La rinuncia abdicativa: ammissibilità tra diritto civile e amministrativo

in Giuricivile, 2020, 3 (ISSN 2532-201X)

Con il termine “rinuncia abdicativa” si intende far riferimento al negozio dismissivo di un diritto già acquisito nel patrimonio del rinunciante. Si tratta, pertanto, di un atto negoziale unilaterale, il quale produce l’effetto del far fuoriuscire dal patrimonio del rinunciante il diritto oggetto di rinuncia.

Elemento essenziale del negozio in discorso è la sua struttura unilaterale: là dove il negozio sia plurilaterale, si tratterebbe infatti di un ordinario contratto ad effetti reali, traslativo del diritto che ne costituisce oggetto. Per tale motivo, il negozio talvolta definito come “rinuncia traslativa” fuoriesce dal campo d’analisi dei negozi abidicativi, risolvendosi esso in un negozio ad effetti reali con causa variabile (di scambio, anche semplicemente empirico se c’è gratuità, o liberale).

Nel nostro codice vi sono numerosi istituti che possono ricondursi al paradigma della rinuncia abdicativa.

Il primo è la remissione del debito (art. 1236 c.c.). Si tratta, per la ricostruzione prevalente, non già di un atto giuridico in senso stretto, i cui effetti tipici sono disciplinati dalla legge, bensì di un negozio unilaterale rifiutabile, attraverso il quale il creditore dismette il proprio diritto di credito. Analogamente, è negozio dismissivo la remissione del debito di fonte testamentaria (art. 658 c.c.), con cui il testatore, con disposizione a titolo particolare (cd. legato di liberazione da un debito) realizza una remissione, arricchendo il patrimonio del legatario.

Inoltre, la rinunzia costituisce un tradizionale modo di estinzione dei diritti reali di godimento su cosa altrui. Così, attraverso la manifestazione della propria volontà negoziale, il titolare del diritto reale minore dismette la situazione giuridica soggettiva di vantaggio e, conseguentemente, si riespande in tutta la sua pienezza l’originario diritto di proprietà del proprio dante causa (cd. consolidazione del diritto di proprietà)[1].

In relazione alla comunione di diritto reale, inoltre, l’art. 1104 c.c. prevede esplicitamente per il comunista la facoltà di rinunciare al proprio diritto.

Infine, benché non espressamente oggetto di disciplina positiva, si riconosce pacificamente la possibilità di rinunziare al diritto di proprietà di beni mobili attraverso la cd. derelictio, ovvero la manifestazione unilaterale della volontà di dismettere il diritto. Ciò si ricava dal fatto che tra i modi di acquisto della proprietà a titolo originario, l’art. 922 c.c. menziona l’occupazione (art. 923 c.c.), cioè l’atto giuridico in senso stretto con cui il soggetto, manifestando un intento di appropriazione, acquista il diritto di proprietà o della res nullius o della res, per l’appunto, derelicta, cioè da altri dismessa.

Risulta dunque evidente che l’istituto della rinuncia abdicativa trova riconoscimento e spazia dal settore delle obbligazioni a quello dei diritti reali minori, dal caso di comunione al diritto di proprietà mobiliare. Ad essere controversa è, pertanto, non già la astratta configurabilità tout court dell’istituto della rinuncia, bensì la sua ammissibilità in relazione al diritto di proprietà immobiliare.

La differenza con i rifiuti

Per analizzare il dibattito circa la configurabilità di tale istituto è però necessario in via preliminare distinguere l’istituto della rinuncia abdicativa da quello del cd. rifiuto. Come noto, esistono due distinte tipologie di rifiuto previste nel nostro ordinamento: il rifiuto eliminativo e il rifiuto impeditivo[2].

Il primo consiste in una manifestazione di volontà con cui il dichiarante respinge gli effetti giuridici incrementativi già prodottosi nella propria sfera giuridica. In tal modo, si rimuove l’acquisto di un diritto con effetti retroattivi: il diritto acquisito e rifiutato ritornerà nella sfera dell’originario disponente o di un terzo, a seconda della singola tipologia di rifiuto eliminativo di cui si tratti. Costituisce noto esempio di questa categoria il rifiuto che il terzo può operare a fronte del negozio stipulato tra il promittente e lo stipulante nel contratto a favore di terzo (art. 1411 ss. c.c.). Parimenti, è rifiuto eliminativo la manifestazione di volontà che potrebbe operare il terzo beneficiato da un negozio unilaterale gratuito ex art. 1333 c.c. In tal modo, l’ordinamento consente di dare rilevanza alla volontà del terzo beneficiato dal negozio unilaterale altrui, poiché esso non ha avuto modo di esprimere il proprio consenso ex ante rispetto al momento di produzione dell’effetto ultimo del contratto.

