Ai sensi del terzo comma dell’art. 2383 c.c., dettato in materia di società per azioni, “Gli amministratori sono rieleggibili, salvo diversa disposizione dello statuto, e sono revocabili dall’assemblea in qualunque tempo, anche se nominati nell’atto costitutivo, salvo il diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa.”
La norma in questione, dopo aver stabilito ai commi precedenti che gli amministratori di s.p.a. sono nominati dall’assemblea o, nel caso di prima nomina, nell’atto costitutivo, e che possono durare in carica per un massimo di tre esercizi, attribuisce all’assemblea dei soci un diritto potestativo di revoca dei soggetti incaricati dell’amministrazione attraverso una forma di recesso ad nutum dal rapporto che lega gli stessi alla società, diritto esercitabile in qualsiasi tempo anche in assenza di motivazione[1].
A ben vedere è possibile considerare la norma in oggetto come sintesi delle norme che regolano la facoltà di revoca del mandato prevista a favore del mandatario in materia di rapporti di mandato in generale.
Benché, infatti, a seguito della modifica del diritto societario, intervenuta ad opera del d.lgs. n. 6/2003, l’opinione prevalente ritenga superata la qualificazione del rapporto tra amministratore e società come rapporto di mandato, è fuor di dubbio il fatto che permangono alcune analogie nella disciplina codicistica dei tipi di rapporto suddetti dovute all’impianto originario del codice civile (cfr. art. 2392 c.c. nel testo ante riforma del 2003), che, al pari di quanto disposto sul punto dal codice di commercio del 1882, riconduceva espressamente alla categoria del mandato i rapporti amministratore/società.
Ai sensi dell’art. 1723 c.c. al mandante è conferita facoltà di recedere unilateralmente dal contratto di mandato con efficacia ex nunc [2], salvo il caso in cui sia stata pattuita l’irrevocabilità del mandato o lo stesso sia stato conferito anche nell’interesse del mandatario, ipotesi nelle quali è necessario che la revoca sia sostenuta da una giusta causa, pena: in un caso l’obbligo per il mandante di risarcire i danni provocati al mandatario, nell’altro l’inefficacia della revoca.
L’art. 1725 c.c., poi, in tema di revoca del mandato oneroso, dispone che il mandato conferito per un tempo determinato o per un determinato affare obbliga il mandante a risarcire i danni in caso di revoca intervenuta prima della scadenza del termine o del compimento dell’affare, salvo che ricorra una giusta causa.
Le norme richiamate sono frutto della ricerca, da parte del legislatore, di un punto di equilibrio tra la posizione del mandante, nel cui interesse il mandatario svolge la propria opera, e quella del mandatario stesso, il quale, nelle ipotesi di mandato conferito in rem propriam e di mandato oneroso, ha a sua volta un interesse alla stabilità del rapporto di mandato.
La ratio della revoca concessa all’assemblea
Ciò detto, è agevole rintracciare la ratio sottesa alla facoltà di revoca discrezionale concessa all’assemblea di s.p.a. nei confronti dell’amministratore dall’art. 2383 c.c. che, al pari della ratio posta a base dell’art. 1725 c.c., può essere individuata nella volontà del legislatore di conferire al titolare dell’interesse perseguito con l’instaurazione del rapporto di mandato la possibilità di sciogliersi in ogni momento da tale rapporto in base ad una propria insindacabile valutazione.
In altre parole, posto che l’interesse perseguito è, come detto, riconducibile al mandate, l’ordinamento concede a questi la facoltà di compiere in ogni momento una nuova valutazione circa l’opportunità e il vantaggio del perseguimento di tale interesse attraverso il rapporto di mandato. All’esito di tale valutazione, dunque, in ogni tempo il mandate può esercitare il proprio diritto (potestativo) di revoca del mandato.
Sulla base della ricostruzione di cui sopra è del pari agevole riconoscere nella finalità di tutela del legittimo affidamento che il mandatario pone nella stabilità del rapporto di mandato – quando esso è conferito anche nel suo interesse o a titolo oneroso – la ratio della previsione, contenuta nello stesso art. 2383 c.c., secondo cui, qualora la cessazione anticipata del rapporto instauratosi tra società ed amministratore (o tra mandante e mandatario) a seguito del conferimento dell’incarico non sia sostenuta da una giusta causa, la società è tenuta a risarcire i danni subiti da quest’ultimo in conseguenza della revoca[3].
Ai sensi della norma in oggetto, quindi, l’insussistenza di una giusta causa posta a base della delibera assembleare che dispone la revoca dell’amministratore di s.p.a. non incide in alcun modo sull’efficacia e sulla validità della stessa, determinando in capo alla società esclusivamente il sorgere di un dovere risarcitorio nei confronti dell’amministratore destituito.
