Trust inter vivos e trust successorio: sua ammissibilità?

Premessa: il fenomeno della “pianificazione successoria”

Con l’espressione “pianificazione successoria” o “ereditaria” si intende la regolamentazione di natura contrattuale, o comunque alternativa alla scelta testamentaria, compiuta dal futuro de cuius durante la propria vita dell’assetto dei rapporti patrimoniali a lui intestati per il tempo in cui avrà cessato di vivere[1].

La diffusione di tale fenomeno negoziale, assolutamente nota in dottrina, è conseguenza della conclamata inadeguatezza del sistema successorio[2],  a garantire un efficiente sistema di trasmissione generazionale della ricchezza. Nonché, sotto altro punto di vista, rappresenta una reazione ai preoccupanti effetti che la richiamata inefficienza funzionale fa registrare non solo a livello privatistico, nella insoddisfazione dei futuri de cuius e dei chiamati/chiamabili a trovare un adeguato assetto dei propri interessi, ma anche a livello macroeconomico, in termini di altissima dispersione della ricchezza-paese nel passaggio generazionale dei patrimoni familiari, specie aziendali[3].  

Il Trust: Un volume di Maggioli Editore che analizza le caratteristiche giuridiche e pratiche di questo strumento. Ideale per professionisti legali che desiderano approfondire la normativa e le applicazioni nel contesto italiano ed europeo.

 

L’istituto del trust: natura e funzione

Preliminarmente, deve analizzarsi la natura del trust, considerata da molti atipica, non essendo tale figura inserita nella normativa codicistica in vigore. Tale considerazione, ci induce alla conoscenza del concetto di atipicità in contrapposizione a quello di tipicità. Consideriamo, intanto, che il termine “tipicità” può essere riferito a qualsiasi fenomeno, oggetto o quant’altro appartenente a una categoria nella quale sono inserite anche altre figure del genere aventi dei tratti o elementi in comune e distintivi. In sostanza, le figure contrattuali inserite nel codice civile sono tipiche e tale loro qualità è fornita dallo stesso legislatore[4]. Tuttavia, il secondo comma dell’art. 1322 c.c., ammette l’autonomia privata a concludere negozi che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, dunque nominativi, e dunque che sono negozi atipici, con l’unico limite, che siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Prima facie il trust, in assenza di espressa codificazione è da ritenersi un istituto atipico, che per taluni aspetti, si avvicina allo schema del negozio fiduciario, e per altri se ne differenzia sensibilmente. Infatti, se nel negozio fiduciario il bene trasferito entra a far parte a pieno titolo del patrimonio del fiduciario, nel trust si ha un fenomeno di soggezione e destinazione patrimoniale, in quanto i beni oggetto del trust, pur entrando nel patrimonio del trustee, non si confondono con gli altri beni del medesimo patrimonio, ma costituiscono una massa patrimoniale separata ed autonoma. In ragione di ciò, i beni oggetto del trust sono sottratti all’aggressione dei creditori del trustee e del settlor, potendo, al più, essere aggrediti da coloro che diventano creditori del trust.

L’istituto del trust è disciplinato dalla Convenzione dell’Aja del 1985, recepita nel nostro ordinamento con la L. n. 364/1989. In ragione di ciò, l’opinione prevalente in dottrina ritiene che, sia pienamente ammissibile nel nostro sistema giuridico il c.d. trust interno, ossia, il trust posto in essere da cittadini italiani relativamente a beni siti in Italia, che secondo il diritto internazionale privato, presenti quale unico elemento di c.d. estraneità, la legge allo stesso applicabile, in questo caso la legge nazionale dello Stato in cui vengono a trovarsi i beni oggetto del trust.

Analizzando tale istituto è possibile individuare due parti, il c.d. settlor ed il c.d. trustee. Il primo, può trasferire uno o più beni al secondo, il trustee, appunto, quale soggetto fiduciario, che si obbliga a gestire questi beni nell’interesse esclusivo di un terzo soggetto detto beneficiary, oppure, per il conseguimento di uno scopo ulteriore e determinato. Tuttavia, può accadere che a queste parti, se ne aggiunga una quarta, c.d. protector su cui grava l’unico obbligo di controllare, senza alcun potere di gestione, che il trustee compia una corretta gestione dei beni che il settlor gli ha trasferito, e tale potere di controllo è esercitato nel prevalente o, meglio, unico, interesse del beneficiary.

