Nel presente documento si affronta la problematica relativa agli effetti che le dichiarazioni inesatte e/o reticenti dell’assicurato hanno sull’obbligazione dell’assicuratore di risarcire il danno.
Dapprima si analizza il caso in cui tali dichiarazioni siano state rese senza dolo né colpa grave (art. 1893 c.c.), e si evidenziano i motivi per i quali la limitazione dell’obbligazione dell’assicuratore alla differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose, deve ritenersi illegittima.
Poi si analizza il caso in cui le suddette dichiarazioni siano state rese con dolo o colpa grave (art. 1892 c.c.), e si sostiene la tesi secondo cui l’assicuratore, il quale poi abbia deciso di non impugnare e quindi di convalidare il contratto stesso, deve considerarsi tenuto a rimborsare all’assicurato quanto questi abbia dovuto pagare in dipendenza del sinistro.
Da ultimo, l’attenzione si concentra sul caso in cui si siano verificati, in corso di contratto, mutamenti della situazione dell’assicurato i quali abbiano comportato un aggravamento del rischio (art. 1898 c.c.), e si sottolinea come tali mutamenti, nel caso in cui venga accertato che l’assicuratore avrebbe comunque sottoscritto il contratto anche se li avesse conosciuti alla data della stipula, non possano che comportare la conferma, ora per allora, dell’impegno ad adempiere l’ “intera” obbligazione risarcitoria. Pertanto, si arriva alla conclusione per cui l’art. 1898 comma 5 c.c., laddove stabilisce che in questi casi l’obbligazione dell’assicuratore è limitata alla differenza tra rapporto tra il premio stabilito nel contratto e quello che sarebbe stato fissato se il maggiore rischio fosse esistito al tempo del contratto stesso, deve ritenersi illegittimo.
Inesattezza/reticenza senza dolo o colpa grave (art. 1893 c.c.):
illegittimità della limitazione dell’obbligazione dell’assicuratore ex artt. 1492 comma 1, 1440, 1175 e 1176 comma 2 c.c.
L’art. 1893 c.c. disciplina il caso in cui l’assicurato, in sede di stipula del contratto, abbia reso dichiarazioni inesatte e/o reticenti senza dolo o colpa grave.
La norma prevede che tali dichiarazioni “non sono causa di annullamento del contratto”. Essa, tuttavia, prevede anche che “l’assicuratore può recedere dal contratto stesso, mediante dichiarazione da farsi all’assicurato nei tre mesi dal giorno in cui ha conosciuto l’inesattezza della dichiarazione o la reticenza”.
L’inesattezza o reticenza delle dichiarazioni non può essere causa di annullamento del contratto quando esse siano dipese da colpa lieve del contraente.
Ciò, del resto, risulta pienamente coerente con la disciplina dell’annullamento del contratto, il quale può essere domandato solo laddove l’altro contraente (che, in questo caso, sarebbe l’assicurato, cioè il creditore) sia stato in dolo (art. 1427 c.c.), ragion per cui non è sufficiente, a tal fine, la colpa “lieve”.
Allo stesso tempo, però, la norma riconosce all’assicuratore il diritto di recedere.
Cosa si evince da ciò? Che la dichiarazione dell’assicurato, nonostante che sia stata resa con colpa solo “lieve”, può avere avuto ad oggetto un fatto che, se fosse stato conosciuto dall’assicuratore al tempo della stipula, avrebbe comportato il diniego, da parte di quest’ultimo, di stipulare.
Per questo motivo, viene riconosciuto all’assicuratore il diritto di recesso.
Il comma 2 prevede che “se il sinistro si verifica prima che l’inesattezza della dichiarazione o la reticenza sia conosciuta dall’assicuratore, o prima che questi abbia dichiarato di recedere dal contratto, la somma dovuta è ridotta in proporzione della differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose”.
La norma contempla due ipotesi: quella in cui il sinistro si sia verificato prima che l’assicuratore conoscesse la reale situazione del bene assicurato, ossia dell’oggetto del contratto, e quella in cui esso si sia verificato dopo che l’assicuratore abbia acquisito tale conoscenza e quindi in un momento nel quale l’assicuratore stesso abbia già verificato la possibilità di recedere dal contratto.
Ebbene, queste due ipotesi, che la norma tiene separate, sono in realtà sostanzialmente coincidenti.
Infatti, nel momento in cui il sinistro si verifica, l’assicurato chiede all’assicuratore di coprire il danno; egli, però, quantifica questo danno in misura superiore a quella corrispondente alla situazione di rischio che aveva segnalato all’assicuratore al tempo della stipula; quindi, l’assicuratore viene comunque a scoprire, al tempo del sinistro, che in realtà il suo rischio era maggiore di quello che al momento della stipula gli era stato prospettato.
Quindi, non ha senso distinguere tale ipotesi da quella in cui il sinistro si sia verificato dopo che l’assicuratore abbia saputo della inesattezza/reticenza: anche nel primo caso, il verificarsi del sinistro determina l’accertamento, da parte dell’assicuratore, della non veridicità delle dichiarazioni rese dall’assicurato, in quanto egli si vede presentare da quest’ultimo una richiesta di copertura assicurativa per un danno superiore al rischio concordato al tempo della sottoscrizione del contratto, e quindi anche nel primo caso l’assicuratore acquisisce la consapevolezza di poter esercitare il diritto di recesso che gli viene riconosciuto.
Ciò posto, il secondo comma stabilisce che l’assicuratore, il quale non abbia ancora esercitato il diritto di recesso, è obbligato a risarcire il danno solo nella misura pari alla “differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose”.
Quindi, l’assicuratore, anche se non ha ancora esercitato il diritto di recesso, è obbligato a pagare solo una parte del danno.
La domanda è questa: è legittimo che egli adempia solo ad una parte della sua obbligazione anche se non è ancora receduto, e quindi anche se è rimasto nel contratto?
In linea di principio sì, perché, p.es., il compratore, se scopre che la cosa ha dei vizi, nonostante che il venditore gli avesse garantito l’inesistenza di questi ultimi, ha diritto o alla risoluzione oppure ad una riduzione del prezzo (art. 1492 comma 1 c.c.). La fattispecie di cui all’art. 1893 c.c. è analoga: anche qui l’assicurato aveva garantito all’assicuratore l’assenza di una situazione di maggior rischio, ed invece poi l’assicuratore è venuto a scoprire l’esistenza di questa situazione.
Quindi, come il compratore ha diritto alla riduzione del prezzo, così l’assicuratore ha diritto a pagare un danno minore rispetto a quello richiesto.
Però, a questo punto, vista l’analogia con l’art. 1492 comma 1 c.c., va detto che quest’ultimo stabilisce il principio dell’alternatività tra la risoluzione e la riduzione del prezzo, precisando che la scelta dell’una piuttosto che dell’altra, ove avvenuta in giudizio, è “irretrattabile”. Di conseguenza, il compratore, se chiede la riduzione del prezzo, poi non potrà chiedere la risoluzione.
Allora, per coerenza, si deve ritenere che, nel caso dell’art. 1893 c.c., l’assicuratore, se decide di pagare il minor danno previsto dal comma 2, poi non possa recedere: il recesso, così come la risoluzione, determina lo scioglimento del vincolo negoziale, e quindi, come il compratore, una volta chiesta la riduzione del prezzo, non può sciogliersi dal contratto mediante la risoluzione, così l’assicuratore, una volta pagato il minor danno, non potrà svincolarsi dal contratto mediante il recesso.
Abbiamo detto che l’assicuratore, ove paghi il minor danno (pari alla suddetta differenza), non può poi recedere dal contratto, perché l’impossibilità di recedere è la “contropartita” della possibilità di adempiere solo parzialmente (risarcimento di un minor danno) alla prestazione concordata.