Con maggiore sforzo esplicativo può dirsi che, considerato che dalla caducazione anticipata del rapporto con la società l’amministratore subisce certamente una lesione dal punto di vista economica, pari almeno a quanto gli sarebbe spettato a titolo di retribuzione dal momento della revoca a quello della fine naturale dell’incarico, l’art. 2383 c.c. prevede che le ripercussioni economiche negative di tale lesione siano traslate sulla società che l’abbia provocata in assenza di una giusta causa.
Chiarito, dunque, che la sussistenza di una giusta causa di revoca determina esclusivamente uno spostamento delle conseguenze economiche negative dell’interruzione anticipata del rapporto che lega società ed amministratore in capo alla prima, risulta opportuno individuare, attraverso l’esame della giurisprudenza che si è formata sul punto, la portata che il termine giusta causa assume all’interno della norma in analisi.
La giusta causa di revoca dell’amministratore di s.p.a.
Un primo punto fermo posto dalla giurisprudenza in tema di giusta causa di revoca dell’amministratore di s.p.a. è quello in base al quale non è necessario, ad integrare la fattispecie in oggetto, un inadempimento dell’amministratore relativo ai sui doveri nei confronti della società, essendo sufficiente che si sia determinata per qualsiasi causa una rottura del pactum fiduciae che lega i soggetti in questione, “…elidendo l’affidamento riposto al momento della nomina sulle attitudini e capacità dell’amministratore…”[4].
Il pactum fiduciae sulla base del quale ha luogo la nomina dell’amministratore da parte della compagine sociale, infatti, oltre a sussistere al momento del conferimento dell’incarico si ritiene debba permanere per l’intera durata del rapporto, dato il ruolo di rappresentante della società verso l’esterno attribuito dall’art. 2384 c.c. all’amministratore, e il potere di gestione esclusiva dell’impresa allo stesso conferito dall’art. 2380-bis c.c.
Essendo, dunque, unico elemento determinate ai fini della configurazione della giusta causa di revoca ex art. 2383 c.c. la definitiva compromissione del pactum fiduciae che lega amministratore e società, non solo l’eventuale inadempimento di cui l’amministratore si è reso responsabile non è, come detto, condizione necessaria a tale revoca, potendo l’amministratore essere revocato benché non sia incorso in alcun inadempimento dei doveri derivanti dalla carica, bensì tale circostanza non dovrebbe neppure essere condizione sufficiente a configurare la giusta causa in oggetto. È infatti ipotizzabile che inadempimenti di modesta rilevanza, le cui modalità non sono oggettivamente idonee a minare la fiducia che la compagine sociale ripone nell’amministratore (anche a fronte dell’eventuale prova delle proprie capacità che il soggetto abbia dato precedentemente all’inadempimento) non integrino i requisiti della giusta causa ex art. 2383 c.c.
La giusta causa soggettiva e oggettiva
Risulta sin da subito evidente la differenza tra la nozione di giusta causa contenuta nell’art. 2383 c.c. e quella di cui all’art. 2119 c.c., dettato in tema di recesso dal rapporto di lavoro subordinato (cui una parte minoritaria della dottrina aveva ritenuto di poter ricondurre il contratto che lega amministratori e società[5]).
Per ciò che attiene quest’ultima norma, infatti, la giurisprudenza ha reputato opportuno collegare la nozione di giusta causa di licenziamento alla violazione, da parte del lavoratore subordinato, dei doveri di fedeltà, correttezza e buona fede rintracciabili negli artt. 2105, 1175 e 1375 c.c., ammettendo, dunque, la legittimità del licenziamento per giusta causa in tutti i casi in cui la condotta del lavoratore risulti in contrasto con i suddetti doveri[6].
Differentemente, per quanto concerne la revoca dell’amministratore di s.p.a., vista la maggiore intensità dell’intuito personae che lega questi alla società rispetto al rapporto di fiducia che lega il datore di lavoro al lavoratore subordinato – circostanza derivante dal diverso ruolo attribuito ai due soggetti all’interno dei rispettivi rapporti -, la giurisprudenza ha stabilito che risulta sostenuta da giusta causa la revoca dell’amministratore nei confronti del quale sia venuta a mancare la fiducia della compagine sociale a causa di qualsiasi evento sopravvenuto alla nomina, finanche quando tale evento non sia in alcun modo riconducibile ad una condotta del ridetto amministratore ma sia esterno alla volontà dello stesso[7].
