Nel presente documento si esamina l’istituto della c.d. “interversione nel possesso” di cui all’art. 1164 c.c., il quale disciplina il caso in cui il possessore, che abbia esercitato il possesso in misura corrispondente all’esercizio di un diritto reale, resista ad un’eventuale azione giudiziale del terzo oppure del proprietario del bene, ed ottenga una sentenza la quale accerti la fondatezza del proprio diritto. Si evidenzia come l’ultima parte della norma, nella quale si prevede che il tempo occorrente per l’usucapione della proprietà da parte del possessore decorre dalla data in cui il titolo del suo possesso sia stato mutato (mutamento determinato dalla sentenza sopra citata), sia costituzionalmente illegittimo, ex art. 3 Costituzione, per contrasto con gli artt. 948, 1163 e 1167 comma 1 c.c., oltre che con il principio generale in base al quale l’inerzia dimostrata dal titolare di un diritto (qualsiasi esso sia) determina, a carico di quest’ultimo, l’impossibilità di continuare a farlo valere.
La questione
Ai sensi dell’art. 1164 c.c., “chi ha il possesso corrispondente all’esercizio di un diritto reale su cosa altrui non può usucapire la proprietà della cosa stessa, se il titolo del suo possesso non è mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il diritto del proprietario. Il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato”.
Il caso è quello in cui il possessore, il quale finora abbia esercitato il possesso in misura corrispondente all’esercizio di un diritto reale, e quindi non con l’ “animus rem sibi habendi”, dinanzi ad una pretesa da parte di un terzo, che rivendichi diritti sulla cosa, oppure del proprietario di quest’ultima, ottenga una sentenza la quale accerti la piena legittimità del proprio diritto.
La norma, mentre attribuisce a tale sentenza l’effetto di mutare il titolo del possesso (con la conseguente trasformazione da esercizio di un diritto reale ad esercizio di un diritto di proprietà), stabilisce tuttavia che, in ogni caso, il tempo necessario per l’acquisto per via di usucapione, da parte del possessore, della proprietà del bene, decorre dalla data in cui il mutamento è avvenuto, ossia dalla data della sentenza.
Il problema è vedere se il principio in base al quale il possesso, precedente alla sentenza e corrispondente all’esercizio di un diritto reale, non debba essere considerato ai fini dell’acquisto per usucapione, sia o meno legittimo.
L’analisi viene fatta prendendo il caso dell’usucapione di un bene mobile, disciplinata dall’art. 1161 c.c., che così dispone: “in mancanza di titolo idoneo, la proprietà dei beni mobili e gli altri diritti reali di godimento sui beni medesimi si acquistano in virtù del possesso continuato per dieci anni, qualora il possesso sia stato acquistato in buona fede”.
La causa proveniente da un terzo
Un terzo rivendica diritti su un bene mobile, ed il possessore (Tizio), anziché chiamare in giudizio il proprietario (Caio), difende tale possesso ottenendo dal Giudice una sentenza la quale accerta l’infondatezza della pretesa del terzo.
Tizio aveva accertato, tramite la Conservatoria dei Registri Immobiliari, che il bene era di proprietà di Caio, e che pertanto l’esercizio del suo diritto reale aveva effettivamente ad oggetto una cosa “altrui”. Caio, però, si era disinteressato del bene, lasciandolo abbandonato, e quindi Tizio aveva continuato ad esercitare tale diritto, diciamo per 8 anni.
Ebbene, alla scadenza dell’ottavo anno di possesso, un terzo aveva proposto azione giudiziale chiedendo l’accertamento di alcuni diritti sul bene, e Caio, pur essendo stato correttamente informato da Tizio in merito alle pretese avanzate dal terzo, si era reso irreperibile oppure aveva dichiarato (o manifestato) di non aver interesse ad instaurare con il terzo un’eventuale causa, e quindi di non aver interesse a tutelare il suo diritto di proprietà.
Quindi la mancata chiamata in causa di Caio da parte di Tizio era stata giustificata dal disinteresse mostrato dal primo.
Il Giudice, dopo 2 anni dall’introduzione della causa, dichiara infondate le pretese del terzo.
La norma, quando parla di “mutamento del titolo possesso per causa proveniente da un terzo”, attribuisce perciò stesso, alla sentenza la quale abbia accertato l’infondatezza delle pretese avanzate dal terzo stesso, il carattere di atto accertativo del diritto di proprietà del possessore (in tal caso, di Tizio): altrimenti non avrebbe senso la parola “mutamento”. Pertanto, la suddetta sentenza dovrebbe, a rigore, costituire Tizio quale “proprietario” del bene.