L’istituto del trust si scontra, sia sul piano dogmatico, che sul piano applicativo, rispetto ai suoi rapporti con l’istituto del divieto dei patti successori e la eventuale ammissibilità, del c.d. trust successorio o testamentario.

La stessa Convenzione de L’Aja sul riconoscimento dei Trust, precisamente all’art. 15 lett. e), ad ammonire l’interprete che un trust non può violare le norme imperative previste dall’ordinamento giuridico dettate in materia di testamenti, devoluzione mortis causa dei beni ed istituto della legittima, la conclusione testé raggiunta in ordine alla necessità di verificare scrupolosamente la possibilità di “sopravvivenza” del trust nel diritto successorio interno, risulta maggiormente avvalorata[5]. Peraltro, atteso il carattere meramente esemplificativo dell’elencazione contenuta nel predetto art. 15 nonché la stretta affinità tra le disposizioni dettate in materia di successioni[6],  e quelle previste in tema di donazioni ed, infine, tenuto presente che si è assunto a paradigma d’indagine il trust costituito inter vivos con effetti post mortem, non v’è dubbio che un ulteriore limite sia segnato dalle norme imperative vigenti in materia di donazioni.

In aderenza a queste doverose premesse, l’analisi di un trust a mezzo del quale il disponente regoli il passaggio generazionale dei propri beni attribuendoli durante la propria vita ad un trustee e prevedendo che questi, dopo la morte del disponente, li trasferisca a sua volta ai beneficiari, richiede di confrontarsi attentamente con il divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c., con le norme poste in tema di istituzione fedecommissaria ed, infine, con l’istituto della successione necessaria, segnatamente nella parte dei rimedi posti a tutela dei successori riservatari.

Il Trust

Il Trust

L’Italia è l’ordinamento di Civil Law in cui l’istituto del Trust si è più radicato rispetto a tutti gli altri ordinamenti similari. Il volume, giunto con successo alla sua II edizione, intende fornire, con il consueto approccio operativo, delle nozioni di base a chi voglia approcciarsi alla materia, senza tralasciare alcuni spunti innovativi come la gestione della compliance da parte degli operatori del sistema dei trust.

L’opera è suddivisa in due parti: una prima parte che tratta delle nozioni dell’istituto e una seconda parte che si occupa della conformità operativa, richiesta dalle normative di riferimento (in primis normativa 231, antiriciclaggio, trattamento dei dati personali).

Un focus particolare è dedicato ai principali aspetti fiscali connessi ai diversi momenti di vita dell’istituto alla luce della recente Circolare dell’Agenzia delle Entrate (Circ. n. 34/E del 20 ottobre 2022). Completano la consultazione la proposizione di modelli standard autogenerati, le più recenti massime giurisprudenziali, i protocolli di compliance più utili a cui l’operatore deve conformarsi nella istituzione e gestione di un Trust.

Nicola Tilli,
Avvocato in Milano dal 1996, Cassazionista, Founding Partner del network di studi legali internazionalistici Novastudia Professional Alliance. Autore di varie pubblicazioni per primarie case editrici giuridico-professionali. Ha collaborato negli ultimi venticinque anni con l’Istituto di diritto civile (cattedra di diritto comparato) Università Statale di Milano, Libera Università di Castellanza (LUIC), Università Bocconi di Milano, Università del Piemonte Orientale e con incarichi di docenza o lecturer presso Università degli Studi “Carlo Bo” di Urbino, LUISS di Roma, Università di Parma. Trainer di Business School Il Sole 24 Ore, IKN, AIIA (Ass. Internal Auditors). È consulente e DPO per primarie imprese.

Stefano Mingardi,
Dottore in giurisprudenza, dal 2011 è full-member di STEP (Society of Trustee and Estate Pratictioners) e dal 2014 dirige la Divisione Trusts – Pianificazione Patrimoniale e Attività Fiduciarie dello Studio Legale Associato Martinez & Novebaci di Milano.
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Nicola Tilli, Stefano Mingardi, 2023, Maggioli Editore
38.00 € 30.40 €