Il rifiuto impeditivo, invece, consiste in una manifestazione di volontà volta ad impedire un effetto giuridico incrementativo nel proprio patrimonio: si impedisce l’acquisto di un diritto e non già si eliminano retroattivamente gli effetti già prodottisi in virtù di un negozio cui si è estranei, come nel primo caso. Il diritto oggetto di rifiuto impeditivo, pertanto, rimane nella sfera giuridica dell’originario dichiarante.

La necessità di distinguere l’istituto del rifiuto da quello della rinuncia abdicativa deriva dalla constatazione per cui, talvolta, il legislatore impiega il termine “rinuncia” per descrivere una fattispecie inquadrabile, invece, sub specie di rifiuto, come accade con la cd. rinuncia al legato e con la cd. rinuncia all’eredità.

Gli artt. 649 e 650 c.c., infatti, prevedono espressamente la possibilità rinunciare al legato, eppure, avendo il legatario già acquistato il diritto al momento dell’apertura della successione, la volontà negativa di questi fa sì che il diritto già acquisito ritorni nell’ universum ius defuncti, nel patrimonio del de cuis, trattandosi di rifiuto eliminativo.

Parimenti, la rinuncia all’eredità, di cui agli artt. 519 ss, c.c., impedisce l’acquisto di un diritto (o di un complesso di diritti) nella sfera giuridica del soggetto, con conseguente ricaduta del diritto nell’asse ereditario, alla stregua di un rifiuto impeditivo.

La distinzione, inoltre, aiuta a sottolineare gli effetti propri della rinuncia abdicativa. Quando si ha rifiuto impeditivo, il diritto non fuoriesce dal patrimonio dell’originario potenziale disponente, poiché il trasferimento del diritto è, per l’appunto, impedito dalla dichiarazione del rifiutante; quando si ha rifiuto eliminativo, il diritto, rimuovendosi ex tunc gli effetti reali, ritorna nel patrimonio del disponente o transita in quello di un terzo estraneo. Con la rinuncia abdicativa, il diritto, lungi dal transitare direttamente in altri patrimoni o dal restare in capo al rinunziante, si estingue, si consuma.

Così, negli esempi prima citati: la remissione del debito determina l’estinzione dell’obbligazione; la rinuncia al diritto reale minore ingenera l’effetto riespansivo dell’originaria proprietà (per il cd. principio di elasticità del dominio), la rinuncia al diritto di proprietà mobiliare fa si che la res diventi nullius. In altri termini, la rinuncia, producendo un effetto dismissivo-estintivo, non è capace, logicamente, di produrre un effetto traslativo-derivativo. Ne consegue, di necessità, che gli ulteriori eventuali acquisti del diritto precedentemente rinunziato non possono che essere acquisti a titolo originario.

Le tesi circa l’ammissibilità

Analizzati i tratti essenziali dell’istituto, è ora possibile procedere ad una disamina delle varie tesi in ordine alla ammissibilità della rinuncia abdicativa del diritto reale immobiliare.

Per una prima impostazione, l’istituto è giuridicamente configurabile per una serie di argomenti.

Innanzitutto, il diritto di proprietà, tanto mobiliare quanto immobiliare, rappresenta tradizionalmente uno dei diritti cd. disponibili, in relazione ai quali, come noto, il titolare, nel legittimo esercizio delle proprie facoltà, può scegliere se goderne o meno, se disporne e persino se eliminarlo dalla propria sfera giuridica. L’abbandono dismissivo è pertanto logica conseguenza della disponibilità stessa del diritto. Inoltre, in tal modo si armonizzerebbe, in via sistematica, il trattamento tra diritti di proprietà mobiliare e quelli di proprietà immobiliare.

L’art. 1350 n. 5) c.c. dispone poi la necessità della forma scritta ad substantiam degli “atti di rinuncia ai diritti indicati dai numeri precedenti”, tra cui risalta il numero 1), relativo alla proprietà di beni immobili. Per tale motivo, l’istituto della rinunzia abdicativa al diritto di proprietà immobiliare troverebbe in tale disposizione la propria norma fondante. In modo significativo, l’art. 1350 n. 5) c.c. impiega il termine “atti di rinunzia”, così togliendo il dubbio che il legislatore abbia inteso riferirsi a negozi bilaterali di rinuncia traslativa, i quali, come detto, altro non sono se non contratti traslativi ad effetti reali.

La norma, d’altronde, trova puntuale conferma nell’art. 2643 n. 5) c.c., con cui si assoggetta la rinunzia al regime della trascrizione, per la duplice finalità di assicurarne la pubblicità dichiarativa e di dirimere eventuali conflitti con il titolo di terzi sub-acquirenti. È opportuno rilevare, ad ogni modo, che, non trattandosi di atto traslativo a titolo derivativo, non si eseguirà, come nei casi ordinari, la trascrizione “contro” il dante-causa e “a favore” dell’avente causa; bensì solo la trascrizione “contro” il rinunziante, il quale perde il diritto.

Infine, l’art. 827 c.c. è dirimente per sostenere l’ammissibilità della rinuncia abdicativa della proprietà immobiliare. La norma statuisce infatti che “i beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato”. Ebbene, se non si ammettesse la rinuncia abdicativa, non vi sarebbe possibilità alcuna di rinvenire nell’ordinamento un immobile non appartenente al patrimonio di “nessun” soggetto. Infatti gli immobili circolano: per trasferimenti inter vivos a titolo derivativo; per acquisto a titolo originario (ad es., attraverso l’usucapione) da parte di un soggetto di diritto puntualmente identificato; per trasferimenti mortis causa a titolo universale o particolare. Pur nel caso estremo in cui il de cuius non abbia altri successibili, l’eredità è devoluta di diritto allo Stato ex art. 586 c.c. È dunque impossibile rinvenire nella realtà giuridica un bene immobile vacante, se non a seguito di rinuncia. Non ammettere la rinunziabilità del diritto di proprietà immobiliare costituirebbe pertanto una inammissibile interpretatio abrogans dell’art. 827 c.c.

La rinuncia abdicativa è dunque, per tale tesi, un negozio unilaterale atipico, benché nominato dagli articoli prima citati, il quale produce l’effetto di rimuovere dal patrimonio giuridico del soggetto il diritto rinunciato. Esso sarebbe meritevole di tutela, ex art. 1322, co. 2, c.c., in quanto non è dato rinvenire un contrasto né con il principio di ordine pubblico né con i principi costituzionali nell’atto con cui un soggetto si spoglia di un diritto disponibile. La causa in concreto del negozio, inoltre, pur là dove si persegua il fine di non soggiacere agli obblighi di custodia del bene (derivanti dall’ipotesi di responsabilità oggettiva di cui all’art. 2053 c.c.) o si voglia conseguire un risparmio di imposta, non appare essere violativa né di alcuna norma imperativa né del già ricordato principio di ordine pubblico[3].

Lo Stato, dunque, ai sensi dell’art. 827 c.c., acquista il bene immobile oggetto di rinuncia a titolo originario. Si pone quindi il problema, più politico che non giuridico, di assicurare allo Stato la conoscenza del diritto acquisito, principalmente affinché si possano adempiere gli obblighi di custodia, onde evitare l’eventuale responsabilità extracontrattuale da rovina di edificio.

Per l’impostazione in commento, però, la rinuncia abdicativa è atto unilaterale non recettizio: il momento di perfezionamento della fattispecie coincide con il momento di produzione degli effetti. In altri termini, non serve che la manifestazione di volontà dismissiva sia portata nella sfera di conoscibilità (art. 1334 e 1335 c.c.) dello Stato affinché possano prodursi gli effetti propri dell’atto, coerentemente con la riconosciuta assenza di un trasferimento a titolo derivativo.

Per tale motivo, la comunicazione all’ente pubblico circa l’intervenuta rinuncia, anche se non è necessaria per l’efficacia del negozio, discende o dal principio generale di buona fede o dal dovere generale di neminem laedere: in mancanza, il rinunciante è solidamente responsabile ex art. 2055 c.c. dei danni eventualmente cagionati a terzi[4].

L’opposta tesi, negativa rispetto all’ammissibilità della rinuncia abdicativa, impiega argomentazioni diametralmente opposte. Si tratta di una tesi minoritaria in giurisprudenza, come riconosciuto espressamente dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[5].