Tale tesi, allora, dovrebbe comportare quanto segue: l’assicuratore, nel caso in cui receda, dovrebbe essere obbligato a pagare l’intero danno, e non soltanto la differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose.
Infatti, se all’assicuratore viene data la possibilità di recedere, in capo a lui deve ritenersi sussistente l’obbligo di adempiere totalmente – ossia per l’ “intero” danno- alla prestazione concordata, e non soltanto parzialmente, in quanto tale adempimento rappresenta “la contropartita” del recesso: in pratica, essa è “il prezzo” di quest’ultimo.
La domanda è: esiste un principio in base al quale la parte che recede deve, proprio a seguito del recesso, adempiere all’intera obbligazione originariamente convenuta?
Ai sensi dell’art. 1373 comma 3 c.c., “qualora sia stata stipulata la prestazione di un corrispettivo per il recesso, questo ha effetto quando la prestazione è eseguita”.
Questa norma disciplina l’ipotesi in cui, fin dal momento della stipula del contratto, ad una delle parti sia stata attribuita la facoltà di recedere, ragion per cui l’obbligo di eseguire una determinata prestazione rappresenta il corrispettivo del riconosciuto diritto di recesso.
Nel caso di cui all’art. 1893 c.c., invece, la facoltà di recedere è il frutto non già di una negoziazione tra le parti, bensì di una previsione di legge, la quale offre all’assicuratore, a compensazione del maggior rischio determinato dalla dichiarazione inesatta/reticente dell’assicurato, il diritto di recesso.
Ciò non toglie, però, che se si ammette il principio secondo cui anche l’assicuratore recedente è tenuto a risarcire il danno solo per la misura pari alla differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose, egli finisce con il ricevere lo stesso trattamento “premiante” dell’assicuratore il quale abbia scelto di non recedere, rimanendo vincolato al contratto (vedi art. 1492 comma 1 c.c.), assicuratore il quale, come abbiamo visto, è ammesso ad adempiere solo parzialmente (vedi la suddetta differenza) proprio perché ha deciso di non recedere. E tale analogia di trattamento premiante si presterebbe a formare oggetto di una questione di legittimità costituzionale ex art. 3 Cost., la quale, verosimilmente, avrebbe quale esito quello di far accertare l’incostituzionalità dell’art. 1893 c.c. nella parte in cui non prevede che l’assicuratore, il quale receda, è tenuto ad adempiere per l’intero all’obbligazione risarcitoria.
Va poi fatta questa ulteriore considerazione.
L’art. 1893 c.c. disciplina il caso in cui le dichiarazioni inesatte o reticenti siano state rese senza dolo (né colpa grave), e, proprio per questa ragione, stabilisce che il contratto “non può essere annullato”, ossia è valido.
L’art. 1440 c.c. stabilisce che se una delle parti abbia usato dei “raggiri”, e quindi sia stata in dolo, e però questi raggiri non siano stati determinanti del consenso dell’altra, in quanto quest’ultima, anche se li avesse conosciuti, avrebbe comunque deciso di contrarre, il contratto è valido, ma la parte in dolo “risponde dei danni”,
In entrambi i casi il vizio della volontà di cui sia stata vittima una delle parti (nel caso dell’art. 1893 c.c., l’assicuratore), non è sufficiente, suo malgrado, ad invalidare il contratto, che quindi resta valido.
Però, non può trascurarsi questa importante differenza: nel caso dell’art. 1893 c.c., la volontà dell’assicuratore è stata viziata da una “colpa lieve” dell’assicurato, e quindi non da un dolo, ma, nonostante ciò, l’assicuratore ha la facoltà di pagare solo una parte della sua obbligazione (ossia non “tutto” il danno, ma solo la differenza prevista dalla norma); nel caso dell’art. 1440 c.c., la volontà di una delle parti è stata viziata da un dolo della controparte, la quale, proprio per tale ragione, deve rispondere di “tutti” i danni. L’art. 1440 c.c., infatti, quando prescrive l’obbligo risarcitorio, non prevede alcuna limitazione, né in ordine alla tipologia né in merito all’ammontare, e quindi si deve ritenere che essa preveda la risarcibilità dell’intero danno subìto dalla parte.
