Il rapporto tra diritto e lingua costituisce un nodo fondamentale nell’ambito della giurisprudenza e della teoria del diritto. Le lingue, come strumenti primari di comunicazione e codificazione delle norme, sono essenziali per la definizione e l’applicazione del diritto stesso.
Premessa
In questo contesto, sorgono i concetti di diritti umani linguistici, che rappresentano la tutela dei diritti linguisticamente correlati alle persone; dunque, esplorare il legame tra lingua e diritto significa analizzare il concetto stesso di “diritti umani linguistici” e la loro importanza nell’ambito giuridico. La connessione tra linguaggio e diritto è, infatti, una relazione piuttosto complessa che permea molteplici aspetti della società e della cultura moderna. Il diritto, come istituzione sociale, si esprime principalmente attraverso il linguaggio, che funge da mezzo primario per la codifica delle leggi, la conduzione dei procedimenti legali e la comunicazione delle decisioni giuridiche.
Il linguaggio giuridico possiede caratteristiche specifiche e richiede una comprensione specialistica per essere interpretato correttamente. Le leggi, essendo codificate nel linguaggio stesso, devono essere formulate in modo chiaro e preciso per evitare ambiguità e controversie interpretative. Questo implica un suo uso mirato, spesso caratterizzato da termini tecnici e formule specifiche che definiscono i concetti giuridici in modo inequivocabile. Di conseguenza, coloro che operano nel campo legale devono padroneggiare non solo la sostanza delle leggi, ma anche la loro forma linguistica.
La comunicazione giuridica è un fenomeno complesso che coinvolge una vasta gamma di sistemi semiotici, comprendenti sia elementi non verbali, come gesti e illustrazioni, che un sistema linguistico articolato su diversi livelli.
Questi livelli includono il sistema grafo-fonico, che si riferisce agli aspetti visivi ed uditivi del linguaggio, come il tipo di carattere utilizzato in un documento legale o l’intonazione utilizzata dal giudice durante le istruzioni alla giuria. Inoltre, vi è il sistema lessico-grammaticale, che riguarda le parole, la morfologia e la sintassi utilizzate in ambito giuridico ed, infine, il sistema discorsivo, che include i generi testuali specifici associati alla comunicazione giuridica.
Il registro linguistico giuridico, in particolare, come evidenziato da Kurzon[1], costituisce un aspetto fondamentale della comunicazione giuridica, poiché esso è caratterizzato dall’uso regolare di un lessico e di una grammatica particolari, che sono riconoscibili e distintivi all’interno delle comunità giuridiche. Tuttavia, la definizione precisa del registro giuridico può risultare complessa, poiché può variare in base al contesto ed alle convenzioni socio-culturali specifiche.
La legge, nelle società c.d. alfabetizzate, si è evoluta in un’istituzione altamente specializzata, prevalentemente basata sulla scrittura ed intimamente connessa all’esercizio del potere sociale. Tali caratteristiche sono riflesse in modo evidente nel linguaggio della legge, ovvero il linguaggio giuridico. L’analisi del suo sviluppo rivela importanti trasformazioni nel passaggio dalla comunicazione orale alla scrittura, nell’aumento della specializzazione e della tecnicità del linguaggio, nonché nell’uso del linguaggio stesso come strumento di esercizio del potere. Come evidenziato da Jackson[2], «le strutture cognitive della legge sono diventate sempre più rappresentative di forme di coscienza scritte». Questo specifico processo è stato documentato anche da Danet e Bogoch[3], i quali hanno analizzato le conseguenze linguistiche del passaggio dai testi giuridici parlati a quelli scritti. Ma è importante notare che, nonostante l’accentuazione della scrittura nella comunicazione legale, ci sono state anche manifestazioni di un ritorno verso forme più orali di comunicazione, come evidenziato dall’uso crescente di registrazioni video e fotografie nei procedimenti legali.
Il linguaggio della legge è caratterizzato da una vasta gamma di tecnicismi, che possono includere termini specifici non comuni nel linguaggio quotidiano, nonché l’uso di parole con significati specifici del contesto giuridico.
La lingua, in tal senso, rappresenta uno dei molteplici fattori che contribuiscono a distinguere una minoranza (linguistica), fungendo da simbolo identitario per una nazione o una comunità specifica. Si deduce, pertanto, che la lingua non è semplicemente l’uso di suoni o simboli scritti per la comunicazione e l’espressione di sé, ma è percepita come un marcatore essenziale dell’identità, intrinsecamente legata alla cultura, e considerata vitale per la sopravvivenza delle minoranze (come gruppi culturali).
Mediante il suo uso, l’individuo sperimenta il proprio senso di identità, individuale e/o comunitario/collettivo. Questo legame tra gli individui, la loro lingua e la loro identità può essere spiegato considerando che ogni lingua ha il suo modo distintivo di concettualizzare il mondo. Tale concetto è al centro dell’ipotesi della relatività linguistica, formulata dai linguisti-antropologi Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf, secondo la quale ogni individuo percepisce il mondo attraverso il filtro della propria lingua madre.
In altre parole, il linguaggio influenza il pensiero e la percezione individuale.
Secondo questa prospettiva, la lingua non è intesa solo come uno strumento di comunicazione, ma anche come un mezzo di organizzazione e categorizzazione del mondo circostante. Le strutture linguistiche e le categorie semantiche presenti in una lingua influenzano la percezione e la comprensione della realtà da parte dei suoi parlanti. Ad esempio, alcune lingue possono avere categorie lessicali o grammaticali che riflettono specifiche sfumature concettuali o culturali che non esistono in altre lingue.
Queste differenze linguistiche possono portare a visioni del mondo e concettualizzazioni della realtà diverse tra gruppi linguistici. Inoltre, l’ipotesi della relatività linguistica suggerisce che il linguaggio non solo riflette la realtà, ma può anche plasmarla ed influenzare il pensiero ed il comportamento degli individui. Ciò implica che la lingua non è solo uno strumento “passivo” di comunicazione, ma anche un’entità dinamica che contribuisce attivamente alla costruzione della suddetta identità individuale e collettiva.
Dunque, il rispetto dell’identità di una persona è intrinsecamente connesso al rispetto della sua lingua. Questo legame è sottolineato dall’Art. 5 della Convenzione quadro sulle minoranze nazionali, secondo cui si promuovono “le condizioni adatte a permettere alle persone appartenenti a minoranze nazionali di conservare e sviluppare la loro cultura, nonché di preservare gli elementi essenziali della loro identità, cioè la loro religione, la loro lingua, le loro tradizioni ed il loro patrimonio culturale”.
In effetti, lo stesso legame tra lingua ed identità è riflesso anche nell’Art. 1 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche. Quando i diritti linguistici vengono limitati o soppressi, viene compromessa la possibilità di mantenere e di sviluppare la propria cultura ed identità. Ciò può portare a processi di assimilazione forzata ed a perdita di diversità culturale, minacciando la coesione sociale. È solo attraverso il riconoscimento ed il sostegno delle lingue delle minoranze che si può realizzare pienamente il principio di uguaglianza ed, latu sensu, il rispetto dei diritti umani.
I diritti (umani) linguistici
Prima di procedere con la trattazione è bene specificare e chiarire alcuni aspetti, ovvero è necessario considerare i seguenti concetti: “diritti linguistici” e “diritti umani linguistici”. Prima di addentrarsi nella ricerca dei “diritti linguistici” nel diritto internazionale e nazionale, sembra opportuno definirne la nozione. È stato affermato, a questo proposito, che l’unica generalizzazione valida che si può fare riguardo alla legislazione linguistica ed ai diritti linguistici è che «il significato pratico dei diritti linguistici non è ancora stato stabilito in nessun luogo[4]».
Nondimeno, è opportuno affermare che la regolamentazione attraverso la legge include sempre, esplicitamente o implicitamente, un aspetto linguistico. Pertanto, i diritti linguistici riguardano le regole che le istituzioni pubbliche adottano riguardo all’uso della lingua in una varietà di diversi contesti.
Dal punto di vista costituzionale, i diritti linguistici si riferiscono ad una particolare lingua o ad un piccolo gruppo di lingue. Non va, però, trascurato che la principale preoccupazione affrontata dalla nozione di diritti linguistici sia la situazione legale dei parlanti di lingue non dominanti o in presenza di più lingue ufficiali senza una lingua dominante. Quando due o più lingue sono ufficialmente riconosciute, nonostante l’uso di formulazioni generiche nelle norme giuridiche ‒ garantendo a chiunque il diritto di utilizzare una qualsiasi lingua ufficiale ‒, lo scopo di questi diritti è quello di consentire ai parlanti della lingua minoritaria di utilizzare la propria lingua anziché la lingua maggioritaria. Ovviamente, anche i parlanti di lingue dominanti hanno diritti linguistici; ma tali diritti sono ben garantiti e attuati dalle regole e dalle pratiche sociali, indipendentemente dal fatto che i loro diritti siano sanciti costituzionalmente o legalmente.