Posto, dunque, che il venir meno dell’intutito personae nei confronti dell’amministratore per qualsiasi ragione – purché basato su fatti “…oggettivamente valutabili come capaci di mettere in forse la correttezza e le attitudini gestionali dell’amministratore revocato…”[8] – legittima la revoca per giusta causa da parte della società, in dottrina e giurisprudenza si è teorizzata la distinzione tra:
- giusta causa soggettiva di revoca, sussistente in tutte le ipotesi nelle quali la destituzione dell’amministratore consegue a gravi inadempimenti dello stesso, alla violazione dei doveri di diligenza, o al compimento di atti contrari alla legge;
- giusta causa oggettiva di revoca, integrata dal sopravvenire “…di circostanze che, al di fuori di un inadempimento dell’amministratore agli obblighi di legge, non consentono la prosecuzione del rapporto, neanche in via temporanea, operando in modo tale da ostacolare la funzione economico giuridica del rapporto ed impedendo in definitiva alla società di realizzare i propri interessi.”[9]
La revoca per giusta causa ex art 2930 cc
Accanto alle ipotesi appena citate si segnala l’ipotesi di revoca per giusta causa legislativamente tipizzata dall’art. 2390 c.c., il quale prevede la legittimità della revoca dell’amministratore che, violando il divieto di concorrenza previsto dalla medesima norma, assuma la qualità di socio illimitatamente responsabile in società concorrenti o eserciti un attività in concorrenza con quella della società per conto proprio o di terzi o, ancora, assuma la carica di amministratore o direttore generale in società concorrenti.
Tale ipotesi si ritiene comunque riconducibile ad un caso di revoca per giusta causa soggettiva, stante la condotta attiva richiesta dall’amministratore per integrare la fattispecie, in violazione di una norma di legge positiva.
In ogni caso, si rileva che il mero dissenso dell’amministratore rispetto alle scelta gestionali dei soci non è di per sé sufficiente a legittimare una sua revoca per giusta causa, essendo comunque necessario un “quid pluris”[10], ovvero l’emersione di circostanze che consentano al Giudice un controllo oggettivo sul venir meno dell’affidamento che la compagine sociale poneva nei confronti dello stesso.
Giusta causa soggettiva e oggettiva: i precedenti giurisprudenziali
Sulla base di quanto detto è stata, ad esempio, ritenuta sostenuta da giusta causa soggettiva la revoca disposta dalla società nei confronti dell’amministratore:
- che abbia aderito ad un patto parasociale che rimette le scelte gestorie alla volontà maggioritaria dei relativi contraenti (cosiddetto sindacato di gestione)[11];
- che abbia compiuto atti estranei all’oggetto sociale[12];
- che abbia distratto somme destinate alla società[13];
- che abbia omesso di rendere informazioni circa la cessione di un rilevante ramo d’azienda[14].
Ipotesi nelle quali, invece, la giurisprudenza ha ritenuto sussistente una giusta causa oggettiva di revoca sono:
- lo scioglimento anticipato della società[15];
- le precarie condizioni fisiche dell’amministratore o una sua malattia di lungo corso[16];
- l’instaurazione da parte dell’amministratore di una controversia nei confronti della società che abbia creato un dannoso antagonismo tra le parti[17].
È a questo punto utile rilevare che in alcune particolari fattispecie, pur in assenza di una revoca espressa dell’amministratore, la giurisprudenza ha ricondotto gli atti della società che determinano in vario modo la cessazione della carica di uno o più amministratori ad un’ipotesi di revoca tacita o implicita, integrante pertanto la fattispecie di cui all’art. 2383 c.c., con conseguente onere a carico della società del risarcimento dei danni in assenza di giusta causa.
Così la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che “Allorchè una società di capitali abbia deliberato la riduzione del numero dei componenti del consiglio di amministrazione, la riconducibilità di tale atto ad una più ampia direttiva generale emessa nell’ambito del gruppo societario di appartenenza, non vale ad escludere che sia configurabile una revoca dell’amministratore in esubero, in quanto le iniziative, anche legittime, dell’assemblea, che incidano, direttamente od indirettamente, sul termine originariamente fissato nella nomina, determinano il diritto al risarcimento del danno, allorchè la revoca sia avvenuta senza giusta causa”[18].
Abuso della clausola statutaria simul stabunt simul cadent
Discorso analogo è stato compiuto dalla giurisprudenza di merito in relazione all’abuso dell’utilizzo della clausola statutaria simul stabunt simul cadent in forza della quale la cessazione di alcuni amministratori implica l’automatica cessazione dell’intero consiglio di amministrazione.
Benché la clausola in oggetto sia pienamente legittima ed espressamente contemplata dal legislatore al quarto comma dell’art. 2386 c.c., è tuttavia possibile che la stessa venga utilizzata dalla società esclusivamente per ottenere l’effetto di far cessare dalla carica uno o più amministratori senza incorrere nell’obbligo di risarcire gli eventuali danni provocati in assenza di giusta causa. In tale ipotesi “…la clausola simul stabunt simul cadent opererebbe come un negozio indiretto, teso all’utilizzo di un determinato modello negoziale per realizzare uno scopo che corrisponde non già alla causa tipica dello stesso, bensì a quella di un altro tipo negoziale, consentendo la realizzazione di un effetto “simulato” immediato che non solo non sarebbe realizzabile mediante alcun “tipo” giuridico, ma che comunque corrisponderebbe a un interesse giuridicamente non meritevole di tutela”[19] e, conseguentemente, laddove sia riscontrata l’assenza di giusta causa, sia in senso oggettivo che soggettivo, la società resterebbe comunque esposta all’obbligo risarcitorio nei confronti dell’amministratore anticipatamente cessato dalla carica.
