Licenziamento: aspetti sostanziali e processuali alla luce del rito Fornero e del Jobs Act

in Giuricivile, 2018, & (ISSN 2532-201X)

Le evoluzioni interpretative dei licenziamenti, sia per le causali che per gli effetti, dopo i grandi cambiamenti introdotti con la “legge Fornero” nel 2012 ed il Jobs Act del 2015. La questione fra “fatto materiale” e “fatto giuridico”, ed i problemi ancor più complessi dei  licenziamenti  per giustificato motivo oggettivo e l’onere del repêchage. Conclusioni ed auspici.

Sommario: 1 -Introduzione; 2- La Tutela reintegratoria negata nel licenziamento per motivo oggettivo; 3- Le “ragioni” del giustificato motivo oggettivo; 4- Del repêchage; 5- La scelta del rito; 6- La fissazione di udienza e la trattazione del Ricorso in base alla natura della domanda; 7- Similitudini codicistiche; 8- Periculum in mora archiviato;  9- Conclusioni.

 1 – Introduzione

Se il legislatore, in questi ultimi anni, avesse soprasseduto ad intervenire nuovamente sul tema del licenziamento, già messo a nuovo dalla L. n. 92/2012, potrebbe oggi contare sulla giurisprudenza di legittimità in via di formazione proprio sul novellato art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

L’applicabilità del D.Lgs. n. 23/2015 ai soli rapporti di lavoro subordinato instaurati dopo il 7 marzo 2015, con una successione dei regimi legali previsti dalla legge Fornero e dal Jobs Act, sarà cadenzata dalla progressiva sostituzione dei lavoratori, cosa che solo per risultare significativa richiederà molti anni.

Il legislatore ha cercato, di trovare un nesso di continuità fra la legge Fornero ed il Jobs Act, in quanto entrambe presentano i caratteri della formula europea, della flexsecurity: vale a dire di una sorta di relazione di scambio fra minor tutela nel rapporto e maggior protezione nel mercato.

Con il Jobs Act è emersa addirittura una rottura definitiva rispetto alla stagione statutaria, residualmente ancora contenuta nella legge Fornero. Si è parlato di un mutamento di paradigma, con il prevalere di un approccio economico che restituisce all’impresa il primato nella relazione con il lavoro, in quanto vista come la sede elettiva per la produzione e il mantenimento di occupazione, e come tale bisognosa di una larga libertà di azione.

Da questo punto di vista, la legge Fornero ha riscritto un po’ l’art. 18, che però rimane incorporato nello Statuto, se pur con la quadruplicazione della disciplina sanzionatoria; ma è stato il Jobs Act a spingersi ben oltre, rimettendo in discussione i tre articoli base della c.d. anima Costituzionale dello Statuto: ha espunto l’art. 18 dal regime applicabile al contratto a tutele crescenti[1]; ha saltato l’art. 13 con riferimento esclusivo al novellato art. 2103 c.c., ed, infine, ha liberalizzato l’art. 4.

Le disposizioni dell’articolo 1, commi da 48 a 68, della legge 92/12 non si applicano ai licenziamenti intimati all’esito del contratto di lavoro a tutele crescenti.

La decisione di eliminare il rito Fornero per i nuovi contratti di lavoro a tutele crescenti risiede nel fatto che il nuovo apparato sanzionatorio è totalmente svincolato dal precedente regime di tutela previsto dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che costituisce, invece, la norma di riferimento sulla quale era stato ritagliato il rito abbreviato per le controversie in materia di impugnazione dei licenziamenti.

La sequenza più significativa è data dalla progressiva emarginazione della reintegra in sé e per la sua ricaduta, in quanto la stessa giurisprudenza di legittimità aveva visto proprio nella reintegra l’espressione della tesi condivisa del licenziamento come extrema ratio; sicché tale progressiva emarginazione non poteva che indebolire una tesi come quella in parola, non tale da trovare di per sé sola una persuasiva copertura costituzionale.

A risentirne, come si vedrà, sarà soprattutto il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per quanto attiene sia alle ragioni sia al repêchage, che si alimentavano proprio dalla tesi dell’extrema ratio, sì da trovarsi oggi privati della loro maggiore giustificazione.

