Legittimità degli accertamenti del datore di lavoro sulla malattia del lavoratore

Legittimi gli accertamenti investigativi adottati dal datore di lavoro al fine di dimostrare l’insussistenza della malattia del lavoratore. Questo il principio elaborato dalla Corte di Cassazione (ordinanza 21766/2024) nel caso relativo a una società datrice di lavoro che, a seguito di accertamenti investigativi, aveva contestato ad un proprio dipendente di aver svolto, durante l’assenza per malattia, attività extra-lavorativa incompatibile con la malattia certificata.

L’articolo è a cura dell’Avv. Alessandra Giorgiavvocato in DLA Piper- esperti in diritto del lavoro, relazioni industriali e riorganizzazioni aziendali.

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Il caso

Il procedimento disciplinare si era concluso con un licenziamento per giusta causa, ritenuto legittimo in giudizio in entrambi i gradi di merito e, successivamente, anche in sede di legittimità.

I limiti allo svolgimento di accertamenti investigativi

Il primo aspetto su cui la Corte di Cassazione intende porre l’attenzione è il rispetto dei limiti entro i quali è consentito al datore di lavoro lo svolgimento di accertamenti investigativi.

L’art. 5 della L. n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) recita infatti: “sono vietati accertamenti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente. Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda“.

Nel caso di specie i giudici di legittimità, sulla scorta della decisione resa dalla Corte d’Appello, hanno ritenuto che gli accertamenti investigativi disposti dalla società fossero legittimi in quanto non avevano finalità sanitarie, ma il solo intento di verificare se le plurime condotte extra-lavorative poste in essere dal dipendente – poi contestate – fossero (o meno) compatibili con la malattia allegata dal lavoratore al fine di giustificare l’assenza dal lavoro.

Nel caso che ci occupa, la Corte di Cassazione si è dunque conformata al principio già noto in giurisprudenza secondo cui “le disposizioni dell’art. 5 st. lav., che vietano al datore di lavoro di svolgere accertamenti sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e lo autorizzano a effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa rilevante e, quindi, a giustificare l’assenza” (si veda, ex multis, Cass. n. 11697/2020 e Cass. n. 15094/2018).

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Manuela Rinaldi
Avvocato cassazionista, consigliere e tesoriere del COA Avezzano. Direttore della Scuola Forense della Marsica, è professore a contratto di “Tutela della salute e sicurezza sul lavoro” e “Diritto del lavoro pubblico e privato” presso diversi atenei. Relatore a Convegni e docente di corsi di formazione per aziende e professionisti, è autore di numerose opere monografiche e collettanee.

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Lo svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia

Il secondo tema che emerge nell’ordinanza in esame, oltre a quello della legittimità dei controlli investigativi, è la possibilità (o meno) per un lavoratore di svolgere altre attività durante l’assenza per malattia.

Come noto, il recesso intimato dal datore di lavoro è giustificato quando si verifica, da parte del lavoratore, una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà.

Per quanto riguarda lo svolgimento di altre attività durante l’assenza per malattia, è ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità l’orientamento per cui il licenziamento è certamente legittimo quando l’ulteriore attività, prestata o meno a titolo oneroso, sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia o, ancora, quando l’altra attività svolta in malattia sia idonea a pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore (si veda, ex multis, Cass. n. 26496/2018 e Cass. n. 10416/2017).

Tuttavia, la Corte di Cassazione giudica in senso opposto (si veda, tra le altre, la recentissima ordinanza n. 23747/2024) nel caso in cui l’attività ulteriore svolta dal lavoratore in malattia non sia ritenuta idonea a pregiudicare (o ritardare) il rientro in servizio: in tal caso, infatti, la Suprema Corte considera illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore.

Le pronunce della Corte di Cassazione giungono dunque a esiti opposti a seconda del modo in cui viene qualificata l’ulteriore attività lavorativa svolta dal lavoratore in concomitanza della malattia:

  1. qualora il lavoratore, assente in malattia, svolga un’ulteriore attività non idonea, anche solo potenzialmente, a pregiudicare (o ritardare) il proprio rientro in servizio, questa non integrerebbe per il lavoratore una condotta illecita con il rischio concreto che un qualsivoglia licenziamento intimato verrebbe dichiarato illegittimo;
  2. qualora, al contrario, il lavoratore svolga durante una malattia un’altra attività idonea a pregiudicare (o ritardare) il rientro in servizio del lavoratore, la società potrebbe procedere con il provvedimento espulsivo.

La decisione della Corte di Cassazione

Tale secondo scenario è quello che si è verificato nel caso in esame, dove i giudici di legittimità hanno ritenuto che la condotta del dipendente si poneva in contrasto con i generali doveri di correttezza e buona fede nonché con gli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà nell’esecuzione del contratto che avrebbero imposto al lavoratore, assente per malattia, di comunicare al datore di lavoro l’intervenuto anticipato recupero delle proprie capacità e di non svolgere attività extra-lavorative che potessero ritardare o pregiudicare la ripresa del servizio.

In considerazione di ciò, la Corte di Cassazione ha ritenuto che la condotta posta in essere dal lavoratore non potesse essere sanzionabile con una mera sanzione conservativa in quanto non si riduceva a una mera assenza, ma si concretizzava piuttosto in un comportamento contrario allo stato di malattia ovvero all’aver taciuto di trovarsi in uno stato compatibile con lo svolgimento dell’attività lavorativa. Per tali ragioni, i giudici di legittimità hanno ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento per comportamenti rimproverabili quanto meno a titolo di colpa e denotanti imprudenza, abitudinaria noncuranza verso gli obblighi contrattuali, scarsissima inclinazione a collaborare con la controparte per consentire il regolare funzionamento del rapporto negoziale e hanno pertanto rigettato il ricorso del lavoratore.

Il licenziamento del lavoratore in malattia a causa dello svolgimento di altre attività è uno strumento a cui il datore di lavoro deve ricorrere con attenzione e cautela, senza perdere di vista l’analisi del caso concreto, i cui elementi sembrano essere dirimenti ai fini dell’accertamento della legittimità (o meno) del recesso.

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