Legittima la creazione di falso profilo Facebook da parte del datore di lavoro per controllare attività del dipendente

Con la sentenza n. 10955 del 27 maggio 2015, la quarta sezione civile della Corte di Cassazione ha chiarito se sia legittimo il comportamento del datore di lavoro che abbia creato un falso profilo facebook per controllare il proprio dipendente.

Nel caso di specie, il dipendente di una società tipografica era stato licenziato per giusta causa per aver utilizzato il proprio cellulare per chiamate e conversazioni su Facebook durante l’orario di lavoro. Nello specifico, per accertare le inadempienze del lavoratore, il responsabile del personale aveva creato un falso profilo di donna su Facebook, con il quale aveva poi chattato in più occasioni con il dipendente, in orari concomitanti con quelli di lavoro. Nonostante l’accoglimento in primo grado, la Corte d’Appello ribaltava l’esito del giudizio, rigettando l’impugnativa di licenziamento. Il dipendente ricorreva dunque in Cassazione, sostenendo che lo stratagemma dell’azienda configurava una forma di controllo a distanza vietato dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Ai sensi di tale disposizione, è infatti vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. La norma subordina inoltre ad accordo con le R.s.a. o a specifiche disposizione dell’Ispettorato del Lavoro l’installazione di quelle apparecchiature, rese necessarie da esigenze organizzative e produttive, da cui può derivare la possibilità di controllo. Il divieto sancito dal suddetto art. 4, opera anche con riferimento ai cd. “controlli difensivi”, ossia a quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori, quando tali comportamenti riguardino l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro.

Sul punto, la Suprema Corte ha tuttavia chiarito che si esce fuori dallo schema normativo dell’art. 4 L. n. 300/1970 ove il controllo in questione sia diretto non già a verificare l’esatto adempimento delle obbligazioni scaturenti dal rapporto di lavoro, ma miri alla tutela di “beni del patrimonio aziendale ovvero ad impedire la perpetrazione di comportamenti illeciti.

Sono dunque ammissibili, a parere della Corte di legittimità, i controlli difensivi “occulti”, anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, purchè siano effettuati con “modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, nonchè dei canoni generali di correttezza e buona fede contrattuale“.

Ebbene, nel caso in esame, la Cassazione ha ravvisato, nelle attività del datore di lavoro, un controllo difensivo destinato a riscontrare e sanzionare la perpetrazione di comportamenti idonei a ledere il patrimonio aziendale, senza riferimento precipuo all’attività lavorativa e al suo esatto adempimento. Nello specifico, la creazione di un falso profilo di Facebook non costituirebbe pertanto una violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, “attenendo ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva nè induttiva dell’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito“.

Quanto alla localizzazione del dipendente, la Suprema Corte ha rilevato che essa sia avvenuta in conseguenza dell’accesso a Facebook da cellulare e, pertanto, nella presumibile consapevolezza del lavoratore di poter essere localizzato, attraverso il sistema di rilevazione satellitare del suo smartphone. In ogni caso, è stato evidenziato che, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, l’attività di indagine volta a seguire i movimenti di un soggetto e a localizzarlo attraverso il GPS “costituisce una forma di pedinamento eseguita con strumenti tecnologici, non assimilabile ad attività di intercettazione prevista dall’art. 266 ss. c.p.c. ma piuttosto ad un’attività di investigazione atipica i cui risultati sono senz’altro utilizzabili in sede di formazione del convincimento del giudice”.

Sulla scorta di quanto affermato, la Corte di Cassazione ha pertanto rigettato il ricorso del lavoratore, condannandolo al pagamento delle spese del giudizio in questione.

(Corte di Cassazione, IV Sez. civile, Sentenza n. 10955 del 27 maggio 2015)

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