Con ordinanza n. 27199 del 26.10.2018, la Corte di Cassazione ha fornito rilevanti delucidazioni in materia di legittimità e giustificatezza del licenziamento del lavoratore con qualifica dirigenziale.
I fatti di causa
La vicenda sottoposta all’attenzione della Suprema Corte traeva origine da un atto di recesso dal rapporto di lavoro intimato ad una dirigente dalla società datrice di lavoro per soppressione della relativa posizione aziendale.
La lavoratrice impugnava il licenziamento lamentando che, a ben vedere, il suo ruolo non risultava affatto eliminato, anzi, a seguito della riorganizzazione e ristrutturazione effettuata ad opera del datore di lavoro, il settore di riferimento veniva potenziato, al punto che ad esso erano stati assegnati nuovi lavoratori, oltre a parte del personale dipendente già impiegato all’interno alla struttura.
Inoltre, ad un dipendente neoassunto venivano assegnate anche talune mansioni precedentemente svolte dalla dirigente licenziata; peraltro, non emergeva la sussistenza di una situazione di crisi economica tale da giustificare la scelta di pretesa soppressione della posizione lavorativa sinora svolta.
Il Tribunale in primo grado accoglieva il ricorso presentato dalla lavoratrice ritenendo, per l’effetto, illegittimo il licenziamento intimato nei suoi confronti ed evidenziando come ad una dipendente neo assunta fosse stata assegnata una parte delle mansioni in precedenza svolte dalla ricorrente.
La pronuncia del giudicante veniva, tuttavia riformata, dalla Corte d’Appello che, sulla base di quanto risultante agli atti di causa, in sede istruttoria, riteneva pienamente consono il licenziamento emergendo la piena giustificazione delle motivazioni che avevano condotto la società datrice allo scioglimento del rapporto di lavoro.
La questione in esame
La tematica trattata concerne, nello specifico, l’individuazione delle ragioni poste alla base del licenziamento intimato dal datore di lavoro nei confronti di un dirigente convenzionale.
Sul punto, si precisa che viene considerato tale quel soggetto che ricopre siffatta qualifica, ,in virtù delle declaratorie contenute nei contratti collettivi di lavoro, anche se si tratti di un dirigente medio o minore.
Si considerano, invece esclusi coloro che non possono in alcun modo essere ricondotti, in considerazione delle funzioni e degli incarichi effettivamente e concretamente svolti, a prescindere da un’eventuale qualificazione puramente formale, alla figura del dirigente, ovverosia i c.d. pseudo- dirigenti.
In merito, la giurisprudenza di legittimità aveva già avuto modo di chiarire che questi ultimi, per il fatto di non rivestire una posizione, all’interno dell’articolata compagine aziendale, analoga a quella propria dei dirigenti convenzionali, non sono classificabili come tali dalla contrattazione collettiva.
Pertanto, ad essi si applicano, come precisato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 7880/2007, le tutele maggiormente garantistiche assicurate dalla legislazione vigente in materia, in caso di licenziamento, con particolare riguardo alla L. 604/1966 e L. 300/1970.
Di contro, ai dirigenti convenzionali, siano essi apicali, medi o minori, classificazioni queste aventi precipuamente rilievo descrittivo e chiarificatore, non si applica la disciplina in esame che limita il potere datoriale di licenziamento nei confronti dei lavoratori.
Pertanto, allo scopo di fruire dell’indennità supplementare riconosciuta dalla contrattazione collettiva, la valutazione della legittimità del recesso intimato dal datore di lavoro non attiene alla ricerca della sussistenza di una “giusta causa” o di un “giustificato motivo”, ma della “giustificatezza” del recesso.
La soluzione prospettata dalla Suprema Corte.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha avuto modo di precisare che la nozione contrattuale di “giustificatezza” finisce per discostarsi, tanto sotto il profilo oggettivo, quanto sotto quello soggettivo, dalla definizione di giustificato motivo, di cui all’art. 3 della L. 604/1966, sia da quella di giusta causa ex art. 2119 c.c., rinvenendo, di contro, la propria ragion d’essere nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro.
Questa relazione risulta particolarmente delicata e complessa, essendo essa suscettibile di venire meno al verificarsi di svariate situazioni, quali, ad esempio, il comportamento extra- lavorativo del dirigente che getti discredito all’immagine aziendale o anche la semplice inadeguatezza che emerga successivamente rispetto alle iniziali aspettative della società datrice di lavoro, o, ancora, una deviazione del comportamento tenuto rispetto alle direttive inizialmente impartite, ma anche in virtù dello sviluppo di determinate strategie di impresa che rendano non più così adeguata la posizione rivestita dal dirigente, nell’ambito della complessiva articolazione aziendale.
Conseguentemente, non si pretende che alla base delle ragioni che sorreggono il licenziamento emergano l’impossibilità di continuazione del rapporto o una situazione di crisi che ne renda particolarmente oneroso il proseguimento.
La Suprema Corte, invece, ha specificato che risulta perfettamente sufficiente la dimostrazione da parte del datore di lavoro, dell’effettiva riorganizzazione aziendale che, inevitabilmente, finisca per coinvolgere anche la posizione del dirigente convenzionale.
Nel caso trattato, emergeva agli atti di causa la sussistenza di un effettivo riassetto della struttura, esistendo un piano di razionalizzazione aziendale e di rimodulazione effettiva, in virtù di un’esigenza obiettivamente apprezzabile di risparmio in termini economici.
Non risulta neppure dirimente la circostanza dell’assegnazione di parte delle mansioni in precedenza svolte dalla dirigente ad altro lavoratore, rilevando solo che presso la medesima azienda non esista più, a seguito dell’effettiva modificazione del suo assetto, una posizione lavorativa che coincida con quella ricoperta dalla dirigente licenziata.
Da ultimo, il giudice di merito dovrà limitarsi, come ribadito dalla Suprema Corte, a valutare il profilo dell’effettiva realizzazione della scelta operata dal datore di lavoro e posta alla base del recesso che ha determinato lo scioglimento del rapporto.
La sua analisi, peraltro, non potrà concretizzarsi in un sindacato di merito relativo all’opportunità, congruità e convenienza della decisione maturata, in virtù della tutela costituzionale di cui gode la libertà dell’iniziativa economica privata protetta dall’art. 41 Cost., e ciò al fine del contemperamento della salvaguardia della posizione del lavoratore con le esigenze della produzione.
Alla luce delle suesposte considerazioni, ne deriva che non osta alla giustificatezza del licenziamento il fatto che una parte delle mansioni fossero state affidate ad un lavoratore neoassunto, essendo effettiva e non pretestuosa la rimodulazione dell’assetto aziendale e non emergendo più una coincidenza tra le mansioni e la posizione in rilievo, a seguito dell’avvenuta riorganizzazione dell’assetto della struttura.
La giurisprudenza di legittimità, aveva, altresì, precisato che gli unici limiti alla giustificatezza del licenziamento si rinvengono nella prova, da fornirsi a carico del lavoratore, della arbitrarietà o discriminazione dell’atto di recesso, fermo il dovere per le parti di comportarsi secondo buona fede oggettivamente intesa e correttezza anche in fase di esecuzione del rapporto contrattuale.