Pur non potendo negare che il diritto di proprietà appartenga alla categoria dei diritti disponibili e che, tra le facoltà dei titolari di questi vi sia anche il potere di distruzione della res, è proprio il principio di ordine pubblico ad impedire l’ammisibilità dell’istituto. La rinuncia, in altri termini, sarebbe un negozio, prima ancora che causalmente illecito, immeritevole di tutela. Ciò perché lo Stato non potrebbe farsi carico dei citati obblighi di custodia in relazione ad una serie potenzialmente innumerevole di beni immobili, senza neppure avere la possibilità di rifiutarne l’acquisto.

I citati artt. 1350 n. 5) e 2643 n. 5), inoltre, si riferirebbero non già al negozio atipico di rinuncia immobiliare, ma esclusivamente alle ipotesi tipiche ed eccezionali in cui il legislatore riconosce espressamente la facoltà di rinunziare (artt. 1070 e 1104 c.c.).

Infine, si nega che l’art. 827 c.c. non troverebbe applicazione in caso di inamissabilità della rinuncia abdicativa, poiché il campo di applicazione naturale di tale norma sarebbe l’ipotesi in cui acque fluviali, scorrendo nel corso del tempo, determinino un progressivo accumulo di detriti che, sedimentandosi, determinerebbero l’emersione di un appezzamento terriero: la norma vorrebbe riconoscere la proprietà allo Stato di tale isolotto (sic!), ripetendo peraltro il contenuto dell’art. 945 c.c..

La tesi in discorso, però, relegando l’ammissibilità della rinuncia alle sole ipotesi tipiche disciplinate dalla legge, sovrappone la categoria della rinuncia abdicativa con quella, leggermente differente, della rinuncia liberatoria.

La differenza con la rinuncia liberatoria

Le norme citate (artt. 1070 e 1104 c.c.), con cui il legislatore prevede esplicitamente la facoltà di rinunziare ad un diritto reale, riguardano le ipotesi dell’abbandono liberatorio del fondo servente e della rinunzia del comunista.

L’art. 1070 c.c. stabilisce che “il proprietario del fondo servente, quando è tenuto in forza del titolo o della legge alle spese necessarie per l’uso o per la conservazione della servitù, può sempre liberarsene, rinunziando alla proprietà del fondo servente a favore del proprietario del fondo dominante”. La norma, a prima vista, sembra prevedere una ipotesi di rinuncia abdicativa: il proprietario del fondo servente dismette la proprietà del bene immobile, la quale sarà acquistata dal proprietario del fondo dominante, con estinzione del diritto reale minore di servitù (giacché, per il principio nemini res sua servit, non possono convivere in capo al medesimo soggetto le posizioni attive e passive derivanti da un medesimo diritto di servitù prediale).

Questa lettura, però, svilisce la portata della disposizione in commento, poiché essa prevede un di più rispetto alla mera enunciazione del potere dismissivo del proprietario del fondo servente. Infatti, il presupposto applicativo della disposizione consiste nell’essere tenuto, per il titolo costitutivo o per la legge, alle spese necessarie per l’uso o per il mantenimento del diritto di servitù. Si fa dunque riferimento all’eventualità che il soggetto passivo di una servitù prediale sia il titolare di obbligazioni inerenti al diritto reale minore (cd. obbligazioni propter rem) ex art. 1030 c.c..

Ebbene, l’art. 1070 prevede eccezionalmente la facoltà del titolare del fondo servente di liberarsi di tali obbligazioni (come risulta d’altronde dal tenore letterale della disposizione, la quale espressamente statuisce, in relazione alle obbligazioni in commento e non già alla proprietà, la facoltà di “liberarsene” ).

La norma configura pertanto un eccezionale modo di estinzione dell’obbligazione (propter rem) basato sulla manifestazione unilaterale di volontà da parte del soggetto debitore. L’eccezionalità della previsione consiste nel fatto che la volontà unilaterale del debitore non è in generale sufficiente a determinare l’estinzione di una obbligazione già sorta. Ciò perché da un lato, essa non è prevista nel Capo V del Titolo I del Libro Iv (dei modi di estinzione delle obbligazioni diversi dall’adempimento) e, dall’altro, ammettere una sorta di ius poenitendi generalizzato in capo al debitore inficerebbe in radice la serietà dell’impegno negoziale e la tutela coattiva del credito.

