere dai verbali di causa in cui pertanto risulterebbe solo implicitamente contenuta; ma può essere concessa per facta concludentia, a mente di un arresto della Suprema Corte (Sez. VI Civ., sent. 12 marzo 2012 n. 3874) che afferma che anche così risulta garantita la regolarità del contraddittorio e la difesa effettiva della parte che sta in giudizio da sola.
La Sez. VI ha voluto così certo riprendere e generalizzare la portata di una decisione precedentemente assunta dalla Sez. III, dove il fatto che il giudice di pace avesse provveduto in merito a una istanza sollevata personalmente dalla parte senza l’ausilio del difensore era stato interpretato quale autorizzazione alla parte stessa a stare da sola in giudizio.
Da tempo la Cassazione aveva fissato la regola per cui provvedimento con il quale il giudice di pace autorizza la parte a stare in giudizio personalmente a norma dell’art. 82 c. 2 c.p.c., non esige il rigore formale di una redazione per iscritto, potendo risultare implicitamente dai verbali di causa e desumersi, in particolare, dalla circostanza che il giudice provveda su di una determinata istanza senza rilevarne l’avvenuta proposizione ad opera della parte personalmente. Addirittura non una qualche forma di manifestazione della risoluzione del giudice, ancorché implicita, ma semplicemente il silenzio in merito al fatto che determinate iniziative nel corso del procedimento con i relativi atti venissero assunte direttamente dalla parte senza l’intervento e senza l’ausilio di un difensore (Sez. III sent. 30 giugno 1998 n. 6410).
Stare da soli in giudizio come realizzazione del diritto alla difesa
La Cassazione ritiene chiaramente di avere espresso il valore affermato dal Codice, individuato nel potere della parte di agire personalmente, colto e proclamato quale declinazione di un principio costituzionalmente garantito e fondativo per tutto il diritto processuale, ossia l’effettività del diritto alla difesa (Cass. Sez. I Civ., sent. 26 agosto 2004 n. 17008).
Il corto circuito storico contenuto in questa massima è fin troppo evidente, non potendosi configurare che una norma del Codice di Procedura Civile promulgato nel 1942 si presenti quale declinazione di un valore garantito dalla Costituzione repubblicana del 1948.
La libertà dell’atto ermeneutico in quanto realisticamente creatore di diritto dà vita però a uno schema del tutto coerente e sensato, che giunge a esaltare la libertà di stare da soli davanti al giudice (ancorché di pace) facendone quasi la forma ideale e tipica di difesa, rispetto alla quale pertanto la difesa tecnica residuerebbe quale soluzione obbligata solo nei casi in cui appunto si manifesti necessaria una competenza giuridica e procedurale di cui presumibilmente la parte risulta sprovvista.
Appare comprensibile e coerente che l’esigenza di difesa tecnica e di assistenza di un legale possa essere considerata non necessaria, anzi dispensabile, nel contesto del giudizio di pace; tenendo conto non solo del carattere bagatellare che spesso caratterizza tali procedimenti (per quanto attiene strettamente al valore economico della causa ma ancora più al coinvolgimento esistenziale che questa comporta) ma anche o soprattutto della tipicità del procedere e del sentenziare che li caratterizza.
Come statuisce l’art. 113 c.p.c., la decisione per lo meno in merito alle cause dal valore fino a €2.500 (una soglia cioè più che doppia rispetto a quella definita dall’art. 82 c. 1 per la possibilità che la parte stia da sola in giudizio), quelle che riguardano diritti disponibili o in tutti i casi in cui le parti ne facciano richiesta va assunta dal Giudice di Pace in base a criteri di equità, ossia non facendo riferimento preciso e cogente al disposto normativo ma chinandosi a considerare la situazione di fatto, storica e giuridica, nei suoi aspetti e con lo scopo di giungere a una decisione che, tenendo conto degli elementi che al giudicante siano parsi più rilevanti, risulti comunque atta a mediare tra gli opposti interessi e le diverse aspettative delle parti in causa.
La giurisprudenza di legittimità, in prospettiva di creazione del diritto, porta così alla luce nella sentenza sopra citata una incoerenza già evidente dell’ordinamento processuale civilistico, che fissa (art. 82 c. 1 C.P.C.) una soglia di valore della causa oltre la quale scatterebbe l’obbligo di difesa tecnica, mentre ne fissa una diversa e superiore oltre la quale il giudizio assume carattere di tecnicità.