Questa differenza determina una disparità di trattamento tra il contraente che è stato in dolo ed il contraente il cui comportamento, invece, sia stato solo “lievemente colposo”: quest’ultimo non può essere trattato alla stessa stregua del primo. Ed invece ciò è proprio quello che fa l’art. 1893 c.c.: l’assicurato, anche se in colpa soltanto lieve, ha diritto di essere risarcito non per l’intero danno, ma solo per una sua parte; egli, in questo modo, viene trattato, in sostanza, come il contraente ex art. 1440 c.c. che sia stato in dolo, in quanto quest’ultimo è tenuto a pagare “tutti” i danni, e l’assicurato, il cui comportamento non è stato certamente doloso, deve “accontentarsi” di una copertura assicurativa minore.
Sotto questo aspetto, la norma contenuta nell’art. 1893 c.c. va a ridimensionare grossolanamente quella contenuta nell’art. 1175 c.c., la quale, imponendo alle parti di comportarsi secondo buona fede e correttezza, costituisce, in modo abbastanza pacifico, un “principio generale”.
Di conseguenza, l’art. 1893 c.c. – nello stabilire che l’assicuratore, anche in presenza di una colpa lieve dell’assicurato, è tenuto a pagare il danno solo in misura pari alla differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose – contrasta con i principi stabiliti negli artt. 1440 e 1175 c.c., e pertanto si presta a formare oggetto di una questione di legittimità costituzionale ex art. 3 Costituzione.
A ciò si aggiunga la seguente ulteriore considerazione.
Cosa vuol dire colpa “lieve” dell’assicurato? Che egli “poteva anche non sapere” che l’evento rischio era più alto rispetto a quello a lui noto, e che pertanto era in buona fede.
Poi, però, esiste anche l’obbligo, di colui che esercita un’attività professionale (come l’assicuratore), di verificare che il rischio dichiarato dal contraente corrisponda effettivamente a quello reale. Ai sensi dell’art. 1176 comma 2 c.c., “nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”. Quindi, da un lato ci deve essere la buona fede del contraente, ma, dall’altro, vi deve essere un onere di informativa da parte dell’assicuratore.
Quindi, l’assicuratore – che adesso recede perché, se avesse conosciuto l’inesattezza/reticenza della dichiarazione, non avrebbe stipulato – è comunque un soggetto il quale avrebbe dovuto, con la diligenza richiesta dall’art. 1176 comma 2 c.c., verificare la veridicità della dichiarazione resa dall’assicurato, in quanto, se la colpa di quest’ultimo è stata solo “lieve”, ciò testimonia che la “materia” era complessa, ossia che l’assicurato poteva ragionevolmente sbagliare, ed allora è proprio qui che deve subentrare la “speciale diligenza” richiesta a chi, come l’assicuratore, esercita un’attività professionale.
Per tutte queste ragioni si deve ritenere che la norma contenuta nell’art. 1893 c.c. – il quale prevede che l’assicuratore è tenuto a risarcire non “tutto” il danno ma solo la differenza tra il premio convenuto e quello che sarebbe stato applicato se si fosse conosciuto il vero stato delle cose – sia illegittima.
Inesattezza/reticenza con dolo o colpa grave (art. 1892 c.c.): obbligo dell’assicuratore, il quale abbia deciso di non chiedere l’annullamento del contratto, di rimborsare all’assicurato quanto questi abbia dovuto pagare in dipendenza del sinistro
L’art. 1892 c.c. disciplina il caso in cui l’assicurato abbia reso dichiarazioni inesatte o reticenti con dolo o colpa grave.