Pertanto, secondo una accreditata interpretazione, la norma di cui all’art. 1070 c.c. dovrebbe leggersi in tal modo: il titolare del fondo servente, per liberarsi delle obbligazioni propter rem, eccezionalmente, può rinunziare alla proprietà del fondo stesso “a favore” del titolare del fondo dominante. Si ha, pertanto, una offerta di acquisto, a titolo gratuito, del fondo servente. Se il titolare del fondo dominante accetta, si ha contratto a titolo gratuito, con causa di scambio derivante dal vantaggio empirico che ne trae il soggetto passivo della servitù, ad effetti reali. Si ha, dunque, un caso di rinuncia cd. traslativa, che abbiamo detto appartenere alla tradizionale categoria dei contratti traslativi ad effetti reali. Se, invece, il titolare del fondo dominante non accetta l’offerta di acquisto, il rinunziante è eccezionalmente liberato dalle proprie pregresse obbligazioni e la propria manifestazione di volontà vale quale rinuncia abdicativa del diritto di proprietà immobiliare. Conseguentemente, il fondo sarà acquistato dallo Stato a titolo originario ex art. 827 c.c., con estinzione degli obblighi reali.

In altri termini, la norma presuppone una generalizzata ammissibilità della rinunzia abdicativa, e statuisce l’effetto ulteriore della liberazione dalle obbligazioni. Per tale motivo, la disposizione è sì da intendersi come eccezionale, e quindi non fondante un principio generale, ma non già perché ammette la facoltà di rinunziare, quanto piuttosto perché prevede un altrimenti inedito modo di estinzione unilaterale dell’obbligazione.

Ad analoghe conclusioni si giunge analizzando l’art. 1104 c.c. Tale disposizione prevede, al primo comma, che “ciascun partecipante [alla comunione] deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune … salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”. Pertanto, il comunista che intenda liberarsi delle spese derivanti dalla propria quota di comproprietà – e cioè dalla situazione passiva discendente da obbligazioni propter rem già perfette – può fare rinunzia al proprio diritto di proprietà immobiliare (riferito alla quota di spettanza). Anche in tal caso, l’eccezionalità della previsione non risiede nell’attribuzione della facoltà di rinuncia, bensì nella possibilità di liberarsi unilateralmente da un vincolo obbligatorio già sorto.

In altri termini, con la rinuncia liberatoria non ci si libera solo del diritto di proprietà, come avviene con la rinuncia abdicativa, ma ci si libera, unilateralmente, da obbligazioni reali.

Per tale motivo, la riconosciuta eccezionalità di tali norme non esclude che si possa ammettere un atipico, in quanto non disciplinato compiutamente, negozio unilaterale non recettizio, semplicemente dismissivo del diritto reale immobiliare.

La rinuncia nelle procedure espropriative

Chiarito in tal modo il dibattito civilistico in ordine alla ammissibilità della rinuncia abdicativa del diritto reale immobiliare, è necessario ora calare tali argomenti nel diverso settore del diritto amministrativo, in particolare nel contesto delle procedure espropriative (ora disciplinate dal D.P.R. 327/2001).

Ebbene, l’istituto della rinuncia abdicativa ha trovato particolare terreno d’applicazione quando, prima dell’entrata in vigore dell’attuale art. 42-bis del D.P.R. citato, la giurisprudenza tentava di sanare le invalidità verificatesi durante una procedura di esproprio.

Come noto, la procedura espropriativa si distingue, secondo una vertiginosa esemplificazione, in almeno tre fasi differenti: prima si appone una previsione di localizzazione nel piano regolatore generale, per identificare i fondi o i beni oggetto di espropriazione; poi si dichiara la pubblica utilità, come richiesto dalla norma costituzionale in materia (art. 42, co. 3, Cost.), determinando l’indennizzo che spetta al privato; infine si emana il decreto di esproprio, il quale determina l’acquisto del bene in capo alla pubblica amministrazione espropriante. Si tratta di tre autonome fasi del complesso procedimento di espropriazione: ciascuna termina con l’adozione di un provvedimento autonomamente impugnabile dal privato.