Si apre così lo spazio per affermare, in funzione declarativa delle norme codicistiche, che la parte può avere il diritto o la facoltà di stare da sola in giudizio ben al di là della previsione, in effetti alquanto limitativa, dell’art, 82 c. 1 c.p.c., riguardo appunto alla sostanza del giudizio ossia al suo oggetto.
La Suprema Corte ha dilatato questa possibilità, sempre in riferimento stretto ancorché ermeneuticamente libero alla norma del Codice, anche in funzione degli aspetti formali.
Appare ovvio, e quindi non meritevole di venire enunciato espressamente o dimostrato, considerare che se una parte sta in giudizio da sola senza essere stata autorizzata a farlo, vuoi in virtù di un espresso provvedimento formale vuoi in forza di una risoluzione in proposito del giudice implicitamente contenuta nei verbali; allora il rapporto processuale risulta invalidamente costituito.
Meno evidente ma altrettanto pacifico considerare che, nella sistematica offerta dal codice e sviluppata in dottrina e giurisprudenza, tale invalidità è solo relativa e pertanto può essere sanata in qualsiasi momento, nunc ex tunc. Così coerentemente afferma ancora la decisione sopra citata.
La considerazione del valore costituzionale che afferma il diritto alla difesa induce a sua volta a affermare il carattere relativo di tale nullità; l’esercizio concreto e efficace del diritto alla difesa prevale a tale punto che, anche qualora non sussista assolutamente alcun presupposto perché la parte stia in giudizio da sola, eppure così si verifica effettualmente nel corso del giudizio, la nullità che comunque e quale conseguenza necessaria ne deriva è solo una nullità di tipo relativo.
Può essere il caso, seguendo le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, di richiamare alcune più significative conseguenze del carattere relativo di questa nullità: non può venire rilevata d’ufficio ma deve essere rilevata per iniziativa della controparte e tale iniziativa va assunta nel giudizio stesso e comunque non in sede di giudizio di legittimità (Cass. Sez. III Civ., sent. 8 gennaio 1999 n. 112).
Ancora più incisivo appare il principio affermata dalla Cassazione per cui l’autorizzazione comunque formulata alla parte a stare in giudizio da sola appare irrevocabile, una volta concessa e soprattutto se ciò è avvenuto con provvedimento del giudice di pace; qualora il giudice si trovasse, per le vicende della causa, a mutare di avviso non ha altro rimedio che dichiarare la nullità dell’autorizzazione nella sentenza (Cass. Sez. VI Civ., sent. 12 marzo 2012 n. 3874).
La motivazione non è in positivo ma in negativo: la valutazione del giudice dovendo appuntarsi in primo luogo se non in esclusiva sulla considerazione se vi sia alcunché di oggettivamente ostativo a che il soggetto possa agire nel giudizio senza il patrocinio di un difensore.
Una apertura non realizzata
La giurisprudenza di cassazione nella sua funzione non di decisione su questioni di legittimità ma di creatrice di diritto ha però inteso andare ben oltre nel delineare l’ambito per una difesa non tecnica e per uno stare in giudizio direttamente da parte del soggetto coinvolto nella sua dimensione esistenziale prima ancora che giuridica.
Una decisione del 2001 assunta significativamente a sezioni unite (Cass. SS. UU. sent. 18 luglio 2001 n. 9767) ha ripreso alcuni punti fissati da pronunce precedenti.
In primo luogo ha ribadito in modo definitivo la regola per cui la nullità, eventualmente motivata dal fatto che una parte sta in giudizio personalmente senza che se ne diano i presupposti, non può essere rilevata d’ufficio ma solo per iniziativa dell’altra parte e nel corso del procedimento stesso (Cass. 8 gennaio 1999 n. 112).
In secondo luogo, e sempre con l’intento di fissare una regola, afferma che l’autorizzazione a una parte onde possa stare in giudizio da sola non solo può venire fornita dal giudice anche con il semplice assenso a uno stato di fatto che si dia nel corso del procedimento ma, una volta concessa, non può venire revocata e sana ogni nullità eventuale (Cass. 30 giugno 1998 n. 6410 e 20 gennaio 1994 n. 512).
In tale modo le Sezioni Unite hanno inteso fissare autorevolmente un principio generale tacitando ogni considerazione contraria, di insieme o di dettaglio.