2- La Tutela reintegratoria negata nel licenziamento per motivo oggettivo

Come si è avuto occasione di precisare più di una volta, fino a divenire una nota largamente condivisa in dottrina, la svolta che ha avuto luogo fra il 2012 ed il 2014, non avrebbe riguardato le “causali” del  licenziamento, ancorate all’art. 2119 c.c. ed all’art. 3, della L. n. 604 /1966, destinate a rimanere, quanto alla giusta causa, “una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”; e, rispettivamente, quanto al giustificato motivo “un notevole inadempimento agli obblighi contrattuali ovvero … ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”.

Non è mancato di rilevare come la stessa modifica del sistema sanzionatorio abbia potuto avere una qual sorta di retro-azione sulle causali, con particolare riguardo al  licenziamento  per giustificato motivo oggettivo, sterilizzandone le “ragioni” e azzerandone il repêchage. Resta interessante notare come sia la stessa L. n. 92/2012 a introdurre nella lingua legislativa le espressioni giustificato motivo soggettivo per il “notevole inadempimento” e giustificato motivo oggettivo per le “ragioni”, collocandoli e sanzionandoli diversamente nell’ambito del novellato art. 18 Stat. lav.

A rileggerlo questo articolo appare costruito a strati, che rivelano il primitivo intento di ridimensionare significativamente la reintegra che era rimasta, nonostante tutto, la sanzione unica ed esclusiva della mancanza della giusta causa e del giustificato motivo; intento, peraltro, che nel corso dei lavori ha dovuto fare i conti con una forte resistenza, sì da risultare diluito secondo la ragione apparente del “torto” del datore di lavoro, con un decrescendo dalla tutela reintegratoria piena del  licenziamento  discriminatorio alla tutela risarcitoria debole del  licenziamento  affetto da vizi formali o procedurali.

Quel che emerge in modo netto ed inequivoco è che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non avrebbe dovuto contemplare alcuna tutela reintegratoria, tanto da essere recuperata alla meglio solo nel settimo comma, con una formula costruita a ricalco di quella usata per il licenziamento per giustificato motivo soggettivo di cui al quarto ed al quinto comma del novellato art. 18 Stat. lav., con in più qui il riconoscimento al giudice di un “può” e non di un “deve” circa la concessione di una reintegra debitamente maturata.

Il ricalco della formula è evidente, parlandosi nel comma 4 di “insussistenza del fatto contestato” e nel comma 7 di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del  licenziamento ”, con un decrescendo di rilevanza, costituito, nel passaggio, da un comma all’altro, dalla inserzione dell’aggettivo “manifesta”, croce e delizia di generazioni di interpreti; ma è un ricalco forzato perché nel giustificato motivo soggettivo un fatto più o meno articolato c’è, quello appunto contestato; mentre nel giustificato motivo oggettivo può ben essere sostituito da un mix di situazioni e valutazioni non riconducibili ad un fatto in senso proprio.

A riconsiderarla a posteriori, la prima dottrina rivela un’attenzione più vivace proprio nei confronti del  licenziamento per giustificato motivo soggettivo, per cui, in assenza sua o della giusta causa, è sancita la tutela reintegratoria attenuata “per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”; e, rispettivamente la tutela risarcitoria forte “nelle altre ipotesi”.

Il punctum dolens risultava costituito proprio dal come dovesse essere letta ed interpretata l’espressione “fatto contestato”, dividendosi nelle due ipotesi battezzate come quella del “fatto materiale” e quella del “fatto giuridico”. Nelle loro versioni più radicali quello indicato come “materiale” era il fatto assunto nel suo carattere storico, di accadimento, così da poter essere predicato con un “c’è o non c’è”, senza alcun margine discrezionale, esponendosi peraltro alla critica che in tal modo sarebbe stato in grado di ricomprendere anche un accadimento lecito; quello, invece qualificato come “giuridico” era il fatto preso nel suo carattere giuridico, di inadempimento, completo nel suo elemento soggettivo e oggettivo, così da dover essere valutato con un inevitabile margine discrezionale, dando vita comunque alla riserva che in tal modo il relativo giudizio di sussistenza-insussistenza avrebbe coinciso con quello già previamente formulato sulla presenza-assenza della giusta causa e del giustificato motivo. 