Revoca della delega dell’amministratore
Concludendo sul punto, si rileva che parte della giurisprudenza ha ritenuto applicabile in via analogica l’art. 2383 c.c. anche alla fattispecie di revoca della delega posseduta dall’amministratore da parte del consiglio di amministrazione[20].
La giurisprudenza in oggetto, individuando un’identità di ratio tra l’ipotesi di revoca dell’amministratore da parte dell’assemblea dei soci e quella di revoca della delega da parte del consiglio di amministrazione – sulla base della considerazione secondo cui entrambe le suddette fattispecie presentano come elemento determinate il venir meno della fiducia dell’organo revocante nei confronti dell’amministratore revocato – ha ritenuto che, anche in quest’ultima ipotesi, trovando applicazione in via analogica il ridetto art. 2383 c.c., la revoca della delega in assenza di giusta causa determini in capo all’amministratore un diritto al risarcimento dei danni subiti.
In tale fattispecie i suddetti danni possono consistere, nel caso in cui l’amministratore raggiunto dalla revoca della delega sia rimasto comunque in carica, nella perdita di quella parte di remunerazione percepita proprio in virtù dell’esercizio della delega detenuta.
Danni risarcibili all’amministratore revocato in assenza di giusta causa
Delimitata la portata del concetto di giusta causa in tema di revoca dell’amministratore di s.p.a. ex art. 2383 c.c. è adesso necessario passare ad analizzare l’aspetto relativo alle categorie di danni risarcibile all’amministratore revocato.
Il testo della disposizione in esame prevede genericamente “…il diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni, se la revoca avviene senza giusta causa.”, senza null’altro stabilire in merito alla tipologia dei danni risarcibili.
Sarà dunque necessario far riferimento alle norme dettate in materia di risarcimento dei danni derivanti da responsabilità de inadempimento, posto che al rapporto che lega amministratori e società è pacificamente attribuita natura contrattuale[21].
Il risarcimento del danno da lucro cessante
In particolare la norma cui è necessario fare riferimento è l’art. 1223 c.c., a mente del quale il risarcimento del danno derivante da inadempimento o ritardo nell’adempimento del contratto deve comprendere tutti i danni (danno emergente e lucro cessante) che siano conseguenza immediata e diretta di tali condotte.
Sulla base di tale ricostruzione è stato pacificamente accolto dalla costante giurisprudenza di legittimità e di merito il principio secondo cui l’amministratore revocato in assenza di giusta causa ha diritto al risarcimento del danno da lucro cessante consistente nella mancata percezione dei compensi per l’attività di amministratore nel c.d. periodo differenziale, ovvero nel periodo compreso tra l’intervento della revoca e la scadenza naturale della carica[22].
Si evidenza, però, che in alcuni casi i Giudici hanno ridotto il quantitativo di risarcimento accordato all’amministratore sulla base delle occasioni economiche che lo stesso è riuscito a sfruttare nel periodo differenziale anche in conseguenza della cessazione dalla carica[23]; nonché, in via equitativa, “…tenendo conto anche dei correlativi vantaggi patrimoniali in termini di risparmi di spese e di energie lavorative…”[24].
Danni all’immagine e alla professionalità dell’amministratore revocato
Questione controversa in giurisprudenza è invece quella della risarcibilità in capo all’amministratore dei danni, ulteriori rispetto a quelli da lucro cessante suddetti, comunque subiti a seguito della revoca ingiustificata ed, in particolare, dei danni all’immagine ed alla professionalità che potrebbero prodursi in capo al soggetto revocato in conseguenza dell’interruzione anticipata del rapporto societario.
A ben vedere la questione concerne la riconducibilità di tali danni in via immediata e diretta, ex art. 1223 c.c., all’atto di revoca senza giusta causa.
La giurisprudenza di legittimità ha dimostrato una tendenzialmente apertura nei confronti del riconoscimento del diritto, in capo all’amministratore, al risarcimento dei danni derivanti dalla revoca decisa dalla società in assenza di giusta causa, diversi ed ulteriori rispetto a quelli concernenti le retribuzioni non percepite a seguito della cessazione del rapporto[25], tuttavia nella quasi totalità delle ipotesi la risarcibilità in concreto di tali danni è stata esclusa a causa del difetto di una prova puntuale relativa alla sopportazione dei ridetti ulteriori danni, nonché, in altre fattispecie, a causa dell’insufficiente dimostrazione del rapporto di causalità tra danni e revoca ingiustificata[26].