In linea teorica, qualora la pubblica amministrazione occupi un bene privato, senza aver concluso o senza aver validamente concluso la procedura sopra esposta, questa compie un atto non iure lesivo dell’interesse legittimo oppositivo del privato: sorge, dunque, in capo alla p.a., un obbligo di risarcimento ai sensi dell’art. 2043 c.c. È chiara, pertanto, in astratto, la tutela che spetta al privato.

Questi ha diritto, in virtù dei principi generali in materia di responsabilità: (1) alla restituzione del bene illegittimamente occupato, ad esempio il proprio fondo; (2) al ripristino dello status quo antea rispetto ad eventuali modificazioni e trasformazioni apportate dalla p.a., ad esempio con la demolizione dell’opera realizzata dall’amministrazione; (3) al risarcimento del danno (patrimoniale e non) patito in conseguenza dell’illecito. Inoltre, quale conseguenza della regola generale dell’accessione (artt. 934 ss. c.c.), il privato acquista l’eventuale opera costruita sopra il proprio suolo (poiché, come è noto, superficies solo cedit).

In passato, però, la giurisprudenza, al fine di evitare le conseguenze dannose per le amministrazioni che avessero occupato beni senza il puntuale rispetto delle regole della procedura espropriativa, aveva elaborato delle soluzioni volte ad evitare che il privato potesse richiedere le tre forme di tutela prima citate.

In questo contento, quindi, sorse la teorica della cd. occupazione acquisitiva, per i casi in cui la p.a. avesse validamente emanato un provvedimento dichiarativo della pubblica utilità dell’opera da realizzare, iniziando l’attività di edificazione, ma non avesse altresì adottato un valido provvedimento di esproprio (mancata adozione tout court; adozione fuori i termini massimi consentiti dalle regole in materia di procedimenti espropriativi o, infine, adozione di un provvedimento per altri motivi affetto da invalidità)[6].

Attraverso una applicazione estensiva dell’art. 938 c.c. (cd. accessione invertita), la conclusione operativa era la seguente: in deroga ai principi generale dell’accessione, sarebbe stata la pubblica amministrazione ad acquisire la proprietà del suolo privato – pur occupato in assenza di un provvedimento valido – e non già il contrario. Pertanto il privato non avrebbe potuto richiedere né la restituzione del fondo, di cui ormai non era più titolare, né il ripristino della situazione precedente all’illecito, e cioè la distruzione dell’opera pubblica. Spettava a costui il solo diritto al risarcimento, in forma generica, del danno patito.

Si giungeva a tale conclusione valorizzando l’intervenuta (e valida) dichiarazione di pubblica utilità: l’interesse pubblico alla costruzione dell’opera non avrebbe potuto cedere rispetto all’esigenza del privato, tutta individuale, di salvaguardare il proprio interesse legittimo al rispetto di una valida procedura di esproprio.

Là dove invece non ci fosse una dichiarazione di pubblica utilità (anche in tal caso per mancata emanazione del relativo provvedimento; per adozione di questo oltre i termini consentiti o nel caso di adozione di un provvedimento viziato), si elaborò la diversa teoria della cd. occupazione usurpativa. Questa diversa ricostruzione non solo giustificava l’applicabilità di una disciplina differenziata rispetto al primo caso (giurisdizione del giudice ordinario e diverso decorso del termine di prescrizione[7]), ma fondava la situazione di fatto in cui si è iniziato ad applicare l’istituto della rinuncia abdicativa.

A ragione della mancata adozione di una dichiarazione di pubblica utilità, non si poteva applicare l’art. 938 c.c. e non vi era spazio per una ricostruzione interpretativa basata sull’utilità generale dell’opera pubblica. Pertanto, alcune sentenze negarono le pretese restitutorie e ripristinatorie del privato attraverso la valorizzazione degli artt. 2058 c.c. e 2933, co. 2 c.c. (i quali impediscono il risarcimento in forma specifica o l’esecuzione forzata in forma specifica, rispettivamente, in caso di reintegrazione eccessivamente onerosa o di esecuzione di pregiudizio all’economia nazionale).

Altre invece, che in questa sede interessano, reputarono che la domanda di risarcimento presentata dal privato, il cui fondo era stato illegittimamente occupato, se parametrata al valore venale del bene, avesse altresì implicato una rinuncia abdicativa – implicita – al diritto di proprietà immobiliare.

In altri termini, il privato il quale chiedeva il risarcimento per il valore venale del bene occupato dalla p.a., avrebbe manifestato con tale richiesta anche la volontà – ulteriore ed implicita – di rinunziare alla proprietà del bene stesso.