Affermano l’auto difesa come opzione esercitata dalla parte che realizza, tramite la libertà personale e l’auto determinazione, il diritto costituzionalmente garantito a difendere e tutelare in giudizio i propri interessi; come un fatto procedimentale che il giudice non deve propriamente autorizzare ma che può limitarsi a accogliere e a non stigmatizzare negativamente. Questo ben al di là del dettato della norma codicistica, ma in virtù di quella operazione ermeneutica che ne fa la concretizzazione di un valore costituzionale.
La Suprema Corte, sempre creando con le proprie determinazioni un diritto nuovo capace di andare oltre la lettera della norma ma esaltando le potenzialità del disposto, si era del resto già spinta a suo tempo fino a caratterizzare l’auto difesa in giudizio quale forma prima e originaria di esercizio del diritto alla difesa.
Una pronuncia ormai molto risalente della Corte di Cassazione (Sez. I civ., sent. 19 gennaio 1982 n. 352) prende lo spunto fornito dall’art. 82 c. 3 C.P.C., o meglio non tanto dalla norma in sé considerata quanto dalla relativa disposizione, per trarne lo spirito, ben al di là della lettera.
Il presupposto fattuale e sociale della ratio legis andrebbe individuato nell’orientamento a commisurare l’onere costituito dal farsi rappresentare e difendere in giudizio da un professionista con la condizione soggettiva della parte riguardo alla questione legale, in termini sia di possibilità di spesa sia di coinvolgimento esistenziale.
Tale presupposto viene confrontato con la sensibilità sociale della Corte, in particolare con la considerazione per cui in molti casi chi si trova a essere parte in un giudizio, non necessariamente per scelta anzi spesse volte proprio malgrado, è necessitato a avvalersi del patrocinio di un legale che funga da rappresentante e da difensore anche semplicemente al fine compiere determinati e necessari atti processuali, il che per soprammercato va fatto entro i termini perentori e spesso brevi fissati dall’ordinamento, lasciando così ben poco spazio a una decisione ponderata.
La sensibilità sociale che segna questo arresto di grande momento emerge nella constatazione per cui l’esigenza di rappresentanza e difesa tecnica costituì un costo, materiale e esistenziale, non irrisorio e che spesso può rappresentare una spesa consistente rispetto alle disponibilità concrete delle singole persone. Vengono posti pertanto di fronte a una alternativa tra due ipotesi entrambe negative: fare fronte in qualsiasi modo a una spesa sproporzionata rispetto alle loro attuali disponibilità e/o non motivata dal rilievo che la causa riveste per la loro soggettività; oppure rinunciare a tutelare se stessi e quelli che ritengono essere i loro diritti.
La Suprema Corte si basa su questi presupposti logici e fattuali, li considera con questa sensibilità sociale e in vista dell’esigenza di affermare quale valore sociale il diritto effettivo alla difesa. Propone quindi una interpretazione radicalmente estensiva della norma.
Anche nei procedimenti di primo e di secondo grado dovrebbe potere essere concesso, e questo sempre a mente dell’art. 82 c. 3 c.p.c., alla parte di stare da sola in giudizio per lo meno in alcune fasi e nei casi appunto in cui avvalersi del patrocinio di un legale finirebbe per costituire un danno uguale o superiore al vantaggio che il soggetto potrebbe conseguire se ottenesse ragione quale esito del giudizio; con l’esito dì scoraggiare la parte dal tutelare i propri diritti e partecipare alla ricerca della verità.
Nel contesto delle ultime riforme del processo civile
Inutile sottolineare che queste aperture, più o meno risalenti, della Cassazione nell’impegno a rendere vivo, concreto e attuale il disposto del Codice, sono rimaste nei massimari senza mai avere attecchito nelle aule di giustizia.
Gli anni che stiamo attraversando sono stati, e sono ancora, anni di riforme e di loro spesso faticose e non chiare attuazioni concrete. Riforme comunque ispirate a un principio orientativo, rendere attuali e concreti i valori espressi dalla Costituzione riguardo al processo civile.
Appare banale ma proprio per questo può risultare vero osservare che in molti casi le riforme cercano di creare qualcosa che in realtà è già presente ma trascurato.
Ripartire da questi punti fissati dalla giurisprudenza di cassazione e svilupparne le conseguenze potrebbe riformare il giudizio civile andando verso quella immediatezza che era stata auspicata tanto tempo fa da un maestro spesso inascoltato proprio sulle istanze più concrete che aveva da proporre, Giuseppe Chiovenda; e potrebbe contribuire a riformare davvero il processo civile.