3- Le “ragioni” del giustificato motivo oggettivo

Come notato la L. n. 92/2012 non riuscì a realizzare l’obiettivo di eliminare la tutela reintegratoria per il  licenziamento  per giustificato motivo oggettivo risultato infondato, mantenendola formalmente come possibilità rimessa nelle mani del giudice per l’ipotesi di manifesta insussistenza del fatto posto a base del  licenziamento . Una formula ricalcata su quella per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo risultato privo di fondamento, secondo un decrescendo della stessa tutela reintegratoria, ma di fatto relativa ad una realtà molto diversa, a cominciare dalla problematica individuazione di un fatto storico cui fare riferimento.

Stando all’art. 3, L. n. 604/1966 quello battezzato dalla giurisprudenza ed oggi dalla stessa legge come licenziamento per giustificato motivo oggettivo sarebbe “determinato … da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, espressione che troverebbe riscontro nell’art. 24, L. n. 223/1991, laddove definisce il  licenziamento  collettivo come “conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività di lavoro”. Sul che concorderebbe la stessa giurisprudenza di legittimità, che, fra l’altro trova conferma nella riconduzione attuata dalla Legge delega n. 183/2014 sul licenziamento per giustificato motivo oggettivo e sul licenziamento  collettivo nella categoria del licenziamento economico; ma, poi, si contraddice ritenendo sindacabile l’esistenza delle “ragioni” del giustificato motivo oggettivo, ma insindacabile l’esistenza della “riduzione o trasformazione” alla base del  licenziamento collettivo.

Nel tempo si è consolidato presso la S.C. un orientamento maggioritario per cui come recita magistralmente nella Sentenza Cass. n. 5173/2015, “il  licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, della L. 15 luglio 1966, n. 604, ex art. 3, è determinato non da un generico ridimensionamento dell’attività imprenditoriale, ma dalla necessità di procedere alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore, soppressione che non può essere meramente strumentale ad un incremento del profitto, ma deve essere diretta a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti”. E con un indirizzo minoritario meno risalente, che trova conferma nella recente Cassazione n. 25201/2016 secondo cui gli “effetti di ristrutturazione organizzativa” possono “essere originati dall’obiettivo di una migliore efficienza gestionale e produttiva ovvero finalizzati ad un incremento della redditività dell’impresa (e quindi eventualmente del profitto) e non solo determinati dalla necessità di fare fronte a situazioni economiche sfavorevoli non contingenti oppure a spese straordinarie”.

Come già sottolineato ci si trova qui di fronte ad un allineamento al clima in cui è stato partorito il D.Lgs. n. 23/2015, con una sorta di reazione sincronica della “causale” del  licenziamento per giustificato motivo oggettivo alla modifica della disciplina sanzionatoria attuata tramite l’eliminazione della tutela reintegratoria a favore di una meramente risarcitoria. Come ben descritto in motivazione la base di partenza è costituita dalla convinzione che la salvaguardia dei livelli di occupazione possa richiedere una maggiore flessibilità con riguardo a singoli posti di lavoro, cui consegue che la stabilità individuale non è più considerata un valore assoluto, tale da configurare il licenziamento come extrema ratio. 

Questa convinzione porta ad una rilettura dell’espressione con cui l’art. 3, L. n. 604/1966 definisce il giustificato motivo oggettivo, cioè “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”, che lo libera da precedenti superfetazioni giurisprudenziali, rendendo “neutre” le ragioni, cioè date sia da situazioni sfavorevoli che favorevoli, da perdite che da guadagni, da contenimento dei costi che da incrementi dei profitti. Rilettura, questa, che restituisce libertà di azione all’impresa, permettendole di adeguare il suo organico così a necessità “esterne”, di contenimento della perdita imposte dal mercato come a convenienze “interne”, di miglioramento dell’efficienza, decise dall’imprenditore, con rispondenza all’art. 41 Cost., che nel suo comma 1 prescrive la libertà dell’iniziativa economica privata; e se nel secondo comma stabilisce dei limiti esterni, tali limiti ai sensi del comma 3 possono essere previsti solo dalla legge.

E qui la legge non tace. Parlerebbe, addirittura, in senso conforme con l’art. 30, comma 1, L. n. 183/2010, per cui nei casi nei quali disposizioni di legge “contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente”. Disposto, questo, ulteriormente rafforzato dall’art. 1, comma 43, L. n. 92/2012, che aggiunge a quel testo dell’art. 30 “l’inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto”. Né è dato trovare alcuna norma dell’ordinamento comunitario che contrasti tale interpretazione.