Prima di esplorare gli strumenti del diritto internazionale, sono necessarie due osservazioni preliminari di carattere generale. In primo luogo, sembra esserci una certa confusione tra il diritto internazionale dei diritti umani “soft” e “hard“, soprattutto nei testi non giuridici sui diritti linguistici. Gli strumenti “soft law” (dichiarazioni, raccomandazioni, ecc.) non hanno forma di trattato e, quindi, non vincolano gli Stati.
La Dichiarazione del 1992 dell’ONU sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali, etniche, religiose e linguistiche e le Raccomandazioni di Oslo del 1998 dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) sui diritti linguistici delle minoranze nazionali rientrano in questa categoria.
La seconda osservazione consiste nel ricordare la natura consensuale della formazione del diritto internazionale, che si applica fondamentalmente anche alle norme sui diritti umani. L’elenco degli strumenti giuridici internazionali è lungo, ma la maggior parte di essi segue principi generali del diritto internazionale: come diritti derivanti da trattati, sono vincolanti solo per gli Stati che li hanno ratificati, a condizione che la ratifica non sia soggetta a riserva riguardante il diritto in questione.
Sebbene un gran numero di strumenti internazionali dei diritti umani siano emersi dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (UDHR) del 1948, la natura e l’estensione dei diritti linguistici garantiti da essi si dimostrano molto limitati. Gli strumenti internazionali dei diritti umani, infatti, forniscono un regime di base di tolleranza linguistica, ovvero protezione contro la discriminazione e varie forme di assimilazione (compulsoria, degradante, ecc.). Questa protezione non è concessa attraverso diritti linguistici specifici, ma tramite diritti umani generali, come il diritto a misure antidiscriminatorie, la libertà di espressione, di riunione e associazione e i diritti al rispetto della vita privata e familiare. Queste protezioni sono garantite a qualsiasi individuo, che sia o meno membro di una minoranza. Il Comitato per i Diritti Umani (HRC) è l’organo degli strumenti giuridici incaricato della supervisione del rispetto degli Stati parti al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (CCPR). In un caso riguardante il diritto alla pubblicità commerciale in lingua inglese nel Quebec francofono, l’HRC ha dichiarato: «uno Stato può scegliere una o più lingue ufficiali, ma non può escludere, al di fuori dei settori della vita pubblica, la libertà di esprimersi nella lingua di propria scelta».
Quest’affermazione sottolinea che, mentre gli Stati hanno il diritto di designare una o più lingue ufficiali, non possono limitare la libertà di espressione dei cittadini al di fuori degli ambiti della vita pubblica. Tale principio sottolinea l’importanza della libertà di linguaggio come parte integrante della libertà di espressione individuale e del rispetto della diversità linguistica. Dunque, il diritto di utilizzare la propria lingua madre è un aspetto fondamentale dei diritti umani e dei diritti delle minoranze. Ogni individuo ha il diritto di esprimere la propria identità culturale e linguistica senza discriminazioni o coercizioni.
I diritti linguistici hanno una natura ed un ruolo distinti rispetto ai diritti universali, in quanto sono considerati una costruzione socio-politica degli Stati e sono riconosciuti principalmente a beneficio delle minoranze linguistiche. Questi diritti, poi, riguardano le regole che le istituzioni pubbliche adottano in relazione all’uso della lingua di una determinata minoranza, in una serie di ambiti diversi.
Mentre la libertà di lingua è un diritto immediatamente applicabile e non richiede l’intervento dello Stato per essere effettivamente goduta, la concessione dei diritti linguistici implica l’assunzione di doveri da parte dello Stato stesso.
Ciò significa che lo Stato ha l’obbligo di garantire che i diritti linguistici delle minoranze siano rispettati e promossi attraverso politiche pubbliche e leggi appropriate.
È importante notare che l’uso di una lingua non è limitato alla sfera privata, ma si estende anche alla sfera pubblica, includendo contesti come l’istruzione, la giustizia, i servizi pubblici e la comunicazione con le istituzioni governative.
Conseguentemente, la protezione dei diritti linguistici non riguarda solo la libertà individuale di scegliere la propria lingua, ma anche il diritto collettivo delle minoranze linguistiche di preservare e promuovere la propria identità culturale e linguistica.
Gli studi sui diritti umani hanno tradizionalmente enfatizzato i diritti civili, politici, economici e sociali, trascurando, in parte, i diritti umani linguistici, soprattutto in contesti critici, quali i tribunali ed i servizi pubblici e sociali.
I diritti umani linguistici sono fondamentali e protettivi degli atti e dei valori legati alla lingua, ancorati nella legislazione nazionale, nelle politiche o nei trattati internazionali. Questi diritti comprendono, appunto, sia “diritti individuali” che “collettivi”, permettendo la scelta delle lingue per la comunicazione.
Essi sono suddivisi in diritti fondamentali, come il diritto di parlare la propria lingua, e diritti accessori, come il diritto alla traduzione o interpretazione ed il diritto di apprendere una lingua. L’adozione di strumenti internazionali, quali la “Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni”[5] e la “Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del lavoro sui popoli indigeni e tribali”[6], ha contribuito a riconoscere gli standard e le norme dei diritti umani linguistici a livello globale.
I diritti umani linguistici si focalizzano sulla protezione e la promozione delle lingue e dei loro parlanti e riconoscono il valore intrinseco delle lingue come veicoli di cultura, identità e comunicazione e, come tali, si riflettono in varie dichiarazioni internazionali e trattati, come la “Dichiarazione Universale dei Diritti Linguistici ed il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici”. Per una maggiore precisione, linguistic Human Rights (LHR), i diritti umani linguistici, indicano a livello individuale:
- il diritto ad identificarsi positivamente con la propria lingua e di avere il rispetto degli altri per questa identificazione, indipendentemente dal fatto che la lingua sia di maggioranza o di minoranza;
- il diritto alla lingua madre, definita come “la lingua o le lingue che si sono apprese per prime e con cui ci si identifica” ed il diritto ad apprenderla, a vederla sviluppata nell’istruzione formale che la utilizza come lingua di insegnamento, ad usarla in contesti ufficiali e ad imparare una delle lingue ufficiali dello Stato.
A livello collettivo, invece, comprendono il diritto di:
- esistere per i gruppi minoritari;
- godere e sviluppare la lingua, creando ambienti educativi in cui sia possibile influenzare/controllare i programmi di sviluppo ed apprendimento;
- imparare la lingua ed essere rappresentato nei contesti politici, individualmente e/o come parte di un gruppo;
- poter gestire in modo indipendente ed autonomo e decidere sui temi della comunità riguardanti la cultura, l’istruzione, gli affari sociali e la religione;
- avere le risorse finanziarie necessarie per raggiungere i suddetti obiettivi.
Essi comprendono il diritto che la propria lingua venga usata negli atti giuridici, amministrativi e giudiziari, nell’istruzione e nella trasmissione dei media. Per i gruppi minoritari, l’opportunità di usare la propria lingua può essere di importanza cruciale, poiché protegge l’identità, la cultura individuale e collettiva, nonché la partecipazione alla vita pubblica.
In merito a tale argomento, è da segnalare anche il parere consultivo n. 64 del 1953, relativo alle scuole minoritarie dell’Albania, in cui la Corte permanente di giustizia internazionale ha illustrato un doppio approccio alla tutela delle minoranze.
La Corte, ha specificatamente delineato due componenti principali della protezione delle minoranze, sottolineando che entrambi sono essenziali per garantire una reale parità e tutela dei loro diritti, affermando che:
«[…] la prima consiste nel garantire che i cittadini appartenenti a minoranze razziali, religiose o linguistiche siano posti, sotto ogni aspetto, in condizioni di perfetta uguaglianza con gli altri cittadini dello Stato. Il secondo è quello di assicurare agli elementi minoritari mezzi adeguati per la conservazione delle loro peculiarità razziali, delle loro tradizioni e delle loro caratteristiche nazionali. Queste due esigenze sono in effetti strettamente interconnesse […][7]».
Secondo quanto enunciato, il primo principio afferma che alle minoranze devono essere riconosciuti tutti i diritti stabiliti dalla legislazione, indipendentemente dalla lingua che utilizzano. Ma è importante notare che l’applicazione delle misure di non discriminazione può garantire solo un’uguaglianza formale, in quanto questa non è sufficiente al raggiungimento un’uguaglianza reale. Perciò, per raggiungere questa uguaglianza reale, gli Stati devono adottare misure speciali per assicurare che le minoranze siano in condizioni di parità con la maggioranza. Secondo il principio di uguaglianza, infatti, situazioni diverse devono essere trattate in modo diverso. Pertanto, trattare una minoranza e una maggioranza allo stesso modo potrebbe essere considerato discriminazione nei confronti della minoranza stessa. I diritti orientati alla promozione non conferiscono uno status privilegiato alle minoranze, ma sono strumenti necessari per raggiungere una vera uguaglianza nelle società multiculturali e pluralistiche.
Naturalmente, i sopramenzionati princìpi sono elaborati in una serie di documenti guida esterni, come “la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche”, i “Princìpi dell’UNESCO sulla lingua e l’istruzione”, le varie “Raccomandazioni del Forum delle Nazioni Unite sulle questioni delle minoranze sull’attuazione della Dichiarazione sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche”, il “Commento tematico n. 3 del Consiglio d’Europa sui diritti linguistici delle persone appartenenti a minoranze etniche, religiose e linguistiche” e le “Raccomandazioni di Oslo dell’OSCE sui diritti linguistici delle minoranze nazionali”. Anche l’Art. 19 della “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo” sancisce il diritto fondamentale alla libertà di opinione e di espressione. Sebbene non menzioni esplicitamente la lingua, è implicito che l’espressione umana, in tutte le sue forme, compresa quella linguistica, sia parte integrante di questo diritto. D’altra parte, l’Art. 22 della “Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea”, così come l’Art. 6 della Costituzione Italiana, sottolineano il rispetto per la diversità culturale, religiosa e linguistica. Questo implica il riconoscimento della pluralità delle lingue come parte integrante della ricchezza culturale e dell’identità nazionale e comunitaria.
Nonostante alcune differenze, tali documenti descrivono approcci di base simili per le autorità statali, che devono adempiere ai loro obblighi in materia di diritti umani, riguardanti la lingua. Questi approcci, in particolare, includono:
- rispettare la posizione integrale dei diritti linguistici come diritti umani;
- riconoscere e promuovere la tolleranza, la diversità culturale e linguistica e il rispetto reciproco, la comprensione e la cooperazione tra tutti i segmenti della società;
- disporre di una legislazione e di politiche che affrontino i diritti umani linguistici e prescrivano un quadro chiaro di norme e comportamenti;
- attuare i propri obblighi in materia di diritti umani rispettando in generale il principio di proporzionalità nell’uso o nel sostegno alle diverse lingue da parte delle autorità statali ed il principio della libertà linguistica per i privati;
- integrare il concetto di offerta attiva come parte integrante dei servizi pubblici per riconoscere l’obbligo dello Stato di rispettare e fornire i diritti linguistici, in modo che coloro che utilizzano le lingue minoritarie non debbano richiedere specificamente tali servizi, ma possano utilizzarli immediatamente in caso di necessità;
- disporre di meccanismi di reclamo efficaci presso gli organi giudiziari, amministrativi ed esecutivi per affrontare e risolvere le questioni relative ai diritti umani in campo linguistico.
Considerando quando sopradetto, la definizione più basilare dei diritti (umani) linguistici è il diritto degli individui di utilizzare la propria lingua con altri membri del proprio gruppo linguistico, indipendentemente dallo status della lingua stessa.
I diritti linguistici individuali, inoltre, sono previsti nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, i cui riferimenti principali sono: l’Articolo 2 (tutti gli individui hanno diritto ai diritti dichiarati senza discriminazione basata sulla lingua), l’Articolo 10 (ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta.), l’Articolo 19 (gli individui hanno il diritto alla libertà di espressione, compreso il diritto di scegliere qualsiasi lingua come mezzo di espressione) e l’Articolo 26 (ogni individuo ha diritto all’istruzione, con riguardo alla lingua del mezzo di insegnamento).
Si desume, invero, che il diritto alla lingua ha una storia complessa e variegata nell’ambito del diritto internazionale, e finora non ha trovato basi giuridiche chiare. Una pietra miliare in questo contesto è stata la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa linguistica belga (n. 2, del 1968) 1 EHRR 252, formativa sul diritto all’istruzione ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Protocollo 1, art 2.
I numerosi strumenti giuridici internazionali, in aggiunta, contengono disposizioni con contenuto linguistico implicito che richiedono agli Stati di rispettare e proteggere i diritti linguistici. Ad esempio, la “Convenzione internazionale sui diritti civili e politici del 1966 (ICCPR)” sottolinea diversi diritti linguistici fondamentali, tra cui il divieto di discriminazione basata sulla lingua, il diritto delle minoranze linguistiche di usare la propria lingua e il diritto delle persone accusate penalmente di essere informate dei motivi del loro arresto nella lingua che comprendono.