Essa prevede che l’assicuratore, entro 3 mesi da quando ha conosciuto l’inesattezza o reticenza delle dichiarazioni, può chiedere l’annullamento del contratto.
Se il sinistro si verifica prima che siano decorsi i 3 mesi previsti per chiedere l’annullamento, e quindi dopo aver conosciuto il dolo o la colpa grave (dichiarazioni inesatte/reticenti), l’assicuratore non è tenuto a pagare (comma 3).
Il principio è quello per cui la parte, la quale è ancora nei termini per poter esercitare l’azione di annullamento, non è tenuta alla prestazione se questa viene richiesta in pendenza di tali termini.
Ma non è detto che l’assicuratore agisca per l’annullamento del contratto: egli, infatti, potrebbe anche decidere di convalidare il medesimo, ex art. 1444 c.c. .
Il problema, tuttavia, è un altro.
Il terzo danneggiato vuole essere risarcito subito, o comunque entro un termine relativamente breve dal sinistro, ossia egli non può attendere che l’assicuratore decida se convalidare o meno il contratto, e quindi se risarcire o meno il danno.
La questione quindi è vedere se l’assicuratore, il quale poi abbia deciso di convalidare il contratto, ossia di non impugnare entro i 3 mesi, debba considerarsi tenuto a rimborsare al contraente quanto questi abbia dovuto pagare personalmente per il sinistro verificatosi in pendenza del suddetto termine.
L’art. 1892 c.c. non disciplina espressamente questa ipotesi.
L’assicuratore decide di non impugnare il contratto – e quindi di convalidarlo – perché evidentemente ritiene che, nonostante il dolo o la colpa grave dell’assicurato, i vantaggi derivanti dalla prosecuzione del rapporto siano per lui comunque maggiori rispetto agli svantaggi, ed in questo caso lo svantaggio consiste nel dover esporsi ad un rischio maggiore di quello pattuito (maggior rischio che è emerso dall’accertamento del dolo o della colpa grave con cui l’assicurato ha reso le dichiarazioni).
Ma l’assicurato intanto ha dovuto pagare di tasca propria; la convalida dell’assicuratore è intervenuta solo successivamente; ebbene, in tal caso l’assicurato ha diritto al rimborso?
L’art. 1432 c.c. disciplina il “mantenimento del contratto rettificato”, prevedendo che “la parte in errore non può domandare l’annullamento del contratto se, prima che ad essa possa derivarne pregiudizio, l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalita’ del contratto che quella intendeva concludere”.
La controparte può evitare l’annullamento offrendo di eseguire una prestazione tale da vanificare gli effetti del vizio di annullabilità, ma lo deve fare – prevede la norma – prima che alla parte possa derivare un pregiudizio, e quindi prima che questa abbia subìto un danno.
Tale “rettifica” (e conseguente mantenimento) del contratto, è un atto della controparte, ossia del contraente la cui volontà non è stata viziata da errore e che perciò, anzi, potrebbe ricavare un vantaggio dall’errore in cui sia incorsa la parte. Ebbene, la predetta rettifica deve essere fatta obbligatoriamente prima ancora che la parte abbia subìto un danno a causa dell’errore.
Invece la convalida è un atto della parte la cui volontà è stata viziata, e quindi, per potersi differenziare dalla “rettifica”, deve necessariamente intervenire quando il danno, dovuto all’errore, si è già prodotto (nel caso dell’assicuratore, quando si è già verificato il sinistro).
Un conto è l’offerta volta a prevenire le conseguenze del vizio di annullabilità e quindi a rendere quest’ultimo sostanzialmente inoffensivo, e tale offerta, che viene formulata dalla controparte, va fatta prima che la parte abbia subìto un danno a causa del vizio.