Tuttavia, la stessa norma prevede che il vero e proprio acquisto della proprietà da parte di Tizio per usucapione, ossia per l’inerzia di Caio, avverrà solo quando saranno trascorsi altri 10 anni (poiché Tizio ha posseduto in buona fede) da quando il titolo del possesso è stato mutato, ossia dalla suddetta sentenza di accertamento. Ma allora ciò implica che quest’ultima, lungi dal sancire un vero e proprio “mutamento” del titolo del possesso (ossia da titolare di un diritto reale a titolare del diritto di proprietà), abbia in realtà semplicemente fissato il termine a partire dal quale Tizio potrà legittimamente divenire proprietario (appunto per usucapione), nel senso che l’acquisto di tale qualità potrà perfezionarsi solo se, per altri 10 anni successivi alla sentenza, Caio si sarà rivelato nuovamente inerte nell’esercizio del suo diritto di proprietà. In sostanza, l’inerzia dimostrata da Caio nella tutela giudiziale del suo interesse di “proprietario” non conta ai fini dell’usucapione: il termine per la maturazione di quest’ultima decorre dalla data della sentenza che ha accertato l’infondatezza della pretesa del terzo.
Al riguardo, si osserva quanto segue.
Il principio in base al quale l’inerzia dimostrata nel tutelare gli interessi attinenti alla propria sfera giuridica è preclusiva della facoltà di continuare a perseguire i suddetti interessi, costituisce un principio generale dell’ordinamento: si pensi, nell’ambito delle obbligazioni, all’istituto della “mora credendi” (art. 1206 c.c.), la quale impedisce al creditore, che non abbia messo il debitore nella condizione di poter adempiere, di continuare a far valere determinati diritti.
Quindi, il ragionamento è il seguente: l’inerzia, se preclude definitivamente al titolare di un diritto (di credito) la possibilità di continuare ad esercitare tale diritto quando essa si è tradotta in un comportamento stragiudiziale, ossia extra processuale (vedi “mora credendi”), a maggior ragione dovrebbe comportare tale preclusione quando è consistita in una condotta processuale (mancanza di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.), come nel caso di cui all’art. 1164 c.c. .
Di conseguenza, quest’ultima norma dovrebbe essere modificata nel senso di prevedere che il lasso di tempo intercorso tra la manifestazione di volontà del terzo di esercitare diritti sulla cosa e la sentenza che abbia dichiarato infondata tale pretesa, dovrebbe sommarsi al lasso di tempo durante il quale il possessore (Tizio) aveva esercitato sulla cosa il potere corrispondente all’esercizio di un diritto reale, laddove quindi la somma di tali due periodi già dovrebbe essere sufficiente a decretare l’acquisto della proprietà da parte del possessore. Nel caso di specie, se Tizio ha esercitato tale possesso per 8 anni, e la sentenza che ha dichiarato infondate le pretese del terzo sul bene è arrivata dopo 2 anni, il termine di 10 anni per l’usucapione della proprietà da parte di Tizio dovrebbe considerarsi già compiuto, nel senso che i 2 anni si dovrebbero sommare agli 8 per i quali Tizio aveva già posseduto il bene in modo pacifico, continuo e pubblico, senza alcun interesse contrario da parte del proprietario Caio e pertanto con la sostanziale inerzia di quest’ultimo.
L’opposizione fatta dal possessore contro il proprietario
Se il possessore “si oppone” al proprietario, ciò vuol dire che quest’ultimo deve aver proposto un’azione contro di lui, al fine di recuperare il possesso e quindi di ricominciare ad esercitare sul bene un potere pieno ed esclusivo, qual è quello corrispondente al diritto di proprietà.
L’azione tipicamente esperibile a difesa della proprietà è quella di rivendicazione, la quale, ai sensi dell’art. 948 c.c., è imprescrittibile, “salvi gli effetti dell’usucapione”.
Dinanzi a tale azione, il possessore, facendo opposizione, eccepisce che è ormai decorso il tempo previsto per l’acquisto dell’usucapione in suo favore, e che quindi l’azione è prescritta.
Ora, se la fattispecie è questa, si debbono nutrire forti dubbi in merito alla legittimità dell’art. 1164 c.c. nella parte in cui questo prevede che “il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato”. Ciò in quanto la sentenza che accerta l’essere maturato il tempo previsto per l’usucapione, dovrebbe produrre, quale effetto automatico, quello del definitivo riconoscimento del diritto di proprietà in capo al possessore.
Se il titolo del possesso viene ad essere “mutato”, ciò vuol dire che il medesimo è divenuto “proprietà”, altrimenti non si capisce in cosa consista il “mutamento”. E’ solo in tal modo che si può giustificare l’effetto accertativo della sentenza stessa, soprattutto considerando che quest’ultima, mentre accerta l’usucapione in favore del possessore, allo stesso tempo qualifica come inefficace l’azione del proprietario, pur essendo quest’ultima teoricamente imprescrittibile. Invece, la norma, stabilendo che “il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato”, riduce la sentenza al rango di “mera certificazione” della fondatezza delle ragioni addotte dal possessore, senza che però a tale fondatezza consegua l’effetto che a questa è naturale, ossia la definitiva qualificazione del possessore come “proprietario”. E ciò è ancor più grave perché in tal modo si lascia al proprietario la possibilità di continuare a compiere atti interruttivi del possesso ad usucapionem, e quindi atti volti al ripristino del suo diritto di godere della cosa in modo pieno ed esclusivo, nonostante che la sua azione giudiziale di rivendica della proprietà sia ormai inefficace, come riconosciuto dalla sentenza stessa (“salvi gli effetti dell’usucapione”). Si giunge, quindi, al paradosso per cui il proprietario non può più tutelare giudizialmente, a causa della riconosciuta prescrizione, il suo diritto di proprietà, ma può comunque continuare ad interrompere l’altrui possesso per altri 10 anni dalla data in cui il Giudice ha certificato l’impossibilità, per il proprietario stesso, di recuperare il possesso (perché è proprio a tale scopo che mirava l’azione di rivendica).
Anche sotto questo aspetto, la norma contenuta nell’art. 1164 c.c. appare illegittima, in quanto finisce con il negare la rilevanza dell’accertamento giurisdizionale dell’usucapione (e dell’annessa prescrizione).
Conclusioni
La necessità di una modifica, nel senso sopra citato, dell’art. 1164 c.c., si impone anche per la seguente ragione. Ai sensi dell’art. 1163 c.c., “il possesso acquistato in modo violento o clandestino non giova per l’usucapione se non dal momento in cui la violenza o la clandestinità è cessata”. E’ legittimo che il possesso precedente, qualora sia stato ottenuto in modo violento o clandestino, rilevi, ai fini dell’usucapione, solo dal momento in cui la violenza o la clandestinità sono cessate, e che quindi il solo ed unico possesso rilevante ai suddetti fini sia quello che verrà esercitato a decorrere da tale cessazione. Ma, proprio per questo, non è legittimo che, nella diversa ipotesi in cui il possesso precedente sia stato conseguito in modo pienamente lecito (ossia in buona fede) e con l’inerzia del proprietario, come nel caso dell’art. 1161 c.c., tale possesso non rilevi ai fini dell’usucapione, potendo questa maturare solo dopo che saranno trascorsi altri 10 anni da quando il titolo del possesso è stato mutato (vedi sentenza di accertamento del diritto del possessore).
Inoltre, l’art. 1167 comma 1 c.c. prevede che, nel caso in cui il possessore sia stato privato del possesso per oltre un anno, tale possesso (ad usucapionem) non si considera interrotto qualora egli abbia proposto azione giudiziale volta a recuperare il possesso e quest’ultimo sia stato, all’esito di ciò, effettivamente recuperato.
Il requisito della “continuità” del possesso, se è considerato come sussistente quando, nonostante la privazione per oltre un anno, il possessore sia riuscito, mediante azione giudiziale, a riottenerlo, dovrà ritenersi sussistente (nel senso di “mai venuto meno”) anche quando il possessore abbia difeso giudizialmente (e con esito vittorioso) il possesso o contro il terzo oppure opponendosi al proprietario, ossia nelle ipotesi disciplinate dall’art. 1164 c.c., le quali sono esattamente coincidenti con quella di cui all’art. 1167 comma 1 c.c. .
Allo stato attuale, pertanto, la norma contenuta nell’ultima parte dell’art. 1164 c.c., in base alla quale “il tempo necessario per l’usucapione decorre dalla data in cui il titolo del possesso è stato mutato”, deve ritenersi costituzionalmente illegittima ex art. 3 Costituzione.
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