Altresì, la “Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone appartenenti a minoranze nazionali o etniche, religiose e linguistiche” del 1992 è da considerare come il primo documento internazionale a trattare esplicitamente il diritto alla lingua delle minoranze linguistiche. Allo stesso modo, vari trattati storici e decisioni giudiziarie, come il “Trattato di Unione Perpetua del 1516 tra il Re di Francia e lo Stato Elvetico” , hanno contribuito a plasmare il concetto stesso di diritti linguistici.
Anche le “Raccomandazioni di Oslo” del 1998 e la “Dichiarazione di Vienna” del 1993 forniscono orientamenti specifici sulle questioni relative all’uso delle lingue da parte delle minoranze linguistiche nei vari settori della vita sociale e pubblica. Inoltre, il “Patto internazionale sui diritti civili e politici” del 1966 riconosce i diritti linguistici delle minoranze in vari contesti, inclusi i procedimenti giudiziari ed il diritto all’interpretazione libera per le persone penalmente accusate.
Sebbene il diritto alla lingua non sia stato ancora formalizzato in un documento giuridico completo, diverse disposizioni e precedenti giuridici offrono un quadro normativo per la protezione e la promozione dei diritti linguistici delle minoranze e degli individui a livello internazionale.
La “Convenzione sui diritti dell’infanzia” del 1989 (CRC) e la “Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie” (CPRMMF) del 1990 sono solo due esempi delle molte convenzioni internazionali che garantiscono esplicitamente i diritti linguistici a gruppi specifici, come le minoranze linguistiche. Ulteriormente, le “Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro” (ILO) n. 107 e 169 riconoscono il diritto all’istruzione nella lingua madre dei figli dei lavoratori migranti e delle popolazioni indigene, così come la “Convenzione Internazionale contro la Discriminazione nell’Istruzione” del 1960 e le “Convenzioni di Ginevra” del 1949 confermano ‒ ulteriormente ‒ i diritti linguistici in contesti specifici, come l’istruzione e l’interrogatorio dei prigionieri di guerra.
Ma tra tutti, la “Dichiarazione universale sui diritti linguistici” del 1996 rappresenta un importante documento che si occupa esclusivamente dei diritti linguistici universali. Anche se non vincolante, essa riconosce esplicitamente i diritti linguistici degli individui, dei gruppi e delle comunità linguistiche, aprendo la possibilità per futuri sviluppi legislativi in questo campo.
Paesi come l’India, ad esempio, hanno adottato disposizioni costituzionali riguardanti la lingua. La Costituzione indiana riconosce diverse lingue ufficiali e fornisce disposizioni per l’uso dell’hindi e dell’inglese come lingue ufficiali per la comunicazione.
In particolare, l’Articolo 345 permette ai legislatori degli Stati di adottare una o più lingue per gli scopi ufficiali all’interno dello Stato, mantenendo nel contempo l’uso dell’inglese per quegli scopi per i quali era utilizzato prima dell’entrata in vigore della Costituzione.
Il linguaggio ha dimensioni sociali e politiche rilevanti e le Costituzioni, come norme superiori degli Stati, di solito, non dimenticano di includere disposizioni in materia. Le Costituzioni di 173 Stati del mondo includono effettivamente alcune disposizioni relative alla lingua. Solo 22 Stati non hanno una Costituzione o disposizioni costituzionali relative ad essa[8]. In molti casi in cui manca un riconoscimento costituzionale formale di una lingua ufficiale, non vi è alcun dubbio riguardo all’esistenza di una lingua ufficiale de facto. Però, avere disposizioni costituzionali relative alla lingua non implica necessariamente il riconoscimento di diritti diversi dalla lingua ufficiale.
La maggior parte delle costituzioni proclama semplicemente una determinata lingua (o un certo numero di lingue) come statale, ufficiale o nazionale. Alcune Costituzioni si limitano ad escludere espressamente la lingua, per non creare motivo di discriminazione (ad esempio, l’Art. 3 della Costituzione tedesca[9]).
Analogamente, la Corte Costituzionale Italiana ha ribadito che la protezione delle minoranze linguistiche, che include il diritto di utilizzare la propria lingua madre all’interno della comunità minoritaria, è uno dei princìpi fondamentali dell’ordinamento costituzionale[10]. La giurisprudenza sull’Art. 6 della Costituzione (la Repubblica protegge le minoranze linguistiche con leggi speciali), così come disposizioni simili contenute nei statuti regionali, è piuttosto sofisticata.
