Ripetibilità indennità di mobilità dopo la reintegrazione del lavoratore licenziato

La recente pronuncia della Corte di Cassazione ha sollevato la questione circa la ripetibilità delle somme percepite dai lavoratori a titolo di indennità di mobilità in situazioni in cui il loro licenziamento viene successivamente dichiarato illegittimo e il rapporto di lavoro ripristinato ope iudicis.

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Corte di Cassazione- Sez. Lav. – ord. int. n. 25399 del 23-09-2024

La vicenda

Il caso specifico ha coinvolto lavoratori di una società dichiarata fallita, i cui dipendenti erano stati licenziati. Dopo il fallimento, i lavoratori avevano ricevuto l’indennità di mobilità, come previsto dalla legge in caso di perdita involontaria del lavoro. Tuttavia, una successiva sentenza aveva stabilito che il licenziamento era illegittimo e che i lavoratori dovevano essere reintegrati. La complicazione nasce dal fatto che anche Ortofrost era fallita, impedendo ai lavoratori di tornare effettivamente al lavoro, e così questi avevano continuato a percepire l’indennità di mobilità.

Le ragioni dell’INPS e la tesi dei lavoratori

Da un lato, l’INPS ha sostenuto che la funzione dell’indennità di mobilità è quella di garantire un sostegno economico ai lavoratori che si trovano in stato di disoccupazione involontaria. Una volta che il rapporto di lavoro viene ripristinato per effetto di una sentenza, il presupposto dello stato di disoccupazione viene meno, poiché il lavoratore ritorna a essere formalmente dipendente e quindi non ha più diritto all’indennità. Inoltre, secondo l’INPS, la percezione dell’indennità in concomitanza con la reintegrazione configurerebbe un indebito previdenziale, che deve essere restituito. Questo approccio si fonda sull’idea che, essendo la disoccupazione venuta meno de iure, non vi sia più giustificazione per il versamento delle somme a titolo di sostegno.

I lavoratori, d’altro canto, hanno sostenuto che, pur essendo stato reintegrato il rapporto di lavoro a livello formale, di fatto non era stato possibile riprendere la propria attività lavorativa a causa del fallimento della società.

Per loro, la condizione di disoccupazione involontaria era rimasta invariata poiché non avevano mai percepito le retribuzioni dovute né avevano potuto eseguire la propria prestazione lavorativa. Di conseguenza, l’indennità di mobilità rappresentava l’unica fonte di sostentamento durante il periodo in questione, e la richiesta di restituzione da parte dell’INPS appariva ingiusta, considerata la loro situazione di bisogno (cd. tesi satisfattiva).

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Manuela Rinaldi
Avvocato cassazionista, consigliere e tesoriere del COA Avezzano. Direttore della Scuola Forense della Marsica, è professore a contratto di “Tutela della salute e sicurezza sul lavoro” e “Diritto del lavoro pubblico e privato” presso diversi atenei. Relatore a Convegni e docente di corsi di formazione per aziende e professionisti, è autore di numerose opere monografiche e collettanee.

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La decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione si è trovata a dover affrontare la distinzione tra la disoccupazione de iure e la disoccupazione de facto. Da un lato, la reintegrazione formale dei lavoratori aveva ripristinato il loro rapporto di lavoro con l’azienda fallita, eliminando formalmente lo stato di disoccupazione. Dall’altro, la chiusura definitiva della società aveva reso impossibile la ripresa effettiva dell’attività lavorativa, mantenendo di fatto i lavoratori in una condizione di disoccupazione.

La Corte ha richiamato il principio secondo cui l’indennità di mobilità ha una funzione assistenziale e deve essere erogata ai lavoratori che si trovano in uno stato di bisogno a causa della perdita del lavoro. La mera ricostituzione giuridica del rapporto di lavoro non è sufficiente per negare l’erogazione dell’indennità, se il lavoratore non può realmente riprendere l’attività lavorativa né percepire alcuna retribuzione.

 Ripetibilità delle somme e indebito previdenziale

Uno dei punti centrali della decisione riguarda il concetto di indebito previdenziale. Secondo l’INPS, il ripristino del rapporto di lavoro implica che tutte le somme percepite a titolo di indennità di mobilità durante il periodo successivo alla sentenza di reintegrazione devono essere restituite. La Cassazione, tuttavia, ha chiarito che tali somme non costituiscono un arricchimento ingiustificato per il lavoratore, poiché non vi è stata una ripresa effettiva del lavoro né la percezione di retribuzioni.

Dunque, per la Cassazione, la condizione di disoccupazione cessa solo quando il lavoratore può concretamente svolgere la propria prestazione lavorativa e ricevere la relativa retribuzione. Nel caso di specie, la situazione di fallimento dell’azienda ha impedito che ciò avvenisse, rendendo legittima la percezione dell’indennità di mobilità da parte dei lavoratori. Inoltre, la Corte ha sottolineato che il principio dell’indebito previdenziale non può essere applicato in modo automatico, ma deve essere valutato alla luce delle circostanze specifiche del caso.

 Conclusioni

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha deciso di rimettere gli atti alla Prima Presidente, evidenziando i contrasti giurisprudenziali sulla ripetibilità dell’indennità di mobilità percepita dai lavoratori il cui licenziamento è stato dichiarato illegittimo. Il punto centrale è se la sola reintegrazione formale del rapporto di lavoro giustifichi la restituzione delle somme percepite o se occorra considerare anche l’effettiva ripresa dell’attività lavorativa e delle retribuzioni. Questo dibattito tocca il principio costituzionale di tutela contro la disoccupazione, sancito dall’art. 38, comma 2, della Costituzione, che impone una garanzia effettiva dei sussidi, soprattutto quando la reintegrazione non ha effetti concreti. La decisione delle Sezioni Unite sarà chiarirà questo aspetto.

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