Trust successorio e divieto dei patti successori

Il Libro II del Codice Civile, al Titolo II, Capo I, disciplina il fenomeno dell’apertura della successione, della delazione e dell’acquisto dell’eredità mortis causa. La successione mortis causa indica il momento in cui un rapporto giuridico, che permane inalterato nei suoi elementi oggettivi, si trasmette da un soggetto ad un altro. Infatti, la successione comporta il subingresso di un soggetto in tutti i rapporti giuridici, sia attivi che passivi, di cui era titolare il de cuius. Dunque, la successione mortis causa rinviene il proprio presupposto essenziale, nella morte di un soggetto, nei cui rapporti è possibile subentrare. L’ordinamento giuridico individua il momento di apertura dell’eredità, proprio nella morte del de cuius, ed infatti, la successione mortis causa può configurarsi o ex lege c.d. successione legittima, oppure per testamento c.d. successione testamentaria. L’art. 457 c.c., disciplinando la fase della delazione dell’eredità in favore del c.d. vocato o chiamato alla stessa, mostra, in realtà, una preferenza dell’ordinamento giuridico alla tipologia della successione testamentaria, in quanto, la successione legittima opera sol quando manchi una successione testamentaria. La ratio sottesa a questa scelta del legislatore è da rinvenirsi nella tutela della libertà testamentaria del de cuius, a cui è attribuita la possibilità di determinare, attraverso il testamento, quale sarà la sorte del proprio patrimonio per il tempo in cui ha cessato di vivere. Parte della dottrina ha ritenuto che il principio della libertà testamentaria, rinviene il proprio fondamento, ed anzi, ne costituisce una particolare estrinsecazione, nell’autonomia negoziale riconosciuta ai privati ex art. 1322 c.c., e che a sua volta viene ad avere una copertura costituzionale dall’art. 42, ultimo comma Cost., secondo cui la trasmissione mortis causa di rapporti giuridici positivi o negativi, può essere regolata anche dalla volontà del testatore, sia pure nei limiti previsti dalla legge. Ed infatti, la libertà testamentaria, riviene un primo limite nella tutela di quei diritti che la legge riserva a particolari categorie di successibili, rappresentata dagli eredi c.d. legittimari, a cui è garantita ex lege una quota del patrimonio dell’ereditario. Ciò è l’estrinsecazione ed il consolidamento di quel principio della solidarietà familiare che limita l’autonomia privata.

Pur tuttavia, il legislatore riconosce il principio della libertà testamentaria, con cui il potenziale de cuius manifesta in un atto personalissimo ed unilaterale, le proprie volontà che devono essere certe e determinate, ha ritenuto necessario porre un argine a quelle convenzioni con cui un soggetto dispone del proprio patrimonio, nel momento successivo alla sua morte. Infatti, la centralità della libertà testamentaria implica di assicurare la spontaneità dell’atto di disposizione mortis causa, in modo che il testatore sia nelle condizioni di esprimere le proprie volontà, libero da qualsivoglia condizionamento, sia concomitante che antecedente la redazione dell’atto testamentario. A ciò si aggiunge, che il principio della libertà testamentaria, si esplica anche attraverso l’istituto della revoca del testamento ex art. 587 c.c., che può avvenire in ogni momento, fino all’ultimo istante di vita del testatore, concretizzandosi, di fatto, nella libertà di poter modificare il proprio atto testamentario.

La dottrina autorevole ha ritenuto che da ciò deriva una importante differenza rispetto alla successione ex lege o legittima. Infatti, la successione legittima necessita dell’accettazione, quale momento in cui si esplica la dichiarazione di volontà unilaterale e non recettizia, del c.d. chiamato all’acquisto dell’eredità, e tale fase ai sensi dell’art. 475 c.c., non può essere subordinata a condizione o termine, né essere parziale, tanto più che la stessa è irrevocabile, in omaggio al brocardo semel heres semper heres.

Il patto di famiglia derogatorio del divieto di cui all’art. 458 c.c.

La volontà testamentaria, dunque il testamento, può contenere elementi accidentali quali: la condizione, il termine, l’onere ed è sempre revocabile in modo espresso, tacito, o di diritto per la sopravvenienza di figli.

