Raggiunta età pensionabile: prosecuzione rapporto fino ai 70 anni o licenziamento ad nutum?

in Giuricivile, 2018, 6 (ISSN 2532-201X)

Dopo il raggiungimento dell’età prevista per l’accesso alla pensione di vecchiaia, il rapporto di lavoro può proseguire fino ai 70 anni di età o il datore di lavoro può intimare un licenziamento ad nutum? Ecco un esame della giurisprudenza e della dottrina sul punto.

L’art. 24 comma 4 D.L. n. 201/2011 sancisce che:

“Per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell’Assicurazione Generale Obbligatoria (di seguito AGO) e delle forme esclusive e sostitutive della medesima, nonché della gestione separata di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, la pensione di vecchiaia si può conseguire all’età in cui operano i requisiti minimi previsti dai successivi commi.

Il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato, fermi restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita, come previsti dall’articolo 12 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 e successive modificazioni e integrazioni. Nei confronti dei lavoratori dipendenti, l’efficacia delle disposizioni di cui all’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 e successive modificazioni opera fino al conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità”.

Si precisa che il riferimento, nella parte in cui detta norma prevede incentivi alla prosecuzione dell’attività lavorativa e stabilità reale del posto di lavoro fino al settantesimo anno di età, è unicamente ai lavoratori che raggiungono l’età pensionabile dopo il 31.12.2011 secondo i nuovi requisiti.

Licenziamento ad nutum dopo i 65 anni: le Sezioni Unite del 2015

Ora, per comprendere la portata della citata disposizione, appare opportuno prendere le mosse dalla sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 17589/2015 – a sua volte recepita dalla sentenza della Corte d’appello di Milano n. 331/2016 – la quale, anche se segnalata come fonte dei principi generali, in realtà è riferita ad una categoria di lavoratori specifica (giornalisti-INPGI) il cui CCNL di settore disciplina espressamente la facoltà per il datore di irrogare il licenziamento ad nutum al raggiungimento del 65mo anno di età.

È infatti lo stesso art. 24 comma 4 D.L. n. 201/2011 a far salvi “i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, limite che – nel caso sottoposto all’attenzione delle Sezioni unite – è costituito dall’art. 33 CCNL del lavoro giornalistico secondo il quale “l’azienda può risolvere il rapporto di lavoro quando il giornalista abbia raggiunto il 65mo anno di età”.

Si tratta, con tutta evidenza, di fattispecie che trova la sua regolazione in apposita disciplina speciale (D.L.gs 509/1994) rispetto a quella del sistema generale dell’ AGO (Assicurazione Generale Obbligatoria). Dunque, precludendo l’iscrizione all’INPGI l’applicazione dell’art. 24 co. 4 e la possibilità di continuare l’attività lavorativa fino al 70mo anno di età, nel caso sottoposto al vaglio del supremo Collegio sarebbe stato legittimamente esercitato il diritto di recesso dal rapporto al raggiungimento del 65mo anno di età, in attuazione del predetto art. 33 CCNL del lavoro giornalistico, con conseguente venir meno della tutela dell’art. 18 St. lavoratori all’atto del raggiungimento del diritto a pensione.

La Suprema Corte infatti considera preliminare detto rilievo e, di conseguenza, assorbente degli altri motivi ritenendo così fondato ed accolto il ricorso. La sentenza, quindi, dopo aver analizzato il regime speciale dei giornalisti e la circostanza che il regime previdenziale ad essi applicabile non rientra nella previsione di cui all’art. 24, co.4, contiene riflessioni sulla portata precettiva della disposizione da ultimo richiamata che però non paiono definire in maniera univoca e certa il tema di interesse.

E ciò in quanto le Sezioni unite se escludono che in capo al lavoratore che intende proseguire il rapporto di lavoro sussista un diritto potestativo verso il datore (“..la disposizione dello stesso Decreto Legge 6 dicembre 2011 n. 201 articolo 24 comma 4, conv. dalla L. 22 dicembre 2011 n. 214, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo ma solo prefigura la formulazione di condizioni previdenziali che costituiscono incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi fino a settanta anni”), dall’altro riconoscono che la legge contempli la possibilità per cui, grazie all’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settanta anni, si creino le condizioni per consentire ai lavoratori interessati la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti previsti dalla normativa di settore (normativa che –lo si ricordi- nel caso che ci occupa –a differenza dei giornalisti- non contiene una recedibilità al raggiungimento della soglia dei 65 anni).

Di talchè -afferma ancora la Corte- al momento in cui si realizzino le condizioni per far accesso all’ “l’incentivo”, le parti consensualmente stabiliscano la prosecuzione del rapporto sulla base di una reciproca valutazione di interessi.

Ancora sul licenziamento ad nutum: Cass. sentenza n. 6776/2017

Negli stessi termini – ma pur sempre in tema di disciplina applicabile agli iscritti INPGI – si è pronunciata la Cassazione, sez. lav., con sentenza n. 6776/2017: “I motivi di ricorso sono fondati, dovendosi dare continuità alla giurisprudenza delle S.U. di questa S.C. che, con sentenza n. 17589/15, ha statuito che il D.L. 6 dicembre 2011, n. 201, art. 24 co. 4, conv. dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214, non attribuisce al lavoratore il diritto potestativo di proseguire nel rapporto di lavoro fino al raggiungimento del settantesimo anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma si limita a prefigurare condizioni previdenziali di incentivo alla prosecuzione dello stesso rapporto per un lasso di tempo che può estendersi fono ai settanta anni di età”.

Tale interpretazione, pertanto, sottende un necessario bilanciamento tra interesse alla conservazione del posto di lavoro e tutela costituzionale della iniziativa economica privata; il tutto senza sottacere che la norma è contenuta all’interno della normativa rubricata “disposizioni urgenti per la crescita, l’equità ed il consolidamento dei conti pubblici” capitolo relativo alle “riduzioni di spesa”; riferimenti per i quali, infatti, parte della dottrina è giunta a sostenere che: “la filosofia della riforma sia di spostare in avanti i limiti di età per accedere alla pensione e mantenere il più possibile al lavoro le persone anche dopo il compimento dei requisiti pensionistici.

Per fare questo, però occorrono due cose, entrambe contemplate dall’art. 24 co.4., prevedere un incremento della pensione in corrispondenza della permanenza al lavoro e avere la certezza del posto di lavoro almeno fino all’età limite di 70 anni. A differenza di prima la tutela della stabilità obbligatoria e reale opera anche dopo la maturazione dei requisiti pensionistici perché oggi quello che si vuole ottenere è di allontanare nel tempo il più possibile i pensionamenti” (approfondimento in guida alle pensioni rivista giuridica sole 24 ore del 1.3.2012 n. 3).Pertanto, se il consenso è richiesto ai fini della prosecuzione del rapporto, sorgono dubbi di legittimità circa la liceità di un recesso ad nutum da parte del datore al raggiungimento dell’età pensionabile, con ciò lasciando ampi spazi interpretativi in ordine all’operatività dell’art. 24 co. 4.

Un orientamento contrario: Corte d’Appello Torino del 24/10/2013

Unica pronuncia che si muove in diversa direzione – e che, peraltro, non ha ad oggetto vicende di lavoratori iscritti all’INPGI – è quella della Corte d’appello di Torino del 24 ottobre 2013 che –  prescindendo dalla fondatezza della pretesa fatta valere nello specifico caso – afferma la stabilità reale del posto di lavoro fino al 70mo anno di età, quando il lavoratore prosegua l’attività lavorativa anche dopo il raggiungimento dell’età prevista per l’accesso alla pensione di vecchiaia; pertanto la norma, per i lavoratori che abbiano raggiunto entro il 31.12.2011 i requisiti di età e di anzianità contributiva, vieta il licenziamento ad nutum che, se intimato, è da ritenersi affetto da nullità.

Tale pronuncia – sebbene antecedente alle Sezioni Unite sopra illustrate – parrebbe prevedere in capo al lavoratore un diritto potestativo, sicché alla sola manifestazione di volontà –anche in forma concludente- di prosecuzione del rapporto lavorativo, si consoliderebbe uno stato di diritto.

Il parere della dottrina

Il medesimo panorama di incertezza giurisprudenziale si riflette anche negli orientamenti della dottrina che, parimenti, non seguono un indirizzo univoco. E ciò in quanto, a differenza della normativa previgente, il citato art. 24 co 4 non prescrive espressamente né un diritto d’opzione in capo al lavoratore né una facoltà del datore di licenziamento ad nutum al raggiungimento dell’età pensionabile. D’altro canto, l’esercizio dell’opzione, per come delineato dalla legge n. 54/1982, è di fatto superato perché è mutata l’età pensionabile.

Alcuni autori sembrano condividere la natura negoziale del contegno delle parti rispetto alle contrapposte ipotesi di cessazione e prosecuzione del rapporto tanto da subordinare la permanenza in servizio al consenso esplicito del datore (assumendo natura contrattuale). Così opinando, una volta che il dipendente abbia raggiunto il requisito anagrafico di pensionabilità, sarebbe necessaria un’espressa volontà reciproca alla prosecuzione del rapporto di lavoro, una sorta di “rinegoziazione” del rapporto tra datore e lavoratore.

Ad ogni buon conto, non sembra a tal fine enfatizzabile il semplice “incentivo” dell’art. 24 co. 4, specie ove si consideri che nella formulazione di tale disposizione non si rinviene alcun elemento testuale atto a sostenere predetta ipotesi e, quindi, a porre alla base della prosecuzione del rapporto l’incontro del consenso rinnovato dei due contraenti.

Tuttavia, in assenza di un’esplicita ed univoca indicazione normativa, appare rischioso affermare con certezza l’operatività di un’area di libera recedibilità per il datore di un lavoratore al raggiungimento dell’età pensionabile – ferma l’anzianità contributiva minima pari a 20 anni- considerando: i contrasti in dottrina, la circostanza per la quale le affermazioni di principio contenute nelle sentenze della cassazione citata hanno preso le mosse da un caso specifico -in cui il CCNL prevedeva sia la libera recedibilità sia un limite di età nei 65 anni- mentre l’unica sentenza (ancorchè precedente) rinvenuta su caso differenze da quello dei giornalisti affermava il criterio della stabilità del rapporto di lavoro e la nullità del licenziamento irrogato; il tutto ancora considerando la ratio delle norme da rinvenirsi nelle necessità di non gravare sul bilancio dello stato (c.d. decreto salva Italia) con l’obiettivo di spostare più avanti possibile i costi a carico dell’Inps.

Osservazioni conclusive

Inoltre, vale la pena osservare che la facoltà di licenziamento ad nutum, riguarda le sole pensioni di vecchiaia, quindi, il datore si troverebbe nella necessità di verificare il requisito del possesso di 20 anni di anzianità contributiva.

Il problema è rilevante nel momento che in una realtà caratterizzata da ripetuti cambiamenti d’appalto, la società subentrante non è in grado di conoscere esattamente il conto previdenziale di ciascun lavoratore assunto.

Peraltro, il datore non ha la possibilità di accedere a questa informazione direttamente dagli archivi dell’ente previdenziale, ma per il solo tramite del lavoratore e, se questi si rifiuta di fornire il proprio estratto conto previdenziale, il datore non ha altri strumenti per conoscere il dato sicché non potrebbe recedere liberamente (e legittimamente) dal rapporto di lavoro.

Stanti i problemi di incertezza che determina l’attuale quadro normativo in riferimento al concreto utilizzo del recesso ad nutum, sarebbe preferibile ricercare accordi di risoluzione consensuale con i singoli lavoratori che, via via, si vengono a trovare in possesso dei requisiti di pensionabilità richiesti per legge.  

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