Reddito di cittadinanza e parità di trattamento: la Direttiva UE

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affrontato un caso giuridico riguardante il reddito di cittadinanza in Italia. La questione ha coinvolto l’interpretazione di varie norme  del diritto dell’UE, tra cui gli artt.18 e 45 del TFUE, l’art. 34 della Carta dei Diritti Fondamentali, e gli artt. 30 e 31 della Carta Sociale Europea. Inoltre, sono stati messi in discussione l’art. 11, par. 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE, l’art. 7, par. 2, del regolamento (UE) n. 492/2011, e l’art. 29 della direttiva 2011/95/UE. 

CGUE-29-07-2024

Il caso in esame

Il Tribunale di Napoli ha sollevato alcune questioni pregiudiziali dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea riguardanti il reddito di cittadinanza italiano. Due cittadine di paesi terzi e , soggiornanti da tempo in Italia, sono state accusate di aver dichiarato falsamente di risiedere in Italia da almeno dieci anni per accedere al beneficio, percependo così somme indebite.

Il giudice italiano ha chiesto alla CGUE se il requisito della residenza decennale, richiesto dal D.L. n. 4/2019, sia conforme al diritto unionale. In particolare, si domanda se questa normativa “imponendo un trattamento deteriore ai cittadini di paesi terzi rispetto ai cittadini italiani” violi la parità di trattamento garantita dagli artt. 18 e 45 del TFUE, dall’art. 11 della direttiva 2003/109/CE e dall’art. 7 del regolamento (UE) n. 492/2011.

Conformità del reddito di cittadinanza con il diritto UE

La Corte di Giustizia ha quindi esaminato la normativa italiana, che richiede un requisito di residenza decennale, di cui gli ultimi due anni in modo continuativo, per accedere al reddito di cittadinanza.

La questione ha incluso anche l’interpretazione dell’art. 34 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, che riguarda il diritto all’assistenza sociale.

Sebbene il governo italiano abbia sostenuto che il reddito di cittadinanza richieda un’ampia integrazione sociale e lavorativa, giustificando così il requisito di residenza, l’art. 11, paragrafo 2, della direttiva 2003/109 limita le deroghe alla parità di trattamento a specifiche circostanze. Pertanto, qualsiasi differenza di trattamento ingiustificata tra cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo e cittadini nazionali potrebbe costituire una violazione della direttiva, sollevando dubbi sulla compatibilità della normativa italiana con il diritto dell’UE.

Diritti fondamentali UE: assistenza sociale e parità di trattamento

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha chiarito che non è ammissibile una disparità di trattamento tra cittadini di paesi terzi con permesso di soggiorno di lungo periodo e cittadini degli Stati membri, basata sui legami personali con lo Stato ospitante. Questa posizione interpretativa è in linea con l’art. 11, par. 1, lettera d), della direttiva 2003/109, che garantisce parità di trattamento in ambito di prestazioni sociali, assistenza sociale e protezione sociale.

La Corte ha precisato che per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo è necessario un soggiorno legale e ininterrotto di cinque anni in uno Stato membro, considerato sufficiente a dimostrare l’integrazione del richiedente. Gli Stati membri non possono quindi estendere arbitrariamente questo periodo per restringere i diritti garantiti dalla direttiva, inclusi quelli relativi all’accesso alle prestazioni sociali.

Inoltre, qualsiasi legge nazionale che preveda sanzioni penali per false dichiarazioni sui requisiti di residenza per l’accesso a tali prestazioni deve rispettare la normativa europea. Pertanto, l’art. 11, par. 1, lettera d), della direttiva 2003/109, in combinazione con l’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, vieta agli Stati membri di subordinare l’accesso alle prestazioni sociali a un requisito di residenza di dieci anni, o di punire penalmente le dichiarazioni false su tali requisiti.

Il principio della CGUE

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha quindi stabilito che gli Stati membri non possono richiedere ai cittadini di paesi terzi con permesso di soggiorno di lungo periodo di risiedere per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, per accedere a prestazioni sociali, assistenza sociale o protezione sociale. Questa condizione, secondo la Corte, viola l’articolo 11 della direttiva 2003/109/CE e l’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

La Corte ha sottolineato che tali restrizioni creano una discriminazione ingiustificata, poiché i cittadini di paesi terzi devono essere trattati alla pari dei cittadini degli Stati membri. Inoltre, ha dichiarato illegittime le sanzioni penali per false dichiarazioni relative a questi requisiti di residenza, ribadendo che tali normative sono contrarie al principio di parità di trattamento stabilito dalle leggi dell’UE.

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