Segue una elencazione di casi già affrontati e risolti nello stesso senso dalla S.C.; elencazione proposta dalla Cassazione n. 25201/2016 come non esaustiva, ma comunque ritenuta idonea a dar concretezza alla interpretazione privilegiata, su cui si avrà occasione di ritornare.

La Corte è consapevole di esporsi alla critica che una siffatta lettura, spostando l’asse di equilibrio dalle necessità “esterne”, di contenimento della perdita dettate dal mercato come a convenienze “interne”, di miglioramento dell’efficienza, permetta di bypassare il giustificato motivo oggettivo, dando luogo sostanzialmente ad un licenziamento ad nutum e articola la sua difesa come segue:

  1. a) intanto per giurisprudenza delle stessa Corte non sarebbe comunque ammesso “il perseguire il profitto (o il contenimento delle perdite) soltanto mediante un abbattimento del costo del lavoro realizzato con il puro e semplice licenziamento d’un dipendente che, a sua volta, non sia dovuto ad un effettivo mutamento dell’organizzazione tecnico-produttiva, ma esclusivamente al bisogno di sostituirlo con un altro da retribuire di meno, malgrado l’identità (o la sostanziale equivalenza) delle mansioni”;
  2. b) “resta saldo il controllo sulla effettività e non pretestuosità della ragione concretamente addotta dall’imprenditore a giustificazione del recesso”, cosicché, “se il licenziamento è motivato dall’esistenza di una crisi aziendale o di un calo di fatturato”, senza, peraltro, che il datore riesca a provarlo, il  licenziamento  risulterà ingiustificato;
  3. c) “deve sempre essere verificato il nesso causale tra l’accertata ragione inerente l’attività produttiva e l’organizzazione del lavoro come dichiarata dall’imprenditore e l’intimato licenziamento in termini di riferibilità e di coerenza rispetto all’operata ristrutturazione”.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha stabilito: “La combinazione di siffatti controlli e limiti, oltre le comuni tutele del lavoratore dagli atti del datore, esclude che il potere di questi di risolvere il rapporto per motivazioni economiche possa essere assimilato ad un recesso ad nutum”.

 4- Del repêchage

L’obbligo di repêchage, istituto di natura giurisprudenziale elaborato a seguito dell’introduzione dell’art. 18, L. 300/1970.

Secondo una consolidata giurisprudenza, costituirebbe una componente del giustificato motivo oggettivo, l’istituto del repêchage, che non pare aver risentito del mutamento legislativo, pur potendosi far valere sia l’argomento letterale – di essere del tutto estraneo alla definizione di cui all’art. 3, L. n. 604/1966-, sia l’argomento logico nel costituire una evidente forzatura rispetto alla libertà di gestione dell’impresa. Insomma si potrebbe recepire di peso la motivazione della Cassazione n. 25201/3016, limitandosi a cambiarne l’oggetto, per escludere la sopravvivenza dell’istituto in parola dopo l’ultima legislazione.

Non sembra essere messa in discussione nella giurisprudenza di legittimità la tendenza ad allargarne l’ambito, ritendendolo applicabile anche con riguardo a mansioni inferiori o richiedenti un breve percorso formativo, nonché a società appartenenti allo stesso gruppo, anche tramite lo strumento del distacco. Anzi, se c’era stato in passato un alleggerimento dell’onere probatorio circa l’impossibilità del repêchage scaricato sulle spalle dell’imprenditore, col richiedere una collaborazione dello stesso lavoratore, sotto forma dell’allegazione di circostanze favorevoli ad una sua ricollocazione; una recente sentenza della Cassazione n. 5592/2016 è venuta a confermare una corrente giurisprudenziale minoritaria, per cui sul datore di lavoro “incombe pertanto la prova, secondo la previsione della L. n. 604 /1966, art. 5 della … ricorrenza del giustificato motivo in tutti i suoi elementi costitutivi, in essi compresa l’impossibilità di repêchage, senza alcun onere sostitutivo del lavoratore alla sua controparte datrice sul piano dell’allegazione, per farne conseguire un onere probatorio (offrendogli, per così dire, l’affermazione del fatto da provare)”.