A fare chiarezza sull’argomento della revoca dell’amministratore di s.p.a. ed, in particolare, sulla tipologia dei danni risarcibili nelle ipotesi sopracitate, è di recente intervenuta la Prima Sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 2037 del 14 luglio 2017.
Il caso in esame (Cass., 14 luglio 2017, n. 2037)
La fattispecie sottoposta all’esame della Suprema Corte riguardava la richiesta di risarcimento danni avanzata dal presidente del consiglio di amministrazione di una s.p.a. a seguito della sua destituzione dal consiglio di amministrazione in conseguenza di due delibere assembleari con le quali: era stato anzitutto modificato lo statuto sociale tramite la previsione della possibilità di nomina, in alternativa all’organo amministrativo collegiale, anche della carica di amministratore unico; conseguentemente erano stati revocati tutti gli amministratori in carica al fine del passaggio all’amministratore unico.
La motivazione posta a base di tale ultima delibera di revoca riguardava la necessità di garantire una direzione accentrata alla società al fine di assicurare alla stessa “…una guida caratterizzata da rapida ed immediata funzionalita’ operativa…”, anche in considerazione della necessità di superare la dialettica interna all’organo amministrativo che, secondo la stessa società, aveva travalicato i limiti della normalità cagionando una situazione di sostanziale ingovernabilità.
La controversia, incardinata di fronte al Tribunale di Roma, veniva decisa a favore della società sia in primo grado che in appello. I giudici di merito ritenevano infatti sussistente, a fronte delle suddette motivazioni poste a fondamento della delibera di revoca, una giusta causa di revoca ex art. 2383 c.c. La Suprema Corte, quindi, veniva investita una prima volta della controversia a seguito di ricorso proposto dal presidente del consiglio di amministrazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma.
Con sent. n. 21342/2013 la Corte di Cassazione cassava con rinvio la sentenza impugnata ritenendo, in applicazione dei principi di diritto di cui si è dato conto nel paragrafo 2 della presente trattazione, che “la giusta causa, tanto soggettiva che oggettiva, non può essere integrata dal nuovo assetto organizzativo, ma richiede la sopravvenienza di circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto; in particolare, la giusta causa oggettiva richiede la sopravvenienza di situazioni estranee alla persona dell’amministratore, quindi non integranti un suo inadempimento, ma tali da elidere l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e capacità dell’amministratore”.
La vicenda era, poi, oggetto di una nuova pronuncia, in sede di rinvio, della Corte d’Appello di Roma, la quale accordava all’amministratore esclusivamente il risarcimento del danno da lucro cessante subito a seguito della revoca ingiustificata, parametrato ai compensi non percepiti nel periodo successivo alla revoca e sino alla naturale scadenza del mandato.
La Corte d’Appello rigettava, invece, le domande attoree relative al risarcimento dei danni all’immagine, professionale ed alla vita di relazione asseritamente subiti dall’amministratore a causa della revoca senza giusta causa, ritenendo gli stessi in parte non provati e comunque non riconducibili alla condotta della società posto che quest’ultima, nel motivare la revoca, non aveva in alcun modo fatto riferimento a inadempimenti o condotte illegittime dell’amministratore.
Avverso tale ultima decisione l’attore proponeva nuovamente ricorso per Cassazione al fine di ottenere il riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni subiti in conseguenza della revoca illegittima, compresi il danno all’immagine e i conseguenti danni da perdita di chance ed esistenziale.
La decisione della Cassazione
La pronuncia in esame, occupandosi dapprima delle domande svolte in via riconvenzionale dalla società convenuta e, in un secondo momento, delle domande attoree, analizza puntualmente i vari aspetti relativi all’argomento della revoca dell’amministratore di s.p.a. e dei diritti risarcitori spettanti a quest’ultimo in assenza di giusta causa.
Trattando in generale della facoltà di recesso ex lege attribuita alla società dall’art. 2383 c.c. la Corte dà anzitutto conto del fatto che a quest’ultima è concessa dal legislatore una forma di autotutela privata, dalla quale deriva la possibilità di sciogliersi dal rapporto con il proprio amministratore senza passare per una decisione del giudice.
Quest’ultimo sarà investito eventualmente solo della questione relativa alla liquidazione degli eventuali danni prodotti in capo al soggetto revocato. Conseguentemente, sintetizzando quanto sin qui detto in materia di recesso ex art. 2383 c.c., la Cassazione conferma che il potere di revoca della società “…discende dall’esercizio dell’autonomia privata; tale esercizio è libero; il confine di questa liberà è nella giusta causa della revoca”[27].
