La Corte di Cassazione, con la sentenza 133 del 5 gennaio 2017, ha espresso alcuni importanti principi in materia di litisconsorzio del condominio e legittimazione passiva dell’amministratore.
Il caso in esame
Nel processo in analisi una parte rivendicava la proprietà di un appartamento sito in uno stabile condominiale, mentre la seconda – che si affermava mera locatrice dell’immobile – specificava come in realtà il proprio dante causa non fossero gli attori, bensì il condominio al quale lei versava le spese relative alla locazione.
Si costituiva in causa il condominio (compiendo un intervento volontario nel giudizio) e affermando come l’appartamento fosse di proprietà condominiale e quindi un bene comune dello stabile stesso.
Il Tribunale di prime cure, all’esito del giudizio, emetteva sentenza con la quale dava ragione all’attore e condannava la locatrice e il condominio al risarcimento dei danni.
Il condominio faceva appello, insistendo nella proprietà comune dell’appartamento e lamentando inoltre un vizio nel processo di primo grado consistente nella mancata evocazione in giudizio di tutti i condomini.
Tale domanda veniva accolta dalla Corte d’Appello, la quale con sentenza dichiarava la nullità della decisione di primo grado e rimandava quindi per nuovo giudizio in prime cure.
Secondo la Corte d’Appello, infatti, non si sarebbe potuto configurare una ipotesi di litisconsorzio necessario esclusivamente perché l’azione attorea verteva su un bene in comproprietà, tuttavia – essendo il bene non ricompreso nel novero di quelli previsti dall’articolo 1117 del Codice Civile – sarebbe stato necessario integrare il contraddittorio convenendo tutti i condomini al fine di determinare la proprietà comune o meno dell’appartamento in oggetto.
l soggetti attori nel primo grado di giudizio ricorrevano quindi in Cassazione, sostanzialmente domandando la nullità della sentenza di Appello sulla base dei seguenti motivi.
I motivi di ricorso in Cassazione
Come primo motivo i ricorrenti lamentavano che l’intervento in giudizio del condominio nel primo grado avesse carattere meramente adesivo, ossia di sostegno alla difesa della parte convenuta, e non fosse quindi qualificabile come intervento autonomo (e quindi portatore di una propria posizione indipendente dalle altre parti in causa).
In aggiunta, secondo gli stessi, il giudice del secondo grado di giudizio avrebbe dovuto considerare come valida la sentenza di primo grado, dato che la controversia sulla rivendicazione dell’immobile non avrebbe dato luogo a ipotesi di litisconsorzio necessario, essendo la decisione produttiva di effetti solo verso le parti in causa.
Inoltre, aggiungevano i ricorrenti, al giudizio di primo grado aveva partecipato l’amministratore di condominio il quale, autorizzato dall’assemblea, ai sensi dell’articolo 1131 comma II del Codice Civile era legittimato ad agire a tutela della rivendicazione dell’appartamento per il condominio, non rendendo necessaria l’integrazione del contraddittorio verso tutti i condomini.
La Corte di Cassazione si pronunciava rigettando i primi motivi di ricorso, ma accogliendo l’ultimo elencato.
La decisione della Corte
In buona sostanza la Suprema Corte affermava che l’intervento del condominio nel primo grado di giudizio fosse volto alla rivendicazione di un bene come proprio, quindi classificabile come intervento adesivo autonomo e, di conseguenza, aveva legittimato il condominio a proporre appello alla sentenza di primo grado che lo aveva visto soccombere.
Ai sensi e per gli effetti degli articoli 1130 e 1131 del Codice Civile, l’amministratore era legittimato a stare in giudizio, dato che la legge gli attribuiva espressamente il dovere di tutelare i beni condominiali.
Nel caso in questione l’appartamento era effettivamente di proprietà del condominio e come tale certamente un bene comune.
Secondo la Corte di Cassazione, quindi, la Corte di Appello non aveva applicato correttamente i principi di legge summenzionati, dato che aveva affermato che, stante la natura di bene condominiale dell’appartamento, la sentenza di primo grado sarebbe stata nulla dato che non era stata pronunciata al cospetto di tutti i condomini.
Tuttavia, alla luce dell’articolo 1131 del Codice Civile, la chiamata in causa dell’amministratore (che deve riferire in assemblea) è di per sé sufficiente per eliminare la necessità di chiamare in causa tutti i condomini.
In conclusione, quindi, la Cassazione annullava la sentenza di Appello e rimetteva alla Corte il processo indicando come questa al fine di decidere avrebbe dovuto attenersi al seguente principio:
“Premessa la legittimazione passiva dell’amministratore per qualunque azione abbia ad oggetto parti comuni dello stabile condominiale, la individuazione della natura del bene controverso deve avvenire tenendo conto che l’art. 1117 c.c. contiene un’elencazione non tassativa ma solo esemplificativa delle cose comuni, essendo tali, salvo risulti diversamente dal titolo, anche quelle aventi un’oggettiva e concreta destinazione al servizio comune di tutte o di una parte soltanto delle unità immobiliari di proprietà individuale”.