In via ipotetica si potrebbe pensare all’emergere di una qual sorta di formula compromissoria, per la quale la riqualificazione delle ragioni del giustificato motivo oggettivo, nel senso che possono essere costituite da riorganizzazioni decise autonomamente dal datore di lavoro, si accompagni ad una conferma del repêchage, per di più rafforzato dal caricamento integrale dell’onere probatorio sullo stesso datore di lavoro. Ma si potrebbe pensare anche il contrario, cioè che la vista riqualificazione delle ragioni del giustificato motivo oggettivo, conduca ad una lenta, ma progressiva emarginazione dell’istituto, esposto alle stesse riserve circa la sua estraneità alla lettera dell’art. 3, L. n. 604/1966 e la sua intrusione nella sfera gestionale di spettanza esclusiva del datore di lavoro.

Certo che dopo la novella dell’art. 18 Stat. lav. non si era mancato di rimettere in discussione il repêchage, considerandolo un artificioso escamotage giurisprudenziale, dall’ambito applicativo assai incerto, fino a ritenerlo superato o almeno elemento esterno al giustificato motivo, tanto che ai sensi del comma 7 dello stesso art. 18 St. il suo eventuale difetto non avrebbe integrato gli estremi della manifesta infondatezza del fatto posto a base del  licenziamento, dando luogo solo alla tutela risarcitoria.

A complicare ulteriormente le cose è intervenuto il nuovo art. 2103 c.c., così come novellato dall’art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015, che amplia lo ius variandi, estendendolo alle “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”; nonché “in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore” a “mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale”, mantenendo, peraltro lo stesso livello e la stessa retribuzione.

Dati gli attuali inquadramenti dei contratti collettivi che distribuiscono i lavoratori su un numero limitato di livelli o categorie, raggruppandovi mansioni professionalmente le più diverse, ma considerate meritevoli delle stesse retribuzioni, diventa difficile individuare gli effettivi limiti dello ius variandi orizzontale, pur dando per scontato, come non è, l’obbligo di un previo percorso formativo, nonché dello stesso repêchage. Certo si fa gran conto della contrattazione collettiva che dovrebbe riscrivere gli inquadramenti, individuando aree di “fungibilità” fra le mansioni collocate allo stesso livello; ma a stare ai rinnovi effettuati dopo l’entrata in del D.Lgs. n. 81/2015 è una fiducia mal riposta, sicché per un intanto destinato a durare, la giurisprudenza dovrà riesumare qualcosa simile alla vecchia gloriosa “equivalenza”, peraltro con un tasso maggiore di discrezionalità.

Ancor peggio nel caso dello ius variandi in peius, che si è visto il datore può utilizzare in presenza di una certa situazione, peraltro mantenendo livello e retribuzione, facendo così presumere trattarsi di un intervento transitorio. In che modo quanto qui disposto si raccorda con il repêchage esteso anche a mansioni inferiori, come ritenuto da certa giurisprudenza? Non c’è che attendere la risposta che daranno dottori e giudici in un futuro prossimo venturo.

 4 -La scelta del rito

Preliminarmente, appare opportuna un’analisi della riforma del rito per l’impugnazione dei licenziamenti dettata dalla legge 92/2012 (c.d. rito Fornero): nel processo, il rito è scelto sempre dal giudice in base alla domanda; vale sì il principio di prospettazione, ma non il principio dell’intestazione del ricorso; è il giudice che deve decidere sul rito qualificando la domanda, ab initio, così come prospettata dall’attore in base al petitum ed alla causa petendi.  Questa la sequenza logica: la parte propone la domanda, il giudice la qualifica e decide il rito.- Pertanto, se il ricorso contro un licenziamento ex art. 18 non è qualificato ai sensi della legge 92/12 bensì proposto ai sensi del’art.414 c.p.c. il giudice lo tratta ex lege 92/12.

Il rito Fornero determinò, sin dalla sua prima applicazione enormi disagi per gli addetti ai lavori, chiamati ad utilizzare il nuovo strumento processuale, in quanto si erano rivelate letture di segno opposto rispetto ad una serie molteplice di questioni procedurali. Sono state innumerevoli le decisioni rese dai Tribunali su aspetti decisivi del nuovo procedimento, quali la natura obbligatoria o facoltativa del rito e la necessità che il Giudice dell’opposizione fosse, o meno, diverso da quello che aveva trattato la fase sommaria.