La necessità di motivazione della revoca
Successivamente la Corte passa ad analizzare la questione relativa alla legittimità dell’integrazione, da parte della società, delle motivazioni poste a base della revoca dell’amministratore, di regola contenute nella stessa delibera societaria, in corso di giudizio.
Sul punto si registrano opinioni differenti tra chi ritiene che le ragioni di revoca dell’amministratore possano rimanere inespresse in sede di delibera per essere manifestate dalla società nel corso dell’eventuale giudizio, e chi, invece, ritiene che le motivazioni poste a base della revoca debbano essere già contenute nella relativa deliberazione, senza possibilità per la società di introdurre nuovi e differenti motivi nel corso del giudizio.
Ragioni relative alla buona fede nei rapporti societari, alla celerità dell’agire societario, all’efficienza imprenditoriale, alla certezza delle situazioni giuridiche e alla deflazione del contenzioso, portano la Suprema Corte ad aderire alla seconda delle ricostruzioni di cui sopra, dando continuità all’orientamento giurisprudenziale già espresso in pronunce precedenti[28].
I danni risarcibili all’amministratore revocato in assenza di giusta causa
Infine, la Sezione Prima passa ad esaminare il tema della tipologia dei danni risarcibili all’amministratore revocato in assenza di giusta causa.
Sul punto viene anzitutto precisato che nella fattispecie in oggetto, costituente, come detto, un’ipotesi di responsabilità contrattuale, grava sull’attore/amministratore la prova relativa agli elementi oggettivi della fattispecie consistenti nella condotta, nel danno e nel nesso causale che li lega, ai sensi dell’art. 2697 c.c..
La Corte ribadisce, inoltre, il principio, già consolidatosi nella giurisprudenza precedente, secondo il quale dalla revoca senza giusta causa può derivare il diritto per l’amministratore al risarcimento non solo dei danni consistenti nella perdita dei compensi relativi al periodo differenziale, bensì anche di ogni ulteriore danno prodotto in via diretta e immediata dalla ingiustificata cessazione anticipata del rapporto, purché tali danni siano puntualmente provati dall’attore sia nel loro manifestarsi che nel collegamento causale con la revoca ingiustificata.
Ciò detto, nella sentenza in esame vengono compiute alcune precisazioni in merito alla risarcibilità dei danni ulteriori determinatisi a seguito della revoca.
Afferma, infatti, la Cassazione che, mentre la lesione del diritto alla prosecuzione della carica gestoria sino alla naturale scadenza si manifesta automaticamente a seguito di una revoca ingiustificata, al contrario una responsabilità della società per ulteriori danni, quale quello all’immagine, da perdita di chance o esistenziale, non consegue automaticamente alla revoca senza giusta causa.
Tale ulteriore responsabilità può sorgere in capo alla società esclusivamente quando:
- i fatti enunciati nella deliberazione di revoca integrino di per sè violazione delle regole di buona fede e correttezza;
- le concomitanti e concrete modalità della cessazione del rapporto, anche esterne alla deliberazione, siano contra ius.
In altre parole, la Suprema Corte ritiene che condizione sufficiente al risarcimento del danno da lucro cessante per i compensi non percepiti nel periodo differenziale sia l’assenza della giusta causa di revoca, essendo tale tipo di danno desumibile in via presuntiva; al contrario, però, tale circostanza non fa sorgere di per sé in capo al soggetto revocato il diritto al risarcimento di danni ulteriori quale quello all’immagine o esistenziale che richiedono un quid pluris in relazione alle modalità della revoca o alla descrizione dei fatti contenuta nella deliberazione.
La diffusione della notizia della revoca
Secondo il ragionamento seguito dai Giudici di legittimità, infatti, qualora le modalità della revoca e i fatti descritti nella deliberazione non integrino alcun profilo di illegittimità l’unica circostanza di cui in realtà si duole il soggetto revocato nel momento in cui richiede il risarcimento dei danni ulteriori rispetto alle mancate retribuzioni è la diffusione all’esterno della notizia della revoca, la quale può, in via di principio, connettersi causalmente ad un danno all’immagine e ad una difficoltà a reperire nuovi incarichi dello stesso livello.
Tuttavia una certa diffusione all’esterno della notizia della revoca del consigliere di amministrazione di una società per azioni può reputarsi fisiologica e proporzionata con l’interesse della società a provvedervi e può, quindi, attuarsi con forme e modalità normali che non ledano la dignità dell’amministratore revocato.
Da tanto deriva che non può innescarsi alcun automatismo tra revoca senza giusta causa e diritto dell’amministratore al risarcimento dei danni all’immagine, da perdita di chance o esistenziale, dovendo il soggetto revocato dimostrare volta per volta che nel caso concreto le modalità o le forme della revoca hanno determinato una lesione alla propria reputazione e una diminuita capacità di reperire occasioni di lavoro del livello di quello precedentemente svolto.
