La Cassazione torna ad occuparsi della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria in punto di consenso informato.
In particolare, con la sentenza n. 26728 del 23.10.2018, la Suprema Corte ha affermato che la responsabilità per omesso consenso informato non sia ascrivibile solo al capo dell’equipe medica, ma anche all’aiuto – chirurgo che abbia partecipato all’operazione e consigliato l’intervento.
Il consenso informato
L’evoluzione del rapporto tra medico e paziente ha condotto, specie negli ultimi anni, al riconoscimento e alla valorizzazione del diritto all’autodeterminazione del secondo in ordine alle scelte relative alla propria salute.
Egli non si pone più quale soggetto “passivo” che finisce per subire le scelte del professionista, ma, al contrario, diviene “protagonista”, potendo optare per la sottoposizione ad un determinato intervento, per un percorso terapeutico alternativo, ove possibile, o, ancora, scegliere di non sottoporvisi affatto, come, peraltro, previsto dall’art. 32, II comma Cost. che sancisce il diritto dell’individuo a non essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non in base alla legge e in ipotesi assolutamente eccezionali.
Anche in questi ultimi casi, tuttavia, il trattamento dovrà essere eseguito nel rispetto della dignità umana del paziente.
È dunque, ad oggi, riconosciuta dall’ordinamento giuridico ad ogni soggetto la libertà morale di autodeterminarsi: libertà che, assieme a quella fisica, viene tutelata all’art. 13 della Costituzione il quale la definisce espressamente come “inviolabile”.
La tematica che coinvolge indubbiamente diritti fondamentali della persona da riconoscersi a livello universale, trova terreno fertile anche in ambito europeo.
L’art. 23 della Carta di Nizza, dopo aver proclamato il diritto all’integrità della persona, precisa che nel settore della medicina e in quello della biologia, debba essere rispettato, per quanto qui di interesse, il consenso libero e informato della persona, secondo le modalità stabilite dalla legge.
A livello internazionale, l’art. 5, Capitolo II, della Convenzione di Oviedo, chiarisce quanto segue: “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato, se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato”.
Al fine dell’acquisizione di una piena consapevolezza da parte del paziente in ordine all’intervento o alla terapia prospettata dal sanitario a seguito della fase c.d. diagnostica, è necessario che l’interessato venga correttamente, puntualmente e dettagliatamente informato di ogni aspetto utile, ivi comprese le percentuali di rischio, non solo di mortalità, ma anche di riuscita dell’intervento, le possibili soluzioni alternative ed ogni altro elemento che gli consenta di scegliere l’opzione preferibile, in un linguaggio adatto al suo livello culturale.
Da ciò si evince l’importanza dell’informativa che il medico è tenuto a rendere al paziente, pena la propria responsabilità per omesso consenso informato, in ordine alla quale spesso la giurisprudenza si è trovata a pronunciarsi.
Il caso in esame
Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, un paziente agiva in giudizio nei confronti di due medici e dell’Azienda Ospedaliera chiedendo il risarcimento dei danni permanenti provocati dall’intervento operatorio effettuato nei suoi confronti e consigliato dall’aiuto – chirurgo, lamentando, peraltro, un’omessa informazione circa i rischi e, in generale, le conseguenze negative che da esso sarebbero potute derivare.
Interveniva in giudizio la moglie del paziente al fine di ottenere il risarcimento del danno alla sfera sessuale eziologicamente ricollegato all’intervento operatorio in oggetto, in aggiunta al risarcimento del danno morale, inteso come patema d’animo e sofferenza interiore patiti.
In primo grado, il Tribunale riteneva sussistente la responsabilità del medico urologo e dell’Azienda Ospedaliera condannandoli in solido al risarcimento del solo danno da mancato consenso informato in favore del paziente.
In sede di Appello, la Corte accoglieva il gravame incidentale del medico chirurgo e riformava parzialmente la sentenza di prime cure. Affermava, infatti, che il dovere di informare spetta oggettivamente alla persona che effettua l’intervento chirurgico.