Parte della dottrina ha ritenuto che dalla revocabilità del testamento ex art. 587 c.c., discenda il divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c. Infatti, il legislatore sanziona con la nullità quelle convenzioni concluse da un soggetto, con cui costui voglia disporre della propria successione, così come è nullo ogni patto con cui un soggetto disponga di diritti che gli potrebbero spettare su di una successione non ancora aperta, oppure rinunziare anticipatamente ad essi. L’esclusa validità di tali patti, come afferma la littera legis dell’art. 458 c.c., ha condotto la dottrina ad individuare tre categorie di patti successori. In primo luogo, è esclusa la validità dei patti successori costitutivi o istitutivi con cui un soggetto disponga o si vincoli a disporre dei propri beni, in vista della morte, a favore dell’uno o dell’altro successibile, ovvero conviene con un altro soggetto di nominare costui erede. In secondo luogo, è esclusa la validità dei patti dispositivi, con cui un soggetto disponga o si obbliga a disporre, con un successivo negozio, di diritti che eventualmente gli possono spettare su di una futura successione. Infine, è esclusa la validità di patti abdicativi o rinunziativi con cui un soggetto rinunzi o si obbliga a rinunziare, con un successivo atto, a delle successioni non ancora aperte, dunque non ancora venute ad esistenza, mancandone il presupposto essenziale ossia la morte del de cuius.

La ratio di questo divieto imposto dal legislatore, secondo autorevole dottrina è da farsi risalire all’avversione che l’ordinamento nutre per quei patti che hanno ad oggetto successioni di una persona che nel momento in cui sono conclusi, è ancora vivente. Quindi, per evitare da un lato, l’immoralità nel creare una aspettativa, nascente dal patto successorio vietato, della morte altrui, e dall’altro, di tutelare la piena libertà di disporre che la legge riconosce e garantisce ad ogni persona fisica fino al momento della sua morte. Dalla dottrina e dalla giurisprudenza sono stati ritenuti nulli anche i c.d. patti successori indiretti, ossia quelli costituenti indirette attribuzioni a causa di morte, (si pensi ad esempio all’ipotesi di una donazione mortis causa, in cui la morte del donante è configurata quale condizione sospensiva dell’attribuzione, e tale donazione, non comporta un  trasferimento immediato a favore del donatario, ma dispone dei beni del donante per il periodo successivo alla sua morte, senza possibilità di revoca, trattandosi di fatto, di un contratto). Inoltre, come ha rilevato la dottrina, i patti successori si pongono in contrasto con il principio di ordine pubblico della libertà di testare e di disporre dei propri beni fino al momento della morte, e sono insuscettibili di conversione ex art. 1424 c.c., ossia un testamento, mediante il quale si realizzerebbe proprio lo scopo vietato dall’ordinamento, di vincolare la volontà del testatore al rispetto di impegni, concernenti la propria successione assunti con terzi. Tuttavia, l’art. 458 c.c., nell’enunciare il divieto di patti successori, fa salvo quanto disposto dagli artt. 768-bis e ss. c.c., che disciplinano il patto di famiglia, introdotto con la L. n. 55/2006.

Infatti, il patto di famiglia costituisce un’eccezione, e dunque, deroga al divieto di cui all’art. 458 c.c. La dottrina prevalente ha rilevato che la ratio sottesa all’ammissibilità del patto di famiglia risiederebbe nella sua connotata finalità, ossia quella di consentire ad un soggetto, dotato di una specifica qualifica, quella di imprenditoriale, ancora in vita, di effettuare una successione nella sua attività economica a favore dei propri discendenti, di fatto, evitando che l’impresa, al momento della sua morte, entri a far parte della comunione ereditaria. Ed infatti, il legislatore all’art. 768-bids c.c., definisce il patto di famiglia come un contratto (dunque, atto inter vivos), con cui viene trasferita l’azienda da parte dell’imprenditore.

Il trust successorio: atto mortis causa o atto post mortem?

Nell’atto a causa di morte sarebbero riscontrabili i seguenti elementi oggettivi e soggettivi: a) l’assenza di alcun effetto, neppure prodromico o preliminare, prodotto dall’atto prima della morte del disponente; b) la penetrazione della morte del disponente nella causa dell’atto, che in tal modo ricopre la funzione di regolare rapporti e situazioni giuridiche che si formano in via originaria con il decesso del disponente; c) la necessaria sopravvivenza del beneficiario al disponente (cosiddetta “condizione di sopravvivenza”); d) l’avere ad oggetto l’atto beni che si individuano nella loro esistenza e consistenza qualitativa e quantitativa al momento dell’apertura della successione (“quod superest”, indice della residualità della attribuzione); e) la non trasmissibilità della posizione di cui il beneficiario è divenuto titolare[7].