Il principio di diritto
Sulla base delle considerazioni di cui sopra, dunque, la Suprema Corte afferma il principio di diritto secondo cui:
“In caso di revoca dell’amministratore di società azionaria, alla responsabilità contrattuale ex articolo 2383 c.c. relativa al lucro cessante per i compensi residui non percepiti, derivante dal fatto stesso del recesso senza giusta causa dal rapporto di amministrazione, può’ aggiungersi la responsabilità, sempre di natura contrattuale, per la violazione delle regole di buona fede e correttezza, oppure una responsabilià extracontrattuale della società, o di soggetti in concorso con essa, solo in presenza di condotte che costituiscano un quid pluris, diverso ed ulteriore, rispetto alla revoca in se’, come allorché le stesse ragioni esternate della revoca, in luogo che essere semplicemente insussistenti o inidonee a fondare il potere di recesso, oppure le concrete modalà della cessazione del rapporto, connotate da colpa o dolo, siano tali da ledere un diritto della persona (come onore, reputazione, identità personale, con le eventuali conseguenti ricadute patrimoniali) distinto dal diritto dell’amministratore alla prosecuzione della carica sino alla sua naturale scadenza“.
Considerazioni conclusive
Nonostante la sentenza in commento abbia il pregio di fare chiarezza circa i requisiti che legittimano la richiesta, da parte dell’amministratore di s.p.a. revocato senza giusta causa, del risarcimento dei danni ulteriori rispetto al mero lucro cessante da perdita delle retribuzioni relative al periodo differenziale, pur tuttavia, a parere di chi scrive, la stessa presenta alcuni passaggi poco lineari.
Mancata risposta alla questione sulla risarcibilità del danno all’immagine e alla carriera
Anzitutto si rileva che con la pronuncia in esame in realtà la Cassazione sembra non occuparsi affatto della questione relativa alla risarcibilità del danno all’immagine e alla carriera derivanti direttamente dalla revoca deliberata in assenza di giusta causa.
Ed, infatti, la pronuncia in oggetto statuisce la risarcibilità di tali danni in conseguenza di condotte della società diverse ed ulteriori rispetto alla deliberazione della revoca ingiustificata, quali l’utilizzo di modalità ingiuriose nella destituzione dell’amministratore o i contenuti diffamatori caratterizzanti il contento della delibera di revoca.
A ben vedere, tali condotte della società, da cui deriva senz’altro un obbligo di risarcire i danni causati al soggetto leso (sul piano contrattuale o extracontrattuale), potrebbero essere coesistenti anche ad una revoca sostenuta da una giusta causa.
Si pensi ad esempio alla fattispecie in cui insieme al fatto vero dell’inadempimento dell’amministratore nei confronti della società, siano descritti all’interno della deliberazione di revoca fatti falsi o comunque esposti al solo fine di ledere la reputazione dell’amministratore.
In una tale ipotesi, nonostante la sussistenza di una giusta causa di revoca, sorgerebbe certamente un diritto al risarcimento dei danni per il soggetto revocato, ma non in forza della previsione di cui all’art. 2383 c.c. (fattispecie non integrata posta la sussistenza di una giusta causa di revoca), bensì in base alle regole generali della responsabilità aquiliana.
Da tanto si evince chiaramente che con la pronuncia in esame la Corte non ha fornito, almeno esplicitamente, una risposta al quesito relativo alla risarcibilità del danno all’immagine derivante direttamente ed esclusivamente da una revoca ingiustificata dell’amministratore di s.p.a.
La prova in caso di lesione della reputazione derivata all’amministratore
Un ulteriore punto della pronuncia in esame su cui si ritine necessario porre l’attenzione, e dalla cui analisi potrebbe ricavarsi una risposta, seppur implicita, al quesito suddetto, riguarda il passaggio motivazionale nel quale la Suprema Corte stabilisce che, da una parte l’eventuale lesione della reputazione derivata all’amministratore dalla revoca ingiustificata dovrà “…essere provata di volta in volta, quale conseguenza diretta ed immediata della revoca, senza nessun automatismo nel senso che alla revoca dell’amministratore dalla carica segua sempre un pregiudizio risarcibile alla sua reputazione”.
Dall’altra che, però, si tratta “…di un pregiudizio che può essere ricollegato alla revoca non per la mera mancanza di giusta causa, ma solo in presenza di un quid pluris, diverso ed ulteriore, contenuto all’interno della deliberazione di revoca oppure al di fuori di essa, il quale palesi ad esempio un’attività ingiuriosa o diffamatoria, animata da colpa o da dolo, posta in essere dalla società, lesiva del prestigio professionale dell’amministratore nel contempo revocato.”