Tali disposizioni sono dotate di una doppia natura. Da un lato, si qualificano come “direttive con efficacia differita”, nel senso che il legislatore, secondo la propria discrezionalità, ha la scelta della forma, dei tempi e dei metodi per conseguire l’obiettivo costituzionale, tenendo conto delle condizioni sociali esistenti e della disponibilità di risorse organizzative e finanziarie per la sua attuazione. Le disposizioni costituzionali possono fondare diritti soggettivi e esigibili nella misura in cui siano state adottate le norme e le misure di attuazione necessarie. D’altro canto, le disposizioni sui diritti prevedono anche una protezione minima che è immediatamente applicabile: questa protezione include il diritto di utilizzare la lingua minoritaria e di ottenere, dalle autorità una risposta, nella stessa, sia nelle comunicazioni orali, direttamente o per mezzo di un interprete, sia nella corrispondenza scritta, per mezzo di una traduzione nella lingua minoritaria che accompagna il testo italiano.
Si evince che le Costituzioni e gli ordinamenti giuridici nazionali illustrano una diversità di soluzioni, di approcci e di modelli normativi.
Considerazioni conclusive
«La lingua è un’impronta, l’impronta maggiore della nostra condizione umana».
È una verità apodittica quella recitata dal premio Nobel Octavio Paz.
Il linguaggio è «la casa dell’essere […] quel luogo in cui le cose si mostrano all’uomo[11]», diceva Heidegger. Colto in tale prospettiva, come qualcosa di più di un semplice strumento in dotazione agli esseri umani per condividere esperienze, il linguaggio (Λογος) è il mezzo grazie al quale gli esseri umani comunicano tra di loro, si autodefiniscono, riflettono sulla realtà esterna ed esprimono le proprie emozioni; esprimersi nella propria lingua è sicuramente una di quelle libertà fondamentali, conclamate negli ordinamenti nazionali. La lingua non è solamente un insieme di suoni, parole e grammatica, ma è il risultato di tutti quei connotati storici, sociali, etici e politici che, in quanto tali, la rendono una vera e propria chiave di accesso allo studio ed alla conseguente comprensione degli eventi che hanno portato gli ordinamenti giuridici e le culture, dalle quali questi sono forgiati, ad essere quelli che noi oggi conosciamo.
La libertà di esprimersi attraverso il linguaggio è un diritto umano fondamentale.
A tal riguardo, è certamente un esempio la “Giornata internazionale della lingua madre”, celebrata il 21 febbraio di ogni anno. Essa rappresenta un’importante ricorrenza volta a promuovere la consapevolezza della diversità linguistica e culturale, nonché a sostenere il multilinguismo. Questa iniziativa, annunciata per la prima volta dall’UNESCO il 17 novembre 1999 e formalmente riconosciuta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2008 come parte dell’Anno Internazionale delle Lingue, mira a proteggere e valorizzare tutte le lingue madri nel mondo.
Il 21 febbraio è stato scelto come data per celebrare questa giornata in onore del Movimento per la lingua bengalese del 1952 in Bangladesh, un evento storico che ha sottolineato l’importanza della lingua madre e la sua centralità nell’identità nazionale.
La Costituzione del Bangladesh stabilisce il Bangla, come lingua di Stato (Articolo 3), anche se l’Articolo 153 afferma che il testo autentico della Costituzione deve essere in bengalese e che in caso di conflitto prevalga il testo bengalese; l’uso del Bangla non è ancora obbligatorio in tutti gli uffici governativi e nei tribunali del Paese.
Inoltre, il Bangladesh ospita diverse popolazioni non bengalesi, riconosciute come “tribù, razze minori, sette e comunità etniche”, ognuna con la propria lingua madre.
Nonostante i diritti linguistici siano stati garantiti e riconosciuti da diversi strumenti giuridici internazionali e dalla stessa Costituzione del Bangladesh, l’attuazione di tali diritti non è, ad oggi, adeguata. Pertanto, per garantire il pieno rispetto dei diritti linguistici nel Paese, è necessario che gli organi legislativi, esecutivi e giudiziari adottino misure complete e concrete. Queste misure dovrebbero essere basate su fondamenta solide ed includere politiche e programmi mirati a promuovere l’uso ed il rispetto delle lingue madri, nonché a garantire l’accesso alla giustizia ed ai servizi pubblici in tutte le lingue riconosciute. Il caso del Bangladesh è una esemplificazione, per far comprendere che, in generale, solo attraverso un impegno significativo e sistematico per la tutela dei diritti linguistici sarà possibile assicurare una società inclusiva e rispettosa della diversità linguistica e culturale.
[1] G. VATTIMO, Introduzione ad Heidegger, Laterza, Roma 2010, p. 123.
