Con la sentenza n. 126 dell’8 gennaio 2016, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha chiarito che, in materia di risarcimento del danno da sinistro stradale, qualora il danneggiato abbia omesso di allacciare le cinture di sicurezza, deve essere riconosciuto un concorso di colpa.
Nel caso di specie, il giudice di primo grado aveva accolto la domanda di risarcimento dei danni patiti da una donna in conseguenza di un sinistro stradale, attribuendo però alla vittima un concorso di colpa per non avere usato la cintura di sicurezza. A seguito della conferma della Corte d’Appello, la danneggiata ricorreva pertanto in Cassazione, dogliandosi del fatto che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere provato che la vittima non avesse le cinture, ed in ogni caso nel determinare la percentuale di colpa ad essa ascrivibile in misura pari al 30%.
In primo luogo, la Suprema Corte, nel confermare la fondatezza di quanto statuito dalla Corte d’Appello, ha comunque chiarito che stabilire se la vittima d’un sinistro stradale, al momento del fatto, avesse o non avesse le cinture di sicurezza allacciata, ed in quanta parte l’eventuale omissione di tale cautela abbia concausato il sinistro, costituiscono altrettanti accertamenti di fatto, non certo valutazioni in iure: pertanto sottratti alla cognizione del giudice di legittimità.
Quanto invece alla doglianza riguardante il fatto che la Corte d’appello avrebbe commesso l’errore di liquidare il danno alla salute con criteri diversi da quelli risultanti dalle tabelle uniformi predisposte dal Tribunale di Milano, da ritenersi l’unico corretto criterio di liquidazione, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio che nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, il giudice di merito ha l’obbligo di adottare il criterio equitativo predisposto dal Tribunale di Milano, in quanto idoneo a garantire la parità di trattamento.
Tuttavia ha anche soggiunto che, pur costituendo ormai la tabella milanese un parametro in linea generale attestante la conformità della valutazione equitativa del danno ex art. 1226 c.c. e art. 2056 c.c., comma 1, non possono considerarsi ricorribili in cassazione per violazione di legge, le sentenze d’appello che abbiano liquidato il danno in base a diverse tabelle “per il solo fatto che non sia stata applicata la tabella di Milano e che la liquidazione sarebbe stata di maggiore entità se fosse stata effettuata sulla base dei valori da quella indicati“.
Invero, affinchè il ricorso non sia dichiarato inammissibile per la novità della questione posta, non sarà infatti sufficiente che in appello sia stata prospettata l’inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice, ma “occorrerà che il ricorrente si sia specificamente doluto in secondo grado, sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle tabelle elaborate a Milano; e che, inoltre, nei giudizi svoltisi in luoghi diversi da quelli nei quali le tabelle milanesi sono comunemente adottate, quelle tabelle abbia anche versato in atti“. Alla luce di tale affermazione, la violazione di tale regola iuris potrà essere fatta valere in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 3, solo qualora la questione sia stata specificamente sollevata nel giudizio di merito.
Ebbene, nel giudizio in questione la ricorrente non ha sollevato la questione in esame nel giudizio d’appello, né risulta avere mai depositato in quel grado di giudizio la c.d. “tabella” milanese ovvero – il che, ai fini dell’inammissibilità del ricorso, conduce al medesimo risultato – ha mai indicato nel proprio ricorso quando e dove abbia sollevato la suddetta questione o depositato il suddetto documento.
Di conseguenza, la Suprema Corte rigettava il ricorso, con condanna della ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità.