Licenziamento intimato in forma orale e onere della prova

in Giuricivile, 2019, 4 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. Lav., sent. n. 3822 del 08.02.2019

Con la recente sentenza n. 3822, in data 08.02.2019, la Suprema Corte, sezione lavoro, è tornata a pronunciarsi sul tema del licenziamento orale, in relazione all’annosa questione del riparto dell’onere della prova in punto di avvenuta cessazione del rapporto lavorativo e dell’individuazione del soggetto cui risulta riconducibile  la manifestazione di volontà del recesso.

Il caso e la questione affrontata

La questione sottoposta all’attenzione della Corte di Cassazione prendeva le mosse dal ricorso proposto da un lavoratore dipendente vòlto all’impugnazione del licenziamento pretestuosamente intimato nei propri confronti, pur in assenza del rispetto del requisito della forma scritta richiesta dalla legge, dal datore di lavoro.

Quest’ultimo, di contro, eccepiva, nella propria tesi difensiva, come la cessazione del rapporto di lavoro non fosse da ricondursi ad una manifestazione di volontà datoriale, bensì ad una scelta in tal senso effettuata dal lavoratore.

Si poneva, dunque, dinanzi al giudicante la questione afferente all’asserita estromissione del lavoratore dal posto di lavoro, unitamente a tutte le conseguenze in tema di distribuzione dell’onere della prova tra il lavoratore che agisca in giudizio impugnando un preteso licenziamento intimato verbalmente e il datore di lavoro che affermi come la cessazione del rapporto lavorativo non sia ascrivibile ad una sua iniziativa unilaterale tesa alla risoluzione del contratto.

Se, dunque, la circostanza della cessazione del rapporto di lavoro poteva, nel caso esaminato, dirsi agli atti di causa incontestata dalle parti, la Corte d’Appello non aveva, tuttavia, ritenuto provate le dimissioni del lavoratore, sì come eccepite dalla società datrice di lavoro.

Veniva proposto ricorso per Cassazione da trattarsi in pubblica udienza e non in camera di consiglio, in considerazione delle “disarmonie” della giurisprudenza di legittimità in riferimento alle questioni oggetto di esame.

In virtù di tali ragioni, la Suprema Corte ha inteso effettuare talune rilevanti chiarificazioni in punto di riparto dell’onere della prova, giacché, a seguito di pronunce divergenti anche con riferimento a vicende processuali contigue, si era delineata una situazione di incertezza ermeneutica.

Al pregevole scopo di evitare il proliferarsi di ulteriori dubbi applicativi, in particolare con riferimento a questioni di tale delicatezza, come quelle afferenti al rapporto di  lavoro, tenuta in considerazione la rilevanza anche costituzionale che siffatto diritto assume nel nostro ordinamento giuridico, la Corte di Cassazione ha ritenuto di effettuare un’analisi approfondita anche dei più significativi precedenti, debitamente contestualizzati, per poi elaborare importanti principi di diritto.

La decisione della Suprema Corte

La giurisprudenza di legittimità aveva già avuto modo di evidenziare come il fatto costitutivo del diritto alla riassunzione e reintegrazione nel posto di lavoro, indicato dalla L. n. 300/1970, nota come Statuto dei lavoratori, sia rappresentato dal licenziamento da parte del datore di lavoro, di talché la prova gravante sul dipendente concerne l’estromissione e la cessazione del rapporto per manifestazione di volontà ascrivibile al primo, mentre la controdeduzione a mezzo della quale controparte asserisce che trattasi di dimissioni volontarie, costituisce oggetto di un’eccezione in senso stretto ex art. 2697 c.c., norma cardine in punto di riparto dell’onus probandi.

Peraltro, la differenza tra recesso del lavoratore e licenziamento quanto alla qualificazione del relativo atto e/o comportamento, non presenta una rilevanza puramente teorica o meramente descrittiva, non essendo certo scevra di importanti risvolti operativi.

La Suprema Corte aveva già avuto modo di chiarire, fra le altre,  con sentenza n. 4717/2000, o, ancora, n. 14977/2000, o n. 21684/2011, come oggetto della prova da parte del lavoratore sia costituito dalla dimostrazione dell’estromissione, mentre sul datore di lavoro gravi l’onere di comprovare, se del caso, le dimissioni del dipendente costituenti, come anticipato, eccezione non rilevabile anche d’ufficio dal giudicante adìto.

Tuttavia, parte della successiva giurisprudenza di legittimità con talune pronunce aveva affermato che, attesa la natura giuridica del licenziamento quale atto unilaterale a mezzo del quale il datore di lavoro manifesta la volontà di recedere dal rapporto di lavoro instauratosi a seguito della stipulazione del relativo contratto individuale, non potrebbe la parte che abbia subìto tale decisione provare adeguatamente una circostanza che concerne la sfera volitiva altrui (cfr. ex multis, Corte di Cassazione, sent. n. 10651/2005, n. 5918/2005, n. 22854/2002).

Ex adverso, si era, però, obiettato come non possa essere contestato che il licenziamento in quanto tale rappresenti, invece, fatto costitutivo della domanda del ricorrente di impugnazione del predetto, non vigendo in materia alcuna presunzione o regola che determini l’inversione dell’onere della prova in capo al datore di lavoro per cui il lavoratore possa limitarsi alla mera allegazione di circostanze.

Dalla lettura dell’art. 2697 c.c. e dall’impianto codicistico in generale si evince, al contrario, come nel nostro sistema giuridico, il fatto costitutivo della domanda, il licenziamento appunto, debba essere rigorosamente provato da parte di chi affermi che la cessazione del rapporto di lavoro sia riconducibile alla volontà di recesso datoriale, mentre il datore di lavoro potrà limitarsi, in chiave difensiva, alla negazione della prospettazione del ricorrente.

Tale ricostruzione muove, altresì, dalla  necessità di evitare un esonero, peraltro non giustificato normativamente, o un alleggerimento in favore del lavoratore dell’onere della prova che gli compete per legge (cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 6727/2001).

Punto comune di entrambe le contrapposte ricostruzioni ermeneutiche si rinviene, invece, nella considerazione tale per cui qualora in giudizio si contrappongano le due tesi del licenziamento da un lato e delle dimissioni dall’altro, al giudice di merito competa una stringente e delicata valutazione, anche in considerazione delle conseguenze giuridiche che derivano da tale operazione di qualificazione, per poter affermare che sia stato il lavoratore a rinunciare al bene giuridico di rilevanza primaria costituito dal lavoro (cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 6900/2016, n. 1556/2016).

In definitiva la Suprema Corte, dopo aver ricostruito il complesso quadro giurisprudenziale in materia, ha precisato come gravi sul lavoratore l’onere di dimostrare la sussistenza di una chiara manifestazione di volontà del datore di lavoro di recedere dal rapporto, non essendo, all’uopo, sufficiente la mera prova della cessazione del rapporto stesso.

Se, dunque, il lavoratore impugna il licenziamento non intimato nella forma prescritta dalla legge, ma verbalmente, dovrà provare in giudizio i fatti che costituiscono fondamento del proprio diritto, anche in considerazione della circostanza tale per cui il datore di lavoro potrebbe, altresì, scegliere di non costituirsi in giudizio e, ciononostante, il lavoratore, per vedere riconosciuta la sussistenza del proprio diritto, non potrebbe prescindere dal dimostrarne il fondamento.

Concorda la Corte nel ritenere che la tesi per cui il prestatore di lavoro possa limitarsi ad una mera allegazione non risulta ancorata ad adeguato riscontro normativo, giacché determinerebbe, per l’effetto, un’inversione dell’onere della prova, di certo non ammessa in assenza di una apposita previsione normativa che la contempli e la giustifichi.

Di conseguenza, la mera cessazione dell’esecuzione della prestazione lavorativa da parte del dipendente non costituisce prova del licenziamento, giacché il medesimo comportamento sarebbe tenuto dal soggetto anche in caso di dimissioni o di risoluzione consensuale.

Il giudicante, nella ricerca della verità materiale, sarà ad ogni modo tenuto ad utilizzare tutti gli strumenti e i poteri di accertamento messi a disposizione dalla legge, dovendo provvedere d’ufficio agli atti istruttori più opportuni in base al materiale probatorio raccolto.

Peraltro, nell’ipotesi in cui, nonostante ciò, dovesse risultare una non superabile incertezza probatoria, opererà la regola di cui all’art. 2697 c.c., tale per cui, ove l’attore non provi il fatto costitutivo della propria domanda, egli vedrà la stessa respinta dal giudice,  anche se risultino sguarnite di prova le dimissioni eccepite dal datore di lavoro, non valendo tale eventuale insufficienza probatoria del convenuto a dispensare l’attore o il ricorrente  dell’onere della prova che compete per legge.

Il principio di diritto

Sulla scorta delle citate argomentazioni, la Suprema Corte ha, conclusivamente, elaborato il seguente principio di diritto:

“Il lavoratore subordinato che impugni un licenziamento allegando che è stato intimato senza l’osservanza della forma prescritta ha l’onere di provare, quale fatto costitutivo della sua domanda, che la risoluzione del rapporto di lavoro è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, anche se manifestata con comportamenti concludenti; la mera cessazione nell’esecuzione delle prestazioni non è circostanza di per sé sola idonea a fornire tale prova.

Ove il datore di lavoro eccepisca che il rapporto si è risolto per le dimissioni del lavoratore, il giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa – anche avvalendosi dell’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – e solo nel caso perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola residuale desumibile dall’art. 2697 c.c., comma 1, rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua pretesa”.

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