Un altro conto è la decisione della stessa parte che è stata vittima dell’errore, di convalidare il vizio: tale decisione, proprio perché proviene dalla parte “lesa”, non può che comportare l’obbligo di “pagare il danno”, ossia di eseguire la prestazione (nel caso dell’assicuratore, l’obbligo di rimborsare all’assicurato quanto da questi pagato in dipendenza del sinistro).
Pertanto, la convalida da parte dell’assicuratore dovrebbe avere un effetto retroattivo, in quanto, mediante essa, egli ha affermato la volontà di pagare il danno conseguente al maggior rischio nonostante l’accertata inesattezza o reticenza (fraudolenta p gravemente colposa) delle dichiarazioni, e lo ha fatto all’esito di una valutazione comparativa tra costi e benefici di tale accettazione, tramite la quale ha ritenuto che i benefici derivanti dalla prosecuzione del rapporto fossero per lui maggiori rispetto ai costi. Tale valutazione non può valere solo da ora per il futuro, ma deve necessariamente avere anche un’efficacia retroattiva, e cioè deve riguardare proprio l’evento “danno” verificatosi nel momento in cui egli avrebbe potuto chiedere l’annullamento del contratto.
Di conseguenza, l’assicuratore, il quale abbia convalidato il vizio di annullabilità soltanto dopo che l’assicurato abbia pagato di tasca propria, dovrebbe considerarsi tenuto a rimborsare quest’ultimo.
Aggravamento del rischio (art. 1898 comma 5 c.c.): illegittimità della limitazione dell’obbligazione dell’assicuratore ex artt. 1467 e 1444 c.c.
L’art. 1898 c.c., riguardo ai mutamenti del rischio assicurativo verificatisi in corso di contratto, distingue due ipotesi.
La prima (comma 1) è quella in cui se tali mutamenti fossero stati conosciuti dall’assicuratore al tempo della stipula, quest’ultimo non avrebbe accettato di stipulare. In tal caso, l’assicuratore può recedere, e, se il sinistro si verifica prima che siano trascorsi i termini per la comunicazione e per l’efficacia del recesso, egli non è tenuto a pagare.
La seconda (comma 5) è quella in cui, anche se i mutamenti fossero stati conosciuti dall’assicuratore al tempo della stipula, ciò non avrebbe comunque impedito all’assicuratore stesso di stipulare. In tal caso (la norma dice “altrimenti” per identificare appunto tale seconda ipotesi), l’assicuratore è tenuto a pagare il danno solo in misura pari alla differenza tra il premio stabilito nel contratto e quello che sarebbe stato fissato se il maggiore rischio fosse esistito al tempo del contratto stesso.
L’analisi si concentra sulla seconda ipotesi.
Se viene accertato che l’assicuratore avrebbe comunque stipulato anche se, al tempo della stipula, avesse saputo dei mutamenti implicanti l’aggravamento del rischio a suo carico, questo vuol dire che egli avrebbe prestato ugualmente il proprio consenso al contratto, e cioè avrebbe accettato anche se avesse saputo che le condizioni contrattuali sarebbero state per lui più onerose.
Con questo accertamento viene dimostrato che l’assicuratore considera questi mutamenti come rientranti nella “normale alea contrattuale”.
Il “normale rischio contrattuale” è quello che non consente, alla parte la quale si sia trovata a subire il sopraggiungere di circostanze implicanti un aggravamento della prestazione a suo carico, di domandare la risoluzione del contratto per sopravvenuta eccessiva onerosità (art. 1467 c.c.).
In questo caso, quindi, l’assicuratore, proprio perché manifesta comunque la volontà di eseguire il contratto, non può proporre la suddetta domanda.
Quindi, egli, se sceglie di non chiedere la risoluzione, evidentemente accetta di eseguire il contratto alle condizioni più onerose, anche se non gli erano note dal tempo della stipula.
