La legge 19 luglio 2019, n. 69 (d’ora in avanti “Codice Rosso”) introduce talune disposizioni a tutela delle vittime di violenza domestica e di genere ed è l’occasione per chiarire il funzionamento del sistema penale per la tutela delle vittime di “femminicidio”.
La legge richiamata, si inserisce in un percorso legislativo che prende le mosse dalla ormai nota Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa del 2011, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia ai sensi della legge 27 giugno 2013 n. 77.
Naturale prosecuzione del percorso di matrice internazionale è la legge sul femminicidio, introdotta in Italia con il d.l. 93, convertito nella l. 119/2013, con cui il legislatore ha inteso contrastare la violenza di genere e quella domestica.
È la stesse legge 119/2013 a definire il concetto di “violenza domestica” chiarendo che essa si realizza quando si pongono in essere “uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legale, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”.
In estrema sintesi, con le norme del 2013, e ancora una volta con le recenti norme del 2019, non si interviene su reati che rappresenterebbero l’evoluzione finale ed ultima del femminicidio ( ad esempio, omicidio e lesioni), ma il legislatore ha scelto di intervenire sui “delitti spia” della violenza – intendendosi per essi quei delitti che spesso sono l’antecedente della realizzazione di offese più gravi – evidentemente al fine di anticipare la punibilità e prevenire la condotta delittuosa.
In tal senso va anche l’estensione – ad opera della legge del 2013 – dell’ammonimento del questore per i cd. reati sentinella del femminicidio: violenza domestica, percosse e lesioni.
Le modifiche ai reati esistenti
Al fianco di norme di respiro più ampio, la legge sul femminicidio è intervenuta specificamente sui delitti di maltrattamenti in famiglia, minacce, atti persecutori e violenza sessuale.
I reati appena indicati tracciano il quadro designato dal legislatore.
È evidente che insieme a reati pensati specificamente a tutela del soggetto debole nella relazione familiare, emergono fattispecie delittuose più comunemente note tra i delitti contro la persona.
La minaccia ex art. 612 c.p.
In tal senso, il delitto di minaccia – di cui all’art. 612 c.p. – punisce chiunque minaccia ad altri un fatto ingiusto. È chiaro, allora, che la fattispecie è compatibile con la violenza di genere, ma non ad essa espressamente dedicata.
Il d.l. “femminicidio”, però, è intervenuto anche sul reato di minaccia, incrementando la edittale.
Al reato possono, poi aggiungersi un reticolo di circostanze aggravanti, alcune delle quali introdotte proprio dal legislatore del decreto del 2013. In tal senso, si è introdotta la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 11 quinquies c.p. che aumenta la pena del reato base fino ad un terzo se il fatto è commesso in presenza o in danno di un minore di 18 anni o in danno di persona in stato di gravidanza.
La violenza sessuale ex art. 609 bis c.p.
Ancora, il legislatore è intervenuto sull’art. 609 ter c.p. che detta una serie di circostanze aggravanti della violenza sessuale. È bene, allora, richiamare preliminarmente il delitto principale.
Il reato di violenza sessuale, disciplinato dall’art. 609 bis c.p. punisce con la pena detentiva da sei a dodici anni (come di recedente aggravata dal c.d. Codice Rosso) “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali: 1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto; 2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
La norma tutela la libertà personale sub specie di libertà sessuale che per dottrina prevalente esprimerebbe la libertà di autodeterminarsi nello specifico in ambito sessuale (per tutti Padovani). In realtà, altra parte della dottrina afferma che la fattispecie di violenza sessuale non lederebbe solo la volontà della vittima, ma realizzerebbe anche e soprattutto la violazione del suo corpo.
La giurisprudenza, dal canto suo, fa propri entrambi gli orientamenti e in diverse pronunce fa riferimento alla libertà persona della vittima come “libertà di autodeterminazione della propria corporeità sessuale”.
La norma disegna una fattispecie di reato comune che può essere compiuta da “chiunque” (salvo il caso della violenza sessuale per costrizione commessa per abuso di autorità che può essere compiuta solo da soggetti con talune qualifiche specifiche).
Giurisprudenza tradizionale, fino alla metà degli anni’70, escludeva che il coniuge potesse commettere il delitto di violenza sessuale nei confronti dell’altro coniuge, sull’assunto che tra i coniugi non vi potesse mai essere lesione della libertà sessuale.
Questo orientamento è stato definitivamente superato dalla Cassazione che ha finito per ammettere la punibilità, anche a titolo di violenza carnale, del coniuge che costringe con violenza o minaccia l’altro coniuge a subire il rapporto sessuale.