In tal modo, il bene sarebbe stato acquisito dalla pubblica amministrazione espropriante. Così si giustificava l’acquisto in proprietà del bene in capo alla p.a., non potendo in questa sede operare la ricordata regola della accessione invertita. Conseguentemente, il privato non avrebbe avuto titolo per chiedere la restituzione del bene (ormai non più in sua proprietà), né tantomeno il ripristino dello stato dei luoghi mediante la demolizione dell’opera pubblica eventualmente costruita.

Orbene, le teorie della occupazione acquisitiva e dell’occupazione usurpativa, di cui si è tentata una spiegazione, non sono più attuali, e la stessa terminologia impiegata è ormai desueta (non fosse altro, per la indistinta attribuzione della materia al giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, artt. 7 e 133, lett. g), c.p.a.).

Ciò perché la Corte europea dei diritti dell’uomo[8] ha reputato tali teoriche incompatibili con il sistema di tutele spettanti al privato: non solo veniva di fatto “premiata” la pubblica amministrazione che, mediante la commissione di un illecito (occupazione, senza titolo o illegittima, del suolo) acquisiva la proprietà, ma ciò avveniva in assenza di una base legale certa di riferimento. In altri termini, tali teorie erano frutto di una imprevedibile applicazione giurisprudenziale di regole eccezionali, ed in tal modo il privato non avrebbe potuto avere contezza delle ripercussioni negative della sua condotta in punto di difesa processuale, mortificandosi così il principio di garanzia e il diritto di proprietà.

Eppure, la domanda di risarcimento del danno, parametrata al valore venale del bene, è stata continuativamente interpretata dalla giurisprudenza come contenente, in via implicita, un atto negoziale dismissivo della proprietà del bene stesso. Da qui, pur senza applicazione dei citati artt. 938, 2058 e 2933 c.c., il privato che agiva in giudizio per la sola tutela risarcitoria avrebbe corso il rischio di vedere qualificata la propria domanda come contenente una rinuncia abdicativa del bene rispetto al quale si chiedeva il risarcimento del danno.

La materia, oggi, è regolata dall’art. 42-bis del D.P.R. 327/2001, il quale statuisce che “valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità [quindi per i casi ricondotti in precedenza tanto nella teorica dell’occupazione usurpativa quanto in quella dell’occupazione acquisitiva], può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale”. In altri termini, se la procedura di esproprio è viziata, la p.a. può, con provvedimento amministrativo, acquistare la proprietà del bene illegittimamente occupato e limitarsi a risarcire i danni al privato.

Si tratta di un provvedimento altamente discrezionale (come confermato dalla circostanza che occorra valutare gli interessi in conflitto, oltre che dall’utilizzo del termine “può”), con cui si assicura al privato un ristoro maggiore, in termini strettamente economici, di quello che deriverebbe da un ordinario indennizzo, potenzialmente fonte di ripercussioni negative in capo all’autorità espropriante (il provvedimento è comunicato, ai sensi del comma 7, alla Corte dei Conti, la quale può, se del caso, procedere per il danno erariale derivante da tale esborso maggiore).

La norma in commento, pertanto, configura una nuova forma di espropriazione, in cui, a differenza del passato, non viene sanato un “illecito” della pubblica amministrazione: infatti il bene è acquistato dalla p.a. “non retroattivamente” e, per il periodo di illecita occupazione viene corrisposto un risarcimento, per la perdita del diritto di proprietà ex nunc viene corrisposto un indennizzo.

Inoltre, il provvedimento in discorso può essere adottato anche se sia già intervenuto l’annullamento giurisdizionale dell’atto espropriativo viziato e persino se il giudizio circa tale annullamento sia ancora pendente (art. 42-bis, co. 2).

Si è citata questa norma perché essa è rilevante nel comprendere le critiche che sono state mosse, nel contesto del diritto amministrativo, all’ammissibilità dell’istituto della rinuncia abdicativa[9].

Infatti, oltre alle critiche già esposte di stampo eminentemente civilistico, si è detto che, nel diritto amministrativo, ritenere che la domanda di risarcimento del danno contenga anche una rinuncia implicita al diritto di proprietà è operazione interpretativa totalmente illogica: pur ammettendo la rinunziabilità di un diritto reale immobiliare, il bene sarebbe acquistato dallo Stato a titolo originario in virtù del ricordato art. 827 c.c. Ma lo Stato non è anche l’amministrazione espropriante (sicché questa dovrebbe acquistarlo dal primo).

Se invece si vuole sostenere che la p.a. espropriante acquisti in via diretta l’immobile, occorrerà sostenere che trattasi di acquisto a titolo derivativo e, dunque, nella asserita rinuncia dovrebbe vedersi un contratto, rispetto al quale manca il consenso della amministrazione. Si tratterebbe, in altri termini, di una rinuncia traslativa, la quale abbiamo detto più volte appartenere alla ordinaria categoria dei contratti ad effetti reali.

Inoltre, è lo stesso art. 42-bis del D.P.R. 327/2001 a negare l’ammissibilità della rinuncia abdicativa. Si tratta, infatti, come detto, di un provvedimento altamente discrezionale, che solo l’amministrazione può, valutati gli interessi in gioco, scegliere di adottare. Se si riconoscesse al privato la possibilità di rinunciare al diritto reale immobiliare, la pubblica amministrazione espropriante verrebbe privata della facoltà di operare una scelta discrezionale; la volontà di quest’ultima in ordine all’acquisto della proprietà del bene – volontà finalizzata alla tutela del miglior interesse pubblico – sarebbe in altri termini subordinata alla volontà del privato.

Infine, poiché l’art. 42-bis disciplina un particolare procedimento espropriativo per l’eventualità che sia viziata la procedura d’esproprio, in tale norma si sarebbe dovuto disciplinare anche l’acquisto della proprietà derivante da una rinunzia del privato, ma così non è.

Pertanto, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato[10] ha recentemente negato ogni possibilità di rinvenire, nella domanda risarcitoria del privato, una rinuncia abdicativa implicita al diritto di proprietà immobiliare. Ciò essenzialmente per tre motivi.

Da un primo punto di vista, l’istituto della rinuncia abdicativa non spiega la vicenda traslativa in capo all’autorità espropriante, poiché, come ricordato, i beni immobili che non sono di alcuno spettano allo Stato, in via originaria, per il disposto di cui all’art. 827 c.c.

In secondo luogo, non è possibile rinvenire nella domanda di risarcimento del danno una rinunzia “implicita”: la domanda risarcitoria è materialmente redatta da un difensore, sicché non si può ritenere che questi possa manifestare implicitamente la volontà di dismettere il diritto reale, non essendo un rappresentante negoziale, un procuratore sostanziale del titolare del diritto stesso.

Infine, l’inammissibilità della categoria dipende dal suo mancato inserimento nel contesto dell’art. 42-bis, norma che disciplina il provvedimento di esproprio per il caso di occupazione illegittima del bene privato. Dalla mancata indicazione normativa si evince la totale assenza di base legale dell’istituto, in un contesto in cui il principio di legalità richiede che il potere sfavorevole rispetto al privato trovi la propria legittimazione in una norma positiva di rango primario.

È bene rilevare, ad ogni modo, che l’Adunanza Plenaria, pur negando cittadinanza all’istituto nel contesto delle procedure espropriative, riconosce, in obiter, che nel diritto civile la rinuncia abdicativa è ammessa dalla dottrina prevalente.

Da qui il principio di diritto enunciato: “per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis, l’illecito [derivante dall’occupazione illegittima del bene] dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata”.


[1] Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Esi, 18°, pp. 252-253.

[2] Su cui, v. F. Gazzoni, cit., p. 871.

[3] Vedasi sul punto, M. Moccia, Rinunzia alla proprietà: natura ed effetti, in Questa Rivista, 9.10.2018.

[4] Sul punto, v. G. Sicchiero, Rinuncia (I agg.), in Dig. civ., 2014, pp. 22 ss.

[5] Cfr. Ad. Plen., 20.01.2020, n. 2, § 1.

[6] Per una disamina completa, v. R. Chieppa-R. Giovagnoli, Diritto amministrativo, Giuffrè, 4°, pp. 1131 ss.

[7] Cfr.. E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Giuffrè, 19°, pp. 390 ss.

[8] Per tutte, v. sent. 30.05.2000, ric. n. 24638/94, Carbonara e Ventura.

[9] Cons. Stato, ord. 30.07.2019, n. 5391.

[10] Ad. Plen., 20.01.2020, nn. 2-3.

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