Ebbene, l’assicuratore, con questa scelta, va a “sanare”, ora per allora, la mancata conoscenza dei fatti (i “mutamenti”) comportanti la maggiore onerosità della prestazione a suo carico, e tale sanatoria produce necessariamente un effetto ex tunc, ossia da ora per il passato. Se così non fosse, la dichiarazione con la quale l’assicuratore comunica che “avrebbe comunque accettato” di stipulare anche se avesse preventivamente conosciuto i suddetti fatti, perderebbe di ogni rilevanza, in quanto ciò vorrebbe dire che tale accettazione vale solo da ora per il futuro, e non retroagisce al tempo della sottoscrizione del contratto.
Tale accettazione, per poter considerarsi “sensata”, deve necessariamente retroagire al tempo della stipula, e deve quindi inevitabilmente comportare “la conferma” dell’impegno dell’assicuratore ad adempiere alla propria obbligazione risarcitoria per l’ammontare pari all’intero danno verificatosi, e non solo, come invece prevede l’art. 1898 c.c., per la differenza tra il premio stabilito nel contratto e quello che sarebbe stato fissato se il maggiore rischio fosse esistito al tempo del contratto stesso.
Ma ciò anche per la seguente ragione.
Abbiamo detto che, nel caso ex art. 1898 c.c., non vi è stato “dolo” dell’assicurato, poiché i “mutamenti” non erano noti neanche a quest’ultimo al tempo della stipula.
Il dolo, suo malgrado, non è causa di annullamento quando il contraente, che gli effetti di tale dolo abbia subìto, decida di “convalidare” comunque il vizio (art. 1444 c.c.), e quindi di continuare ad eseguire il contratto nonostante la sopravvenuta conoscenza del vizio stesso.
La “convalida” implica la volontà del contraente di considerare valido il contratto ora per allora, e quindi egli, mediante essa, adempie agli originari obblighi contrattuali come se nulla fosse successo.
Allora il discorso è il seguente: se ha effetto retroattivo la “convalida”, la quale deriva la propria ragion d’essere da un comportamento doloso dell’altro contraente, dovrà avere, a maggior ragione, effetto retroattivo anche la manifestazione di volontà dell’assicuratore di eseguire il contratto alle condizioni (“mutamenti”) implicanti per lui un maggior rischio, volontà che trae la propria ragion d’essere da un comportamento dell’altro contraente (l’assicurato) il quale non è stato affatto doloso, poiché neanche quest’ultimo era a conoscenza, al tempo della stipula, delle suddette condizioni.
Pertanto, l’art. 1898 comma 5 c.c. – nel prevedere che l’obbligazione dell’assicuratore si riduce, a causa dei mutamenti sopravvenuti di cui egli non era a conoscenza all’atto della stipula – alla differenza tra il premio stabilito nel contratto e quello che sarebbe stato fissato se il maggiore rischio fosse esistito al tempo del contratto stesso – stabilisce un principio che contrasta con quella che è la “naturale retroattività” della dichiarazione dell’assicuratore relativa alla “non incidenza” dei suddetti mutamenti sul proprio consenso negoziale.
Se l’assicuratore riconosce che si sarebbe ugualmente vincolato al contratto anche nel caso in cui, al tempo della stipula, avesse saputo dell’aggravamento del rischio, egli, perciò stesso, afferma che i “mutamenti” consistiti in tale aggravamento, quand’anche fossero stati conosciuti, non avrebbero costituito un ostacolo ad assumere su di sé l’obbligazione risarcitoria per “l’intero danno”.
Il suddetto principio, inoltre, contrasta con le norme contenute negli artt. 1467 e 1444 c.c. .Per tali ragioni, l’art. 1898 comma 5 c.c. dovrebbe essere modificato nel senso di prevedere che in capo all’assicuratore permane l’obbligo di risarcire l’ “intero” danno, e non soltanto la differenza sopra citata.
In mancanza di simile modifica, la norma deve essere qualificata come illegittima.
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