Finalmente l’8 Novembre 2018, dopo settimane di attesa, è stata depositata e pubblicata in Gazzetta Ufficiale la sentenza n. 194 del 2018 della Corte Costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (c.d. contratto a “tutele crescenti” del Jobs Act) – sia nel testo originario sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87[1] (c.d. Decreto Dignità), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96 – limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
La Corte Costituzionale, in parziale accoglimento delle questioni sollevate dal giudice a quo, ha reinserito all’interno del rito lavoro la discrezionalità del Giudice per quanto concerne la decisione sul quantum dell’indennità per licenziamento illegittimo di cui al sopra citato art. 3, comma 1.
Dunque, a partire dalla pubblicazione della suddetta sentenza, il giudice dovrà necessariamente tenere conto per quantificare l’indennità di licenziamento illegittimo (per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 ) solamente dei “limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n.23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).”[2]
Tale scelta condizionerà, inevitabilmente, i tanti giudizi pendenti e instaurati sotto la vigenza del vecchio art. 3 del D.lgs. 23 del 2015, così come modificato dal c.d. Decreto Dignità, e fa scaturire molteplici dubbi riguardo il percorso iniziato dal Legislatore del 2012, incentrato sui principi della flexicurity[3] e che la sentenza n. 194 del 2018 della Corte ha messo in dubbio.
La disciplina vigente in materia di licenziamento illegittimo
Prima di entrare nel merito della fattispecie, è doveroso, seppur sinteticamente, inquadrare la disciplina tutt’ora vigente in caso di licenziamento illegittimo per meglio attenzionare la ricostruzione giuridica che ha portato la Corte Costituzionale ha dichiarare l’illegittimità costituzionale parziale del c.d. contratto a “tutele crescenti”.
Ad oggi la disciplina che interessa il licenziamento prende spunto da due norme fondamentali: La Legge Fornero (l. n. 92 del 2012) e il “Jobs Act” (d.lgs. 25 del 2015 in tema di licenziamenti illegittimi).
La prima si applica ai lavatori assunti sino al 6 marzo 2015 è prevede, in caso di licenziamento illegittimo, un doppio binario di tutele:
- La tutela reintegratoria è prevista per insussistenza del fatto contestato; Ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili.
- In tutte “le altre ipotesi”, secondo il testo dell’art. 18 St. Lav. modificato dalla legge 92/2012, non opera più la reintegrazione nel posto di lavoro dovendosi riconoscere al lavoratore soltanto un’indennità determinata tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto;
Mentre il c.d. contratto a “tutele crescenti” si applica ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, e in caso di licenziamento illegittimo (ad eccezione dei casi di cui all’art. 18 comma 1[4]) la tutela reintegratoria scompare e abbiamo un’indennità che sarà parametrata solamente dall’anzianità di servizio:
- nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità.
Tale scelta del Legislatore del 2015 ha, fin da subito, creato molti dubbi interpretativi; Una parte della dottrina incentrava le sue critiche al Jobs Act sull’“evidente”[5] deficit di razionalità costituzionale del contratto a tutele crescenti, stante la disparità di trattamento tra gli assunti prima del 7 marzo 2015 e gli assunti dopo tale data.
Altra parte della dottrina, ad onor del vero maggioritaria, rifacendosi ad un orientamento della stessa Corte Costituzionale affermava che “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche, (..), essendo conseguenza dei principi generali in tema di successione di leggi nel tempo”[6].
La giurisprudenza, almeno fino all’ordinanza di rimessione del Tribunale di Roma, aveva avvallato tale seconda prospettiva.
Ciò fino ad oggi, perché come visto la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 3 comma 1 del d.lgs. 23 del 2015 solo sul calcolo dell’indennità di licenziamento ingiustificato.
Vediamo, quindi, come si è arrivati a tale soluzione.
Le questioni sollevate dal Giudice a quo.
Com’era ormai noto, il Tribunale di Roma, sezione lavoro, con ordinanza n. 195 del 26 luglio 2017, nell’ambito di un giudizio per licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sollevava questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 (non ratificata dall’Italia) e all’art. 24 della Carta sociale europea, dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nonché in materia di riordino della disciplina dei rapporti di lavoro e dell’attività ispettiva e di tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro) e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183).
Come già esposto, alla luce degli elementi fattuali emersi nel corso del suddetto giudizio per licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice ha evidenziato un’assoluta disparità di trattamento per la ricorrente nel ricorso principale, in quanto assunta dopo il 7 marzo 2015, stante l’ “estrema genericità della motivazione addotta e della assoluta mancanza di prova della fondatezza di alcune delle circostanze laconicamente accennate nell’espulsione, il vizio ravvisabile sia il più grave fra quelli indicati, vale a dire la “non ricorrenza degli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” e, quindi, secondo l’interpretazione del giudice a quo, se la lavoratrice fosse stata assunta prima del 7 marzo 2015 avrebbe usufruito, applicando il quarto comma dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, della tutela reintegratoria e di un’indennità commisurata a dodici mensilità e, applicando il quinto comma dello stesso art. 18, della tutela indennitaria tra dodici e ventiquattro mensilità.
Mentre essendo stata assunta dopo la suddetta data e, avendo un’anzianità di servizio inferiore all’anno, la lavoratrice poteva al massimo vedersi riconosciuta un’indennità di quattro mensilità.
Alla luce di tali premesse e, soprattutto in ordine alla totale eliminazione della discrezionalità valutativa del giudice, il contratto a tutele crescenti risulta, a modo di vedere dello stesso giudice, incoerente e irrazionale alla luce dei principi costituzionali di cui agli artt. 3, 4, 35, 76 e 117 della Costituzione.
La Motivazione della sentenza n. 194 del 2018
Prima di entrare nel merito della sentenza, va sottolineato che la Corte Costituzionale non ha affrontato la questione sull’illegittimità degli artt. 2 e 4 del d.lgs. 23 del 2015 stante le richieste contenute nell’ordinanza di rimessione.
Indi per cui, è stato chiesto alla Corte solamente se l’indennità e il metodo di calcolo previsto dall’art. 3 del d.lgs. 23 del 2015 fosse coerente con i principi contenuti negli articoli costituzionali sopra menzionati.
Infatti l’art. 2 stabilisce la tutela per i casi di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale, mentre l’art. 4 stabilisce la tutela per le ipotesi, in esso indicate, di vizi formali e procedurali
del recesso datoriale, entrambe le questioni sono completamente estrani allo stesso giudizio di cui all’ordinanza di rimessione.
Di conseguenza l’attenzione della Corte si è spostata sul tanto discusso art. 3 comma 1 (c.d. contratto a “tutele crescenti”)[7].
Prima questione affrontata dalla Corte Costituzionale è l’eventuale violazione dell’art. 3 comma 1 del d.lgs. 23 del 2015 del principio di eguaglianza, giacché per il giudice a quo la diversità di trattamenti tra i nuovi e i vecchi assunti dopo il 7 marzo 2015 sia illegittima e non proporzionale.
Leggendo la sentenza n. 194 del 2008, la questione viene ritenuta non fondata perché, com’era prevedibile, si è ribadito l’orientamento prevalente della stessa Corte in tema di delimitazione della sfera di applicazione ratione temporis di normative che si succedono nel tempo “non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008) (sentenza n. 254 del 2014, punto 3. del Considerato in diritto).
Questa Corte ha al riguardo argomentato che «[s]petta difatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme […] (sentenze n. 273 del 2011, punto 4.2. del Considerato in diritto, e n. 94 del 2009, punto 7.2. del Considerato in diritto)» (sentenza n. 104 del 2018, punto 7.1. del Considerato in diritto)”[8].
Non fondata è anche la questione sollevata per violazione dell’art. 30 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea.[9]
Infatti, per giurisprudenza dominante della stessa Corte di Giustizia europea, a norma dell’art. 51 CDFUE, il diritto europeo è invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale solo se la fattispecie giuridica oggetto del giudizio sia derivante da norme di diritto europeo. Nel caso di specie l’art. 3 comma 1 sui licenziamenti individuali non è stato adottato in attuazione a normativa europea e, quindi, anche sotto tale profilo la questione, sempre per la Corte Costituzionale, non è fondata.
È risultata fondata, invece, la questione che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, prevedendo una tutela contro i licenziamenti ingiustificati rigida e inadeguata, viola gli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, e 76 e 117, primo comma, Cost. – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea[10].
Partendo dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, si è affermato nel tempo il principio secondo il quale il Legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela
anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011 Corte Costituzionale), purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza.
Il diritto alla stabilità del posto, infatti, “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient’altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall’invalidità dell’atto non conforme” (sentenza n. 268 del 1994 Corte Costituzionale).
Dunque, in caso di licenziamento illegittimo, per la sentenza n. 194 del 2018 è ben possibile prevedere una tutela meramente economica, purché quest’ultima segua il principio di ragionevolezza contenuto nella nostra carta costituzionale.
Ma come già abbiamo sottolineato, la natura dell’indennità è stata rimessa meramente al calcolo previsto dall’art. 3 comma 1 del d.lgs. 23 del 2015 (interamente prestabilita dal legislatore in due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio).
Tale previsione rende l’indennità in caso di licenziamento illegittimo eccessivamente rigida e uniforme, non più avente natura risarcitoria (cosi come previsto dall’art. 2119 c.c. in caso di assenza di giusta causa del recesso) ma meramente intesa come una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, proprio perché ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio, a fronte del danno derivante al lavoratore dall’illegittima estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Ciò premesso, per la Corte, ancorare la tutela prevista, in caso di recesso ingiustificato, al solo fattore dell’anzianità di servizio rappresenta un discostamento eccesivo sia dalla giurisprudenza dominante e soprattutto sia dalla normativa giuslavorista, atteso che “È un dato di comune esperienza, ampiamente comprovato dalla casistica giurisprudenziale, che il pregiudizio prodotto, nei vari casi, dal licenziamento ingiustificato dipende da una pluralità di fattori. L’anzianità nel lavoro, certamente rilevante, è dunque solo uno dei tanti.”[11].
Quindi seguendo la ricostruzione ivi sopra riportata, la Corte Costituzionale ha inteso intravedere l’illegittimità parziale dell’art. 3 comma 1 del d.lgs. 23 del 2015 nella parte in cui determina un’indennità in un importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, giacché contrasta con il principio di ragionevolezza, sotto il profilo dell’inidoneità dell’indennità medesima a costituire un adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
Non contrasta, di per sé, con gli artt. 3 e 4 della Costituzione, invece, la quantificazione minima e massima dell’indennità atteso che il risarcimento forfetizzato sia tale da contemperare i vari interessi che sorgono in caso di recesso del rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Il quantum minimo e massimo è stato ritenuto, quindi, idoneo a tale scopo.
Si deve osservare, quindi, che il solo criterio dell’anzianita di servizio per agganciare il totale dell’indennità mostra la sua sproporzione proprio nei casi, di cui all’ordinanza di rimessione, di anzianità non elevata.
Infatti, per la Corte Costituzionale, l’indennità risulta inadeguata proprio alla luce delle ragioni sopra esposte.
Quindi, in conclusione, l’indennità cosi calcolata viola i principi di cui agli artt. 3, 4, 35 e 117 della Costituzione sia nella sua natura riparatoria- compensativa del recesso ingiustificato, sia la natura dissuasiva che le norme sul licenziamento illegittimo debbono disciplinare nei confronti del datore di lavoro.
In definitiva la corte cosi statuendo ha affermato che nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice dovrà tenere conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c) della legge n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n.23 del 2015 – nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dalla evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendentioccupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).
Le conseguenze dell’illegittimità costituzionale dell’art. 3 comma 1 d.lgs. 23/2015
L’illegittimità costituzionale parziale del citato art. 3 comma 1 del d.lgs. 23 del 2015 avrà notevoli ripercussioni all’interno del mercato del lavoro italiano.
Da oggi, quindi, per gli assunti dopo il 7 marzo 2015 la tutela reintegratoria continuerà a sussistere solamente nei casi di cui al comma 1 art. 18 l. 300 del 1970 (licenziamento orale, in costanza di matrimonio, licenziamento discriminatorio o contrario a norme imperative) mentre per tutte le altre ipotesi, in caso di ingiustificatezza del recesso (per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo), la tutela rimarrà esclusivamente economica, ma con la differenza che sarà il giudice a dover quantificare tale indennità, dovendo individuare oltre il criterio dell’anzianità di servizio, altri criteri che potranno ristorare in maniera più adeguata il lavoratore (nei limiti del minimo di sei mensilità e nel massimo di trentasei mensilità, così come previsto dalle modifiche intervenute dopo il Decreto Dignità).
Tale sentenza, se da un lato concede nuovamente discrezionalità al giudice, dall’altro torna a rappresentare per le aziende una incertezza in ordine al possibile quantum del licenziamento illegittimo.
Necessariamente si dovranno attendere le prime pronunce giurisprudenziali che inquadreranno al meglio la questione.
[1] Art. 3 comma 1 del D.lgs. 25 del 2015: “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
[2] Pag. 26 sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale.
[3] Flexicurity (fusione di flexibility di security) è un modello di stato sociale basato su una politica pro-attiva di gestione del mercato del lavoro. Il modello consiste di una combinazione di estrema facilità di assunzione e licenziamento per il datore di lavoro e consistenti ammortizzatori sociali per i lavoratori dipendenti.
[4] Art. 18 comma 1 legge n. 300 del 1970: “Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.”
[5] Su tutti V: Giubboni S. – Colavita A., I licenziamenti collettivi dopo le controriforme, Questione Giustizia, fasc.3, 2015, pag. 31.
[6] Corte Cost. , 13 novembre 2014, n. 254 in ordine al possibile contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento, del nuovo regime della responsabilità solidale applicabile agli appalti (art. 29 del d.lgs. 276/2003). Nello stesso senso anche le ordinanze della Corte Costituzionale n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, e n. 77 del 2008; Cfr. G. Borrelli, LA DISCIPLINA DEI LICENZIAMENTI COLLETTIVI ALLA LUCE DEL D.LGS. 23 DEL 2015 (c.d. JOBS ACT), 2016, in GiuriCivile.
[7]Art. 3 comma 1 d.lgs. 23 del 2015 “nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”.
[8] Pag. 18 sentenza 194 del 2018 Corte Costituzionale
[9] Articolo 30 – Tutela in caso di licenziamento ingiustificato “Ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali.”
[10] Art. 24 Carta sociale Europea: “Tutti i lavoratori hanno diritto ad una tutela in caso di licenziamento.”
[11] Pag. 23 sentenza n. 194 del 2018.