Avverso la succitata pronuncia, veniva proposto ricorso per Cassazione.
Le questioni esaminate dalla Suprema Corte
La tematica affrontata dalla Corte di Cassazione attiene alla sussistenza della responsabilità per omesso consenso informato non solo del capo dell’equipe che effettivamente eseguiva l’intervento chirurgico, ma, altresì, dell’aiuto – chirurgo che partecipava all’operazione.
Era proprio quest’ultimo, infatti, a consigliare il paziente al fine di orientare la sua scelta verso la sottoposizione all’intervento operatorio, scelta, peraltro, non consapevole, attesa la mancata informativa in ordine ai possibili rischi derivanti dall’operazione.
Peraltro, nel caso in esame, emergeva anche un profilo di danno alla sfera sessuale che, inevitabilmente, ridondava a svantaggio della coppia, quindi anche della moglie del paziente, derivante dall’omessa acquisizione del consenso informato, danno quest’ultimo considerato perfettamente risarcibile nel nostro ordinamento giuridico, se adeguatamente provato.
La situazione peggiorativa in pregiudizio del coniuge, peraltro, deve rientrare nell’ambito di quei rischi in ordine ai quali il medico avrebbe dovuto informare il paziente, non trattandosi, al contrario, di esiti assolutamente anomali.
L’obbligo di informazione, del resto, persiste in capo all’esercente la professione sanitaria, a prescindere dall’alta o bassa percentuale di rischio empiricamente riscontrata.
La soluzione proposta e i principi di diritto
Tanto considerato, evidenziava la Suprema Corte, quanto al primo dei suesposti profili, la responsabilità in capo anche all’aiuto – chirurgo che aveva consigliato l’intervento chirurgico omettendo, tuttavia, le necessarie informazioni e non rendendo, per l’effetto, possibile, l’acquisizione del consenso informato del paziente.
A tal fine, la Corte di Cassazione pronunciava il seguente principio di diritto:
“In tema di consenso medico informato riguardo all’esecuzione di un intervento operatorio, qualora risulti, come nella specie, che esso è stato eseguito da un sanitario come capo dell’equipe medico – chirurgica, ma che altro sanitario, che abbia partecipato all’operazione in qualità di aiuto- chirurgo, sia stato quello che ha consigliato al paziente l’esecuzione dell’intervento, erroneamente la sentenza di merito, avendo accertato il difetto del consenso informato, riferisce la responsabilità al solo capo dell’equipe medica, ancorché egli abbia eseguito l’intervento, e non anche all’aiuto-chirurgo, giacché costui, nell’eseguire la propria prestazione con il consigliare l’intervento, deve reputarsi anch’egli responsabile di non avere assicurato l’informazione dovuta”.
Per ciò che concerne, invece, il secondo aspetto, chiariva la Corte che il giudice di merito aveva omesso di pronunciarsi con riguardo alla concretizzazione del rischio, consistente nel peggioramento delle condizioni del paziente legate alla sua sfera sessuale, derivante da omessa informazione nei confronti del predetto che, altrimenti, ben avrebbe potuto scegliere di non sottoporsi all’operazione in esame.
Ala luce di quanto esposto, la Corte di Cassazione affermava un nuovo principio di diritto:
“In tema di consenso informato, qualora risulti accertata, con riferimento alla sottoposizione di un coniuge ad un intervento, una situazione peggiorativa della salute incidente nella sfera sessuale, rientrante nel rischio dell’intervento, e peggiorativa della condizione del medesimo, sebbene non imputabile a cattiva esecuzione dello stesso, il coniuge che risente in via immediata e riflessa del danno, incidente nella sfera sessuale e relazionale della vita di coppia, collegato a detto peggioramento, ha diritto al risarcimento del danno, in quanto tale danno è conseguenza della condotta di violazione della regola del consenso informato in danno del coniuge, nei limiti di come è stato rilevato nei suoi confronti”.