Al contrario, non si ha atto mortis causa, ma atto post mortem, quando la morte non penetra nella giustificazione causale dell’attribuzione, ma costituisce soltanto termine o condizione, e dunque modalità della stessa: in tal caso, l’atto è finalizzato a comporre interessi funzionalmente diversi da quelli successori, per quanto la trama effettuale si proietti, in tutto o in parte, ad un tempo successivo alla morte[8]. A fronte di tale posizione, la scomposizione dei diversi segmenti della vicenda trust, finalizzata alla verifica se, nella complessa trama di effetti ad essa riconducibili, possano leggersi i tratti del negozio a causa di morte, conduce ad escludere che detto negozio realizzi una devoluzione mortis causa di sostanze del disponente[9]. Dunque, l’effetto della perdita da parte del disponente del potere di

godere e di disporre dei beni conferiti in trust per tutta la durata dello stesso, si produce in via immediata, a seguito del negozio istitutivo, e non al momento della morte del settlor[10].

La giurisprudenza, infatti, che ha analizzato l’istituto dei patti successori ex art 458 c.c., in rapporto con l’istituto c.d. trust successorio o testamentario, ritiene che, l’istituto del trust deve confrontarsi con la possibilità e/o ammissibilità del trust successorio, ossia con la possibilità di istituire un trust al solo fine di trasmette un patrimonio ereditario ai soggetti beneficiari a partire dal momento della morte del soggetto disponente detto settlor, ed in seguito della sua morte detto de cuis. Parte della giurisprudenza ha escluso l’ammissibilità di istituire un trust successorio, in quanto, attraverso esso verrebbe a configurarsi un patto successorio costitiutivo o istitutivo con cui il settlor dispone dei propri beni, in vita, ( ponendo, dunque, un atto inter vivos), in vista della futura morte, a favore dell’uno o dell’altro dei successibili, e tale trust successorio troverebbe la propria causa negoziale nella morte del settlor, e pertanto ne dovrebbe essere esclusa la validità sanzionandolo con la nullità, ponendolo sul medesimo piano del divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c.

Pertanto, si è rilevato che il trust successorio, istituito dal settlor ancora in vita (ponendosi come atto inter vivos), è finalizzato a trasmettere il proprio patrimonio agli eredi, e rinviene la sua causa negoziale non nella morte del settlor-de cuis, ma in una manifestazione espressa di volontà, posta in essere quando il settlor è ancora vivente e dunque, attraverso un atto inter vivos, e non attraverso un atto mortis causa.

Quid iuris: quale causa negoziale sottesa al trust successorio?. È una liberalità indiretta?

 La giurisprudenza ha evidenziato che nell’ipotesi in cui venga istituito un trust successorio, l’evento morte, quale evento futuro, rappresenterebbe non la causa negoziale sottesa al trasferimento del patrimonio del settlor agli eredi beneficiari, bensì, l’evento morte si configurerebbe come un mero momento in cui effettivamente avviene il trasferimento dei beni, dunque, atterrebbe ad un momento esecutivo del trasferimento e non ad una fase costitutiva e perfezionativa dello stesso. In ragione di ciò, e di questa interpretazione giurisprudenziale, il trust successorio è un atto “inter vivos“, con effetti “post mortem“,  qualificabile come donazione indiretta, che  rientra tra le liberalità non donative (art.809 c.c.). Sul punto tale giurisprudenza ha chiarito che: “il trust successorio non comporta una “devoluzione mortis causa di sostanze del disponente. Il gestore (trustee) ha il compito fiduciario di gestire i beni ricevuti e di devolverli ai beneficiari. Costoro acquistano il patrimonio del trust “direttamente dal trustee, e non già per successione mortis causa dal de cuius[11]. Il decesso del disponente non costituisce la causa della trasmissione patrimoniale ai beneficiari, bensì è il momento nel quale detta trasmissione avviene, mentre la causa della trasmissione è proprio l’istituzione del trust.

In conclusione, se nel trust successorio la morte del settlor, quale disponente del patrimonio, attiene ad un momento di mera attribuzione finale di quanto trasferito con esso, e se l’evento morte, non rappresenta la causa negoziale dello stesso, allora come sostenuto dalla giurisprudenza, non si configurerebbe una violazione del divieto dei patti successori ex art. 458 c.c., ed anzi, il trust successorio o testamentario potrebbe apparire come una manifestazione di libera volontà del settlor, futuro de cuis, ed in quanto atto inter vivos, non vi sarebbero ragioni ostative per escludere l’ammissibilità di esso, non essendo lesivo della disposizione normativa di cui all’art. 458 c.c.