Nella realtà attuale, in verità, le violenze si perpetuano maggiormente proprio in ambito familiare. È per questo che il D.L. femminicidio ha introdotto, tra le circostanze aggravanti della violenza sessuale di cui all’art. 609 ter c.p. il comma 5 quater per i casi i cui le fattispecie di violenza sessuale siano commesse “nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è legato da relazione affettiva, anche senza convivenza”. Scelta dettata dalla necessità di offrire una risposta decisa proprio alla violenza di genere che si consuma normalmente tra le mura domestiche.
Chiarito l’ambito applicativo da un punto di vista soggettivo, è bene brevemente specificare che la giurisprudenza ha inteso definire anche il significato di “atti sessuali”. Affinché si configuri il reato, infatti, il soggetto passivo deve essere costretto a commettere “atti sessuali”. La nozione ha sostituito il precedente riferimento alla “congiunzione carnale” e agli “atti di libidine” ampliando, così, l’ambito applicativo della norma. Si fa, infatti riferimento ad un atto che coinvolge la sfera di corporeità della vittima con una nozione ampia di atti sessuali. La giurisprudenza ha, infatti, ha nel tempo dato rilevanza penale ai baci, anche solo tentati, (Cass. 24.9.2009), ai palpeggiamenti, ai toccamenti della coscia o della gamba.
La violenza sessuale di gruppo ex art. 609 octies c.p.
Alla violenza sessuale designata, il legislatore affianca, poi, la c.d. violenza sessuale di gruppo, di cui all’art. 609 octies c.p. punita in caso di partecipazione, da parte di più persone, ad atti di violenza sessuale. Anche sulla pena prevista per la violenza sessuale di gruppo è di recedente intervenuto il legislatore del cd. Codice Rosso che ha previsto un aggravio di pena prevedendo una forbice edittale che va da 8 a 14 anni, in luogo della precedente da 6 a 12 anni.
La norma delinea una fattispecie autonoma, sicuramente più grave dell’ipotesi monosoggettiva: si ritiene, infatti, che la violenza sessuale di gruppo, proprio a causa delle più persone riunite, arrechi una lesione particolarmente grave e traumatica della sfera di autodeterminazione della libertà sessuale della vittima che appare azzerata. La giurisprudenza ha affermato che l’espressione “più persone” contenuta nell’articolo in commento comprende anche l’ipotesi nella quale gli autori siano di fatto soltanto due purché vi sia la compresenza fisica e partecipativa di tutti i partecipanti del reato.
Gli atti persecutori ex art. 612 bis c.p.c. (cd. stalking)
La fattispecie di reato che ha maggiormente risentito della riforma del femminicidio è indubbiamente quella degli atti persecutori ex art. 612 bis c.p. (c.d. stalking), polo attorno al quale ruota tutta la disciplina di tutela della vittima di violenza di genere.
La norma, salvo che il fatto costituisca più grave reato, punisce “chiunque con condotte reiterate, minaccia o molesta taluni in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Si prevede, poi, in linea con quanto previsto per la violenza sessuale, un aggravio di pena “ se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa”; ancora, si prevede un aggravio di pena se il fatto è commesso con l’uso di strumenti informatici o telematici o se il fatto è commesso ai danni di un minore o di una donna in stato di gravidanza o disabilità.
Anche sulla norma richiamata è da ultimo intervenuto il legislatore del codice rosso, introducendo un sensibile aumento di pena, con rilevanti riflessi anche in materia di misure cautelari.
La legge sul femminicidio del 2013 ha inciso notevolmente sulla procedibilità del reato di stalking.
Originariamente il reato era procedibile a querela, senza disposizioni che limitassero la possibilità di proporre querela o di revocarla.
Il d.l 93/2013 sul femminicidio ha introdotto la irrevocabilità della querela, così come per il delitto di violenza sessuale, allo scopo di garantire la libertà di autodeterminazione al ritiro della querela da parte della vittima, che potrebbe essere coartata alla remissione dallo stesso autore del reato. La legge di conversione, 119/2013 è nuovamente intervenuta sul tema, prevedendo che il reato resti procedibile a querela, ma allo stesso tempo chiarendo che la remissione possa essere “solo processuale”, mentre resta irrevocabile nei casi più gravi (art. 614 bis co. 4 c.p.). Si è, così, cercato un compromesso tra la libertà di revoca di querela da parte della vittima e la garanzia di tutela effettiva contro il rischio di pressioni esterne.
Non è infrequente, infatti, che la vittima di stalking subisca la violenza anche psicologica del soggetto agente. Inoltre, non sempre le vittime di atti persecutori hanno intenzione di avviare procedimenti penali e processi che potrebbero essere emotivamente pesanti, d’altro lato però hanno l’esigenza di essere protette, per evitare che la situazioni degeneri e diventi ancora più pericolosa. Il legislatore ha, così, pensato allo strumento dell’ammonimento del questore come forma alternativa di tutela, introdotto con la legge 38/2009.