Seguendo il ragionamento della Corte, dunque, da una parte si richiede all’amministratore di dimostrare che i danni alla reputazione subiti derivano direttamente dalla revoca, dall’altra si afferma però che tali danni non possono in realtà mai derivare dalla revoca ingiustificata ex se, potendo collegarsi solamente a condotte ulteriori della società di per se idonee a determinare un obbligo risarcitorio della stessa.
Da quanto detto sembra potersi concludere nel senso che la Cassazione esclude che alla revoca ingiustificata, in assenza di ulteriori condotte contra ius della società, possano collegarsi causalmente danni diversi rispetto al danno da perdita delle retribuzioni relative al periodo differenziale e, dunque, l’art. 2383 c.c. deve essere letto nel senso che gli unici danni risarcibili all’amministratore conseguentemente alla revoca disposta in assenza di giusta causa sono i danni consistenti nella mancata percezione delle retribuzioni riferite al ridetto periodo differenziale.
[1] “…si deve partire innanzitutto dalla amplissima discrezionalità pacificamente attribuita alla assemblea per la nomina degli amministratori sociali, alla luce del necessario rapporto fiduciario che deve legare i due organi, tanto da far apparire pienamente legittima anche una revoca anticipata priva di qualunque motivazione.” Trib. di Milano, sent. n. 1709/2015.
[2] n. 10739/2000.
[3] “Viene, quindi, riconosciuto ai soci il potere di revocare gli amministratori anche prima della scadenza naturale dell’incarico con la sola previsione del risarcimento del danno, nel caso in cui il provvedimento di revoca non sia assistito da giusta causa. La legittima aspettativa di percepire la retribuzione insieme alla immotivata perdita di guadagno che l’amministratore subirebbe nel caso concreto, caratterizzato dall’assenza di una giusta causa, sarebbe proprio alla base del diritto al risarcimento.” Corte d’Appello di Milano, sent. 1783/2016.
[4] n. 23381/2013.
[5] Ascarelli, Appunti di diritto commerciale, Società e associazioni commerciali, Roma, 1936, 150 ss.
[6] Cfr. Cass. sez. lav. N. 144/2015.
[7] “La giusta causa che giustifica la revoca dell’amministratore può essere sia soggettiva sia oggettiva, e cioè consistere anche in situazioni estranee alla persona dell’amministratore, non riconducibili a condotte di questo ultimo che siano tali da impedire la prosecuzione del rapporto. Sebbene la giusta causa possa derivare anche da fatti non integranti inadempimento, occorre, tuttavia, pur sempre un quid pluris, nel senso che è necessaria la esistenza di situazioni sopravvenute (provocate o meno dall’amministratore stesso), che minino il factum fiduciae, elidendo l’affidamento inizialmente riposto sulle attitudini e le capacità dell’organo di gestione” Cass. n. 23557/2008.
[8] Trib. di Roma, sent. n. 8907/2016.
[9] Trib. di Napoli, sent. 21 maggio 2001.
[10] Cass. Sez. I, 21.11.1998, n. 11801; Cass. Sez. I, 07.08.2004 n. 15322.
[11] Cass. n. 8221/2012.
[12] Corte d’Appello Milano, 15 settembre 1994.
[13] Trib. di Milano, 18 maggio 1995
[14] Trib. di Milano, 15 settembre 1999.
[15] Cass. n. 2068/1960.
[16] Trib. di Verona, 9 giugno 1994
[17] Corte d’Appello di Milano, 30 novembre 1979.
[18] Cass., Sez. I, Sent. n. 27512/2008. Cfr. anche Cass. 21342/2013 secondo cui “La cessazione di un componente del consiglio di amministrazione, determinata dalla deliberazione assembleare che abbia modificato la struttura dell’organo amministrativo (nella specie, passaggio dall’organo collegiale a quello monocratico), configura un’ipotesi di revoca, sia pur implicita, degli amministratori incompatibili con il nuovo assetto della società, priva di giusta causa, in mancanza di circostanze o fatti idonei ad influire negativamente sulla prosecuzione del rapporto”.
[19] di Milano, Sent. n. 6836/2010.
[20] Cass. n. 7587/2016; ved. anche Tribunale di Milano, Sent. 14 febbraio 2004
[21] n. 11801/1998.
[22] Ex multis Trib. di Roma, sent. n. 8907/2016; Corte d’App. Milano, sent. n. 1783/2016; Cass. n. 2046/2014
[23] Trib. Milano 15 settembre 1986.
[24] Corte d’appello di Napoli, Sentenza 27 gennaio 2011, n. 165.
[25] Cass. n. 23557/2008 in tema di danno da perdita di chance.
[26] Cfr. Corte d’Appello di Roma, 26/2/2016
[27] Cass., 14 luglio 2017, n. 2037, pag. 9.
[28] Cfr. Cass n. 23557/2008