NOTE

[1] Tale espressione è adottata da PENE VIDARI F., Patti successori e contratti post mortem, in Riv. Dir. Civ., 2001, pp. 245 ss., passim.

[2] Per un puntuale studio sul “decrescente impatto sociale” delle successioni a causa di morte si veda PUGLIESE G., Il libro delle successioni, in AA.VV., I cinquant’anni del codice civile. Atti del convegno di Milano 4-6 giugno 1992, I, Milano, 1993, pp. 11 ss.. L’Autore, sotto una peculiare ma interessante prospettiva, osserva (pp. 155 s.) che uno dei più eloquenti segni esteriori dell’irreversibile declino del diritto delle successioni può cogliersi dal

raffronto dello spazio dedicato alla materia ereditaria e delle donazioni nelle diverse fonti succedutesi nel tempo: nel Digesto (edizione Mommsen-Kruger) la relativa disciplina era contemplata in undici libri su 50 (pari al 25%); nel Code Civil francese 392 articoli su 2281 (ossia il 17%); nel codice italiano del 1942 353 articoli su 2969 (cioè poco più dell’11%).

[3] Particolarmente sensibile a tale dettaglio è il dibattito intorno al tema del passaggio generazionale delle imprese a conduzione familiare. Già nel 2004 fu osservato da PICCOLO M., Patto di famiglia: le istruzioni per l’uso. Come cedere l’azienda ad un discendente, in D&G, diritto e giustizia, 7, 18 febbraio 2006, p. 115 come “meno di un terzo delle imprese familiari sopravvive alla seconda generazione e solo il 15% la supera … due imprese su tre scompaiano entro cinque anni dalla loro trasmissione, il che comporta una perdita di circa 300.000 posti di lavoro all’anno in Europa; e ben il 10% di tali fallimenti risulta dovuto all’inadeguatezza dei diversi operatori nel governare i processi di trasmissione (estratti dal rapporto di Studi e Analisi Economica – ISAE “Priorità Nazionali: dimensioni aziendali, competitività, regolamentazione – Aprile 2004”). Il problema è di particolare attualità in Italia poiché quasi la metà degli imprenditori italiani ha più di 55 anni e quindi si troverà ad affrontare il tanto temuto passaggio generazionale nei prossimi dieci anni (Dati Infocamere 2004)”.

[4] Così G. Bausilio, Trust inter vivos e successorio, 2024.

[5] Secondo PORCELLI G., Successioni e trust, op. cit., p. 156 nota 2, un problema di osservanza da parte di un trust successorio delle norme imperative del nostro diritto interno, si porrà solo nel caso in cui, ai sensi dell’articolo 46 legge 218/1995, risulti applicabile la legge italiana. In argomento, BARTOLI S., Trust, atto di destinazione e tutela dei legittimari, op. cit., pp. 241-241, precisa come nei confronti di un trust interno il disposto dell’art. 15 della Convezione sia, a ben guardare, superfluo: facendo in tal caso, per definizione, difetto di un conflitto fra leggi di ordinamenti diversi, l’esigenza che tale negozio rispetti le norme imperative in questione discende, trattandosi di negozio inter vivos, dalle generali previsioni di cui agli articoli 1418 e – nella misura in cui si veda il trust inter vivos sia un negozio unilaterale – 1324 c.c.

[6] V. LUPOI M., Istituzioni del diritto dei trust, op. cit., 2016, p. 250.

[7] Per tale elencazione, più recentemente cfr. PUTORTÌ V., Mandato post mortem e divieto dei patti successori, in Obbl. e Contr., 2012, 11, par. 5; nel medesimo senso ROMANO C.

[8] V. in giurisprudenza Cass., 16 febbraio 1995, n. 1683, in Notariato, 1995, pp. 552 ss.

[9] ROMANO C., Il Trust e l’atto di destinazione testamentario, op. cit., p. 210.

[10] Sul punto MONTINARO R., Successione a causa di morte, pactum fiduciae e trust, in La successione ereditaria, I, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da BONILINI G., Milano, 2009, p. 266.

[11] Cass. 18831/2019.

Praticante avvocato. Laureata in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi del Sannio con tesi in Diritto Internazionale dal titolo:”I Minori Stranieri Non Accompagnati: profili di Diritto Internazionale e di Diritto dell’Unione europea”.

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