Note
[1] D. KURZON, ‘Linguaggio giuridico’: Varietà, generi, registri, discorsi. Giornale internazionale di linguistica applicata , 7, pp. 119-139, 1997.
[2] B. JACKSON, Alcuni tratti semiotici di una sintesi giudiziaria in un tribunale penale inglese. Rivista Internazionale di Semiotica del Diritto, pp. 20.201-224, 1994.
[3] B. DANET e B. BOGOCH, Oralità, alfabetizzazione e performatività nei testamenti anglosassoni. In J. Gibbons (a cura di) Lingua e diritto. Harlow: Longmann, pp. 100-135, 1994.
[4] Sul punto, vd. D. A. KIBBEE, “Presentation: Realism and Idealism in Language Conflicts and Their Resolution”, in Douglas A. Kibbee (ed.), Language Legislation and Linguistic Rights: Selected Proceedings of the Language Legislation and Linguistic Rights Conference, the University of Illinois at Urbana-Champaign, March 1996 (J. Benjamin Publishers, Amsterdam, Philadelphia, 1998).
[5] Si veda la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, disponibile al presente link: UNDRIP_E_web.pdf.
[6] Si veda la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sui Popoli Indigeni e Tribali del 1989 (n. 169), disponibile al presente link: Convention C169 – Indigenous and Tribal Peoples Convention, 1989 (No. 169) (ilo.org).
[7] Corte permanente di giustizia internazionale, Grecia contro Albania, parere consultivo n. 64 sulle scuole minoritarie in Albania, serie A/B, 6 aprile 1935, disponibile al presente link: Minority Schools in Albania, Advisory Opinion, 6 April 1935, Permanent Court of International Justice (PCIJ) (worldcourts.com).
[8] Rif.: Angola, Australia, Bhutan, Chile, Czech Republic, Denmark, Dominican Republic, Guinea Bissau, Iceland, Israel, Japan, Korea (Republic of), Myanmar, Netherlands, San Marino, Sierra Leone, Swaziland, Tonga, Trinidad and Tobago, United Kingdom, United states of America, and Uruguay.
[9] Art. 3 [Uguaglianza davanti alla legge], comma 3: «nessuno può essere discriminato o favorito per il suo sesso, per la sua nascita, per la sua razza, per la sua lingua, per la sua nazionalità o provenienza, per la sua fede, per le sue opinioni religiose o politiche. Nessuno può essere discriminato a causa di un suo handicap».
[10] Sul punto, vd. Sentenza 298/1987 (“uno dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale che si pone come limite e al tempo stesso come indirizzo per l’esercizio della potestà legislativa (e amministrativa) regionale e provinciale nel Trentino-Alto Adige”), Sentenza 5/1992 (“il diritto all’uso della lingua materna nell’ambito della comunità di appartenenza è un aspetto essenziale della tutela costituzionale delle minoranze etniche, che si collega ai principi supremi della Costituzione”) e Sentenza 22/1996 (“rappresenta un superamento delle concezioni dello Stato nazionale chiuso dell’Ottocento e un rovesciamento di grande portata politica e culturale, rispetto all’atteggiamento nazionalistico manifestato dal fascismo”).
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Ed è proprio in tale interconnessione che risiedono le problematiche e le tensioni della cittadinanza negli Stati contemporanei.
La comparsa, nell’ordinamento internazionale e negli ordinamenti nazionali, del “diritto alla cittadinanza” è la più plastica espressione di tali tensioni.
Il volume discute dei problemi relativi all’interpretazione e all’attuazione di tale diritto, nonché delle sue prospettive future, nel contesto di costante trasformazione sociale dei Paesi della tradizione liberale.
Sono oggetto di analisi i riflessi sulla dimensione costituzionale del diritto alla cittadinanza degli ordinamenti internazionale, regionale e dell’Unione Europea, le problematiche del diritto all’acquisto della cittadinanza e infine gli effetti su tale diritto della revoca della cittadinanza, che ha conosciuto un recente revival, nel quadro della crisi delle politiche del multiculturalismo e delle misure di contrasto al terrorismo.
Emerge un quadro complesso e problematico, nel quale il diritto alla cittadinanza è oggetto di costante bilanciamento con la sovranità nazionale, che sollecita una riflessione sull’ammissibilità – e sull’effettività – di tale diritto negli ordinamenti pluralistici contemporanei, fondati sul riconoscimento del carattere universale dei diritti umani e della dignità quale principio giuridico fondamentale.
Maria Dicosola
Professoressa associata di Diritto pubblico comparato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari “A. Moro”.