Dichiarazione di paternità: il rifiuto del test del DNA

Il tema della dichiarazione giudiziale di paternità costituisce un punto nevralgico nel diritto di famiglia, poiché è un elemento chiave per garantire i diritti del figlio nei confronti del genitore biologico che non abbia riconosciuto la propria prole alla nascita. Il recente intervento della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21979/2024, offre l’occasione per riflettere su alcuni principi consolidati e su come questi possano essere applicati in situazioni complesse. La pronuncia della Suprema Corte si inserisce nel solco di una continua evoluzione normativa e giurisprudenziale, che ha visto negli ultimi anni una maggiore attenzione ai diritti dei minori e alla tutela del loro superiore interesse.

Corte di Cassazione- Sez. I civ.-ord. n. 21979 del 05-08-2024

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Fatti di causa

La vicenda processuale trae origine dall’azione legale promossa da una madre per conto del figlio minore, al fine di ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità nei confronti del convenuto che, pur essendo il padre biologico, non aveva provveduto a riconoscerlo alla nascita. La richiesta includeva, oltre al riconoscimento del legame di filiazione, un rimborso parziale delle spese sostenute per il mantenimento del figlio fino a quel momento, e un contributo economico futuro per il mantenimento del minore.

In risposta a tali richieste, il presunto padre si è costituito in giudizio contestando non solo la fondatezza delle domande della madre, ma anche l’ammissibilità stessa dell’azione. Tra le sue eccezioni, vi era la pretesa che il processo dovesse essere interrotto, dato che, nel corso del procedimento, il figlio aveva raggiunto la maggiore età, sostenendo che questo fatto avesse cambiato i presupposti per proseguire la causa.

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Formulario commentato della famiglia e delle persone dopo la riforma Cartabia

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La questione dell’interruzione del giudizio: il ruolo dell’art. 300 c.p.c.

Uno dei temi centrali trattati dalla Cassazione riguarda la questione della sospensione del processo in base all’art. 300 c.p.c. L’eccezione sollevata dal presunto padre si fondava sul fatto che, durante lo svolgimento del processo, il figlio aveva raggiunto la maggiore età, fatto che avrebbe dovuto comportare l’interruzione del giudizio. La Cassazione ha ricordato che, affinché un evento interruttivo possa produrre effetti processuali, è necessario che venga formalmente dichiarato in udienza dal procuratore della parte, o che sia notificato alle altre parti. In assenza di tale dichiarazione, il processo può proseguire regolarmente senza che vi sia alcuna interruzione automatica.

Questo principio, già affermato dalla giurisprudenza, mira a garantire la stabilità del procedimento e a evitare che la parte possa approfittare di situazioni che non siano state ufficialmente portate all’attenzione del giudice.

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Il consenso del minore ultraquattordicenne come requisito essenziale per la prosecuzione dell’azione

Un altro aspetto centrale della controversia è legato al consenso del figlio minore ultraquattordicenne alla prosecuzione dell’azione di paternità promossa dalla madre. L’art. 273 c.c. stabilisce che, per i figli che abbiano compiuto i 14 anni, è necessario il consenso esplicito per proseguire l’azione di dichiarazione giudiziale di paternità. Questo consenso costituisce un vero e proprio requisito di legittimazione attiva, poiché integra il diritto di azione del genitore. Senza tale consenso, l’azione risulterebbe improcedibile.

Nel caso in esame, la Cassazione ha confermato il principio per cui il consenso del minore può essere prestato in qualsiasi fase del processo, purché sussista al momento della decisione. Questo approccio, già consolidato (Cass. n. 472/2023), evita che il mancato consenso iniziale precluda definitivamente il proseguimento del giudizio, a condizione che il consenso venga fornito entro la conclusione del procedimento. La Corte ha rigettato, quindi, la tesi secondo cui il consenso tardivo, fornito dopo la conclusione dell’istruttoria, avrebbe dovuto comportare la nullità delle prove raccolte.

La consulenza biogenetica: il rifiuto di sottoporsi al test del DNA come elemento decisivo

Uno dei nodi più delicati affrontati nella sentenza riguarda il rifiuto di del presunto padre di sottoporsi all’esame del DNA. La giurisprudenza ha più volte chiarito che, nelle cause volte all’accertamento della paternità naturale, il rifiuto del presunto padre di sottoporsi all’esame genetico può essere considerato un comportamento di elevato valore indiziario. Ai sensi dell’art. 116, secondo comma, c.p.c., tale rifiuto può essere valutato dal giudice come una conferma indiretta della paternità, soprattutto in assenza di altri elementi che ne giustifichino il diniego.

Nel caso di specie, il rifiuto è stato valutato dalla Corte come un elemento determinante, unitamente ad altri fattori probatori, per l’affermazione del rapporto di paternità. La Suprema Corte ha ribadito che, in materia di filiazione, la consulenza tecnica ematologica rappresenta uno strumento essenziale per accertare la verità biologica, ma il suo diniego non può essere semplicemente considerato una manovra dilatoria. È stato altresì sottolineato che, in assenza di giustificazioni valide per il rifiuto del test genetico, tale comportamento può condurre all’accoglimento della domanda del ricorrente (cfr. Cass. n. 28886/2019; Cass. n. 7092/2022).

Conclusioni

In conclusione, l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 21979/2024 ribadisce l’importanza di garantire il diritto del figlio al riconoscimento della paternità, evidenziando il peso determinante del consenso del minore ultraquattordicenne e le conseguenze processuali legate al rifiuto del test del DNA.

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