Con la sentenza n. 9320 dell’8 maggio 2015, la terza sezione civile della Corte di Cassazione, in materia di risarcimento del danno da fatto illecito, ha chiarito che il principio dell’unitarietà della liquidazione del danno non patrimoniale sancito dall’art. 1223 c.c. non opera nel caso in cui il danno abbia inciso su beni differenti.
In tema di danno non patrimoniale, l’art. 2056 c.c., prevede che la liquidazione del danno derivante da fatto illecito deve avvenire in base alle regole stabilite dall’art. 1223 c.c.. L’art. 1223 c.c., a sua volta, stabilisce che la liquidazione del danno “deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta“. Sul punto, esiste un principio giurisprudenziale ormai pacificamente sancito, cd. “principio di unitarietà del danno non patrimoniale”, in base al quale il risarcimento del danno non patrimoniale deve essere liquidato in una somma omnicomprensiva, posto che le varie voci di danno non patrimoniale elaborate dalla dottrina e dalla giurisprudenza (danno estetico, danno esistenziale, danno alla vita di relazione, ecc.) non costituiscono pregiudizi autonomamente risarcibili.
La Suprema Corte ha tuttavia chiarito che tale principio opera a condizione che la “perdita” abbia inciso su beni od interessi omogenei. Se, invece, l’illecito attinge beni eterogenei, si avranno perdite diverse e dunque danni diversi. Così, ad esempio, dinanzi ad una lesione della salute, il bene diminuito è uno, e non è consentito liquidare separatamente il danno biologico, quello c.d. “estetico”, quello c.d. “alla vita di relazione”, od altri analoghi, i quali non costituiscono che nomi diversi coi quali indicare le diverse conseguenze che possono derivare da un infortunio. Per contro, se la vittima d’un sequestro di persona patisse lesioni personali, essa avrebbe diritto al risarcimento sia del danno non patrimoniale da lesione della salute, sia di quello da privazione della libertà: in questo caso infatti ci troveremmo dinanzi a due interessi lesi, a due perdite (libertà e salute) ed a due danni.
Ne deriva, secondo la Cassazione, che “la nozione di “unitarietà” della liquidazione del danno non patrimoniale vuol dunque dire che lo stesso danno non può essere liquidato due volte solo perchè lo si chiami con nomi diversi; ma non vuol certo dire che quando l’illecito produca perdite non patrimoniali eterogenee, la liquidazione dell’una assorba tutte le altre“. E’ infatti proprio “l’omogeneità delle perdite concrete derivate dall’illecito che impone la liquidazione unitaria, e non la natura non patrimoniale dell’interesse leso”.
In conclusione, la Corte di legittimità ha pertanto ribadito che “il risarcimento del danno da fatto illecito presuppone che sia stato leso un interesse della vittima, che da tale lesione sia derivata una “perdita” concreta, ai sensi dell’art. 1223 c.c., e che tale perdita sia consistita nella diminuzione di valore d’un bene o d’un interesse“. E quando la suddetta perdita incida su beni oggettivamente diversi, anche non patrimoniali, come il vincolo parentale e la validità psicofisica, il giudice è tenuto a liquidare separatamente i due pregiudizi, “senza che a ciò osti il principio di omnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, il quale ha lo scopo di evitare le duplicazioni risarcitorie, inconcepibili nel caso in cui il danno abbia inciso su beni oggettivamente differenti”.
Nel caso di specie, i genitori e la sorella di una vittima in un tragico incidente stradale, avevano esperito azione di risarcimento del danno contro il conducente dell’altro veicolo coinvolto nel sinistro e la sua compagnia assicurativa. Il Tribunale accoglieva la domanda. La Corte territoriale, tuttavia, ritenendo sussistente un concorso di colpa della vittima, rideterminava l’ammontare del danno non patrimoniale, riducendone l’importo rispetto a quanto liquidato dal primo giudice, ma liquidando erroneamente sia il danno derivante dal lutto, sia il danno alla salute consistito in una malattia psichica, in modo unitario.
(Corte di Cassazione, Terza sezione civile, sentenza n. 9320 dell’8 maggio 2015)