4- Fissazione di udienza e trattazione del Ricorso in base alla natura della domanda

Se in un ricorso con la legge 92/12 si aziona soltanto una domanda qualsiasi, diversa da quelle esplicitamente ammesse (riguardanti licenziamenti ex art.18 o qualificazioni di rapporto preliminari ai licenziamenti o fondate sugli stessi fatti costitutivi), oppure soltanto la tutela obbligatoria, anche qui il Giudice, dopo aver letto il ricorso, fissa l’udienza ai sensi dell’art. 420 c.p.c. e lo tratta come un ricorso ex art.414 c.p.c. E quando al giudice sia sfuggita la natura vera della domanda introdotta col ricorso, potrà egli sempre disporre il mutamento del rito, anche d’ufficio, nel corso del giudizio ai sensi degli artt. 426 e 427 c.p.c.

Nell’ipotesi in cui nella causa proposta come impugnativa di un licenziamento ex art. 18 risulti (non in base alla domanda, ma in seguito all’istruttoria) che il licenziamento rientri nella tutela obbligatoria, il giudice deve decidere anzitutto nel merito, senza mutare rito, nè tantomeno dichiarare l’inammissibilità della domanda. Perché qui il ricorso è stato proposto bene (è rituale), in base alla domanda svolta; ed il giudice deve quindi decidere nel merito la domanda svolta (sulla tutela reale); respingendola.

L’intenzione del legislatore con la riforma “Fornero” è stata quella di creare un processo celere applicabile alle controversie instaurate dopo il 18 luglio 2012, ed aventi ad oggetto l’impugnativa del licenziamento ed eventuali problematiche di qualificazione del rapporto di lavoro ad esso collegate. In particolare, l’obiettivo del Legislatore è stato quello di creare una fase sommaria preliminare (che si svolge comunque davanti al Tribunale in composizione monocratica secondo le ordinarie norme in tema di competenza dettate dal Codice di rito) fisiologicamente destinata ad esaurirsi in un’unica udienza e che si conclude con un’ordinanza che accoglie o rigetta la domanda. Ciò lo si può ricavare dal tenore letterale del comma 49, dello stesso articolo 1, della predetta legge 92/2012. Dispone, infatti, tale norma che “il giudice, sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d’ufficio ai sensi dell’art. 421 c.p.c., e provvede,con ordinanza  immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda.” Ovviamente non è da escludersi la possibilità che il Giudice decida di fissare una nuova udienza al fine di sentire sommari informatori, ovvero di acquisire i mezzi di prova ritenuti indispensabili ai fini del decidere. Questo è dunque il provvedimento con cui termina la prima fase.

5- Similitudini codicistiche

Il rito speciale Fornero per certi versi ha alcune similitudini con il giudizio abbreviato, istituto processuale italiano del ramo penale, previsto e disciplinato dall’art. 438 e segg. del c.p.p, rito speciale, poiché, entrambi i riti  sono caratterizzati dal fatto che con essi si evitano le lungaggini dei giudizi ordinari e la decisione viene presa, tendenzialmente allo stato degli atti. La soluzione preferibile, in caso di licenziamento,  sarebbe quella di dare pero’ la facoltà ai cittadini di scegliere tra una pluralità di strumenti processuali: cio’ arricchirebbe  la garanzia dei diritti.

6- Periculum in mora archiviato

Del resto, se è vero che nella pratica quotidiana il “rito Fornero” si è mostrato del tutto inidoneo a disciplinare casi di licenziamento complessi ed articolati, e cio’ in ragione della sua natura eccessivamente sommaria e compressa, è altresì vero che nei casi di licenziamento piu’ semplici ed elementari (non infrequenti, quali ad esempio quelli verbali privi di forma scritta) la sommarietà e l’estrema speditezza del rito si sono rivelati un elemento positivo, che ha consentito la decisione e la soluzione dei casi in poche settimane, prescindendo dal requisito del “periculum in mora” che spesso è stato il filtro e l’ostacolo alla tutela d’urgenza dei licenziamenti impugnati in precedenza con lo strumento cautelare ex art. 700 c.p.c.-

7- Conclusioni

Si potrebbe dunque pensare ad un’articolazione degli strumenti di tutela processuale analoga al processo penale, con la scelta –e la correlativa responsabilità- rimessa totalmente alla parte, e al suo difensore, tra il “rito Fornero” sommario e “allo stato degli atti”, analogamente al rito penale abbreviato, e il processo ordinario ai sensi dell’art. 414 c.p.c. “a cognizione piena” e con durata piu’ estesa, analogamente al processo penale “dibattimentale”, in cui viene dato ampio spazio alle prove ed all’accertamento giurisdizionale.


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