Più chiaramente, la vittima del reato di stalking ( e dei reati sentinella sopra richiamati) ha due scelte: procedere con querela e dare l’avvio ad un procedimento penale ovvero richiedere al questore l’ammonimento.
L’intervento del questore serve a dissuadere lo stalker dal reiterare le azioni delittuose ed è un avvertimento con cui si intima di interrompere la condotta.
L’ammonimento è uno strumento amministrativo e, dunque, non presuppone la prova certa, ma basta la verosimiglianza dei fatti.
Una volta ricevuta la segnalazione, e valutata la fondatezza della segnalazione, il questore procederà all’ammonimento formale.
Nel caso in cui il soggetto intimato reiteri la condotta e sia poi condannato in un processo penale, subirà un aumento di pena per l’inosservanza dell’ammonimento.
Con il reato di stalking il legislatore punisce la minaccia o molestia reiterata della vittima.
Per espressa previsione, dunque, la reiterazione della condotta è requisito essenziale della fattispecie, che fa del reato di stalking un reato abituale.
Un delicato problema interpretativo si è posto per la definizione della reiterazione. Ci si è chiesti quale sia il numero minimo di condotte necessario e quale lasso di tempo debba intercorrere tra una condotta e l’altra.
La questione è complicata dal fatto che solitamente la giurisprudenza, per definire i reati abituali non fa riferimento al solo dato quantitativo di ripetizione della condotta, ma al nesso che lega le diverse condotte esprimendo un disvalore ulteriore rispetto a quello espresse da condotte singole (ad es. nel reato di maltrattamenti in famiglia, altro tipico reato abituale, la cassazione ha sempre chiarito che è necessario che l’interprete accerti se i singoli atti hanno tratto origine da situazioni contingenti e particolari, ovvero se rientrino in una cornice unitaria e siano collegati, sul piano soggettivo, da un nesso di abitualità e, sul piano soggettivo, da un’unica interpretazione criminosa).
Diversamente, la giurisprudenza in materia di atti persecutori, invece, sembra aver optato per un’interpretazione prettamente “quantitativa”.
Inizialmente la cassazione ha escluso che solo due condotte potessero configurare il reato di stalking (ex multis Cass. 12.3.2006). In seguito, si è fatto proprio un orientamento più estensivo: si è ammessa la configurazione della fattispecie anche a fronte di una sola reiterazione.
Per interpretazione immediatamente successiva, non avendo il legislatore definito a priori i requisiti della reiterazione, la norma manifestava tensione con i principi di necessaria tipicità e determinatezza. Tuttavia, a salvare la norma da applicazioni di indubbia costituzionalità è proprio la presenza degli eventi alternativi, nel senso che potrà dirsi raggiunto il livello di reiterazione solo quando le condotte dell’agente avranno dato causa ad uno degli eventi richiesti dalla norma incriminatrice.
La norma è, infatti, costruita come reato di evento ed è integrata dalla realizzazione alternativa di uno dei tre eventi richiamati. La fattispecie è integrata quando la condotta di molestia o minaccia, reiterata, ingeneri nella vittima un perdurante stato di ansia o paura; il fondato timore per l’incolumità o costringa la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.
La Corte Costituzionale ha chiarito la legittimità della siffatta costruzione della fattispecie. Il perdurante stato di ansia e paura e il fondato timore per l’incolumità riguardano la sfera emotiva e devono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente che denotino una destabilizzazione. Anche l’interpretazione dell’alterazione delle abitudini di vita passa attraverso il confronto tra i comportamenti che la vittima teneva di solito e quelli che è costretta a tenere per l’attività pericolosa. (C. Cost. 172/2014).
I nuovi reati introdotti con il Codice Rosso
Al reticolo di norme così congegnato dal legislatore del d.l. femminicidio, da ultimo – come già anticipato – si affiancano talune fattispecie di reato che vanno a colmare vuoti di tutela emersi nella prassi.
La ratio del Codice rosso è proprio quella di garantire tutela piena e effettiva alle vittime di violenza di genere.
La pienezza di tutela è perseguita sul piano sostanziale e sul piano processuale.
Sul piano sostanziale, il legislatore – oltre al già segnalato inasprimento delle pene dei reati che costituiscono manifestazione tipica della violenza domestica – ha introdotto quattro nuove fattispecie.
Art. 387 bis c.p.: violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto dei luoghi frequentati dalla persona offesa
L’art. 387 bis c.p. punisce la violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto dei luoghi frequentati dalla persona offesa.
La condotta consiste nella violazