Quello dei licenziamenti collettivi e del relativo regime sanzionatorio è senza dubbio un tema di grande suggestione, dal momento che indubitabile è la rilevanza costituzionale degli interessi coinvolti. Inoltre, l’attualità e la drammaticità del tema in oggetto, alla luce delle recenti modifiche introdotte con l’attuazione del c.d. Jobs Act e, ancor prima, ad opera della c.d. Riforma Fornero, sovente ne fanno argomento di importanti pronunce giurisprudenziali di legittimità, le quali intervengono per meglio definire il solco tracciato dalle predette riforme.
Il caso in esame
Con una recente pronuncia del 2 febbraio 2018[1], la Corte di Cassazione è intervenuta a chiarire, ancora una volta, una importante distinzione in ordine alle tutele – indennitaria e reintegratoria – accordate dal legislatore nei diversi casi di licenziamento collettivo intimato illegittimamente, così come rivisitate ad opera della Riforma Fornero[2].
La vicenda ha per oggetto, appunto, l’impugnazione del licenziamento intimato ad un lavoratore da parte di una S.r.l. all’esito di una procedura di licenziamento collettivo che il ricorrente asseriva essere stata violata.
Accertata in prime cure la violazione di detta procedura e riconosciuta al lavoratore la tutela reintegratoria, il ricorrente adiva la Suprema Corte per avere la Corte di Appello, in sede di reclamo[3], negato detta tutela e affermato, in suo luogo, quella indennitaria, pur confermando la pronuncia del Giudice di prime cure nella parte in cui aveva accertato la violazione della procedura, da parte del datore, per inadeguatezza della comunicazione di chiusura ex art. 4, comma 9, L. 223/1991.
Il caso verte, quindi, sulla tutela che deve riconoscersi al lavoratore assunto fino al 6 marzo 2015[4], alla luce delle modifiche apportate dalla L. 92/2012, in caso di recesso intimatogli senza che sia stata osservata la procedura di licenziamento collettivo di cui alla L. n. 223/1991.
La disciplina: cenni
Come noto, l’impatto maggiormente significativo che la riforma Fornero ha esercitato sulla disciplina dei licenziamenti collettivi riguarda proprio l’aspetto sanzionatorio, avendo essa proceduto alla eliminazione della tutela reintegratoria per tutti i licenziamenti economici, eccezion fatta per i casi in cui l’intimazione del recesso avvenga in assenza di forma scritta ovvero in violazione dei criteri di scelta[5]. Pertanto, nell’ipotesi in cui il licenziamento collettivo sia intimato in violazione della procedura di cui alla L. 223/1991, e purché non si verta nei due casi testé citati, troverà applicazione la tutela obbligatoria.
L’istituto del licenziamento collettivo contempla anzitutto due fattispecie distinte e separate: la figura del licenziamento collettivo per messa in mobilità e la diversa figura del licenziamento collettivo per riduzione del personale, rispettivamente disciplinate dagli artt. 4 e 24 della legge n. 23/1991[6]. Entrambe le ipotesi – che rivestono un ruolo centrale nella gestione delle eccedenze di personale – sono accomunate dal medesimo iter procedurale, dettagliatamente individuato dal legislatore agli artt. 4, comma 2 ss., e 5, il cui puntuale esperimento consente al datore di lavoro di procedere legittimamente al recesso dal rapporto lavorativo.
In particolare, l’art. 4 fa riferimento alla “impresa che sia stata ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora nel corso di attuazione del programma di cui all’art. 1 (intervento straordinario di integrazione salariale) ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative”; mentre il licenziamento collettivo di cui all’art. 24 inerisce la diversa fattispecie che interessa quelle imprese che occupino più di quindici dipendenti, compresi i dirigenti, le quali, “in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia”.
Alle ipotesi appena richiamate vanno altresì aggiunte le fattispecie di licenziamento collettivo per cessazione di attività aziendale ex art. 24, comma 2, L.223/1991 ed il licenziamento collettivo per procedura concorsuale, quest’ultima espressamente prevista all’art. 3 della medesima legge.
Presentato brevemente l’istituto in commento e trascurati, per quel che ci interessa in questa sede, i singoli passaggi che articolano la procedura di riduzione del personale, basti osservare come la comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, della L. 223/1991, interviene all’esito di un complesso iter procedimentale prescritto dal legislatore al fine di impegnare le parti – datore di lavoro e organizzazioni sindacali – nella ricerca di soluzioni alternative alla riduzione dell’organico: esaurita la procedura di consultazione, l’impresa ha facoltà di intimare a ciascun lavoratore in esubero il proprio recesso, purché per iscritto e nel rispetto dei termini di preavviso, contestualmente inoltrando ai sindacati e alla Pubblica Amministrazione[7] l’elenco dei lavoratori licenziati (specificando, per ciascuno di essi, il nominativo, il luogo di residenza, la qualifica, il livello di inquadramento, l’età ed il carico di famiglia) con puntuale indicazione dei criteri di scelta nonché delle modalità di applicazione degli stessi.
Si comprenderà, quindi, come tale comunicazione costituisca un fondamentale adempimento per il datore di lavoro e una indispensabile garanzia, per il lavoratore coinvolto, della oggettività e della imparzialità delle scelte operate dal datore, la cui omissione, o inesattezza, a mente del successivo art. 5, comporta – a buona ragione, ad avviso di chi scrive – l’inefficacia del licenziamento intimato.
La decisione della Suprema Corte
Tale particolare violazione procedurale – nella specie, l’inadeguatezza della comunicazione di chiusura della procedura al modello legale prescritto – veniva accertata tanto dal Tribunale in funzione di Giudice del Lavoro, quanto dalla Corte di Appello in sede di reclamo, pur tuttavia con la prospettazione di soluzioni differenti: all’esito del giudizio dinanzi al Tribunale, infatti, il Giudice del Lavoro, verificato il vizio procedurale e la conseguente inefficacia del licenziamento, annullava quest’ultimo e condannava la società alla reintegrazione nel posto di lavoro. Diversamente, la Corte di Appello perveniva ad una soluzione meramente indennitaria, con la condanna della datrice di lavoro al solo pagamento di una indennità pari a 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita a titolo di indennizzo[8] .
Adita la Corte di Cassazione in punto di violazione e falsa applicazione della L. 223/1991, artt. 4 e 5, i Giudici di Legittimità, richiamando i principi sanciti da una precedente Giurisprudenza della stessa Corte[9]– mai superata – rilevavano e confermavano la sussistenza di una sostanziale differenza tra le fattispecie di violazione delle procedure e violazione dei criteri di scelta, entrambe contemplate dall’art. 5, comma 3, L. n. 223/1991, così come sostituito dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 46, ma rispetto alle quali il legislatore ha stabilito un regime sanzionatorio differenziato.
Al menzionato articolo 5 si legge, invero, che “qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni. In caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18. In caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo articolo 18. Ai fini dell’impugnazione del licenziamento si applicano le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni”.
Di talché, nel primo caso il Giudice “dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici ed un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”; mentre, nel secondo caso, il Giudice “annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro (…) e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione” in una misura non superiore alle dodici mensilità.
In particolare, i Giudici di legittimità – condividendo l’orientamento espresso dalla Corte territoriale[10] – ravvisavano nel vizio lamentato dal ricorrente una mera incompletezza formale della comunicazione e non già una violazione sostanziale del modello legale (tale è da intendere la violazione attinente ai criteri di scelta). La Corte di Cassazione evidenziava come, nel caso de quo, non si vertesse in tema di “violazione dei criteri di scelta”, dal momento che quest’ultima si realizzerebbe allorché detti criteri siano, ad esempio, illegittimi perché previsti in violazione di legge, o illegittimamente applicati perché attuati in difformità delle previsioni legali o collettive[11]; nel caso di specie, al contrario, la Suprema Corte riconosceva essere avvenuta una mera “violazione della procedura”, in riferimento alla quale la tutela prescritta dal legislatore non è di tipo reintegratorio, bensì indennitario.
Pertanto, la Corte di Cassazione respingeva il ricorso del lavoratore.
[1] cfr. Cass. Civ. Sez. Lav., 02.02.2018 n. 2587
[2] cfr. L. 92/2012
[3] cfr. L. 92/2012, art. 1, comma 58, noto come “Rito Fornero”
[4] ai lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015 (“nuovi assunti”) trova applicazione la disciplina recata dal d.lgs. 4/3/2015, attuativa del c.d. Jobs Act.
[5] la tutela reintegratoria scompare definitivamente rispetto ai licenziamenti intimati nei confronti dei “nuovi assunti”, sicché l’unica tutela possibile, anche nell’ipotesi di violazione dei criteri di scelta, rimane quella di tipo obbligatorio.
[6] sull’argomento, Giuseppe Santoro Passarelli, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, VII edizione, UTET Giuridica, 2017
[7] Nello specifico, alla Direzione Regionale del Lavoro, alla Commissione Regionale per l’impiego, alle associazioni sindacali di categoria.
[8] ai sensi dell’art. 18, comma 7, L. 300/1970, come novellato dalla L. 92/2012
[9] cfr. Cass. Civ. n. 12095/2016
[10] Rilevava, infatti, la Corte di Appello che “un conto è omettere di spiegare come sono stati individuati i lavoratori da licenziare (violazione della procedura), altro è individuare in maniera non corretta i lavoratori da licenziare (violazione dei criteri di scelta)”.
[11] in tal senso, Cass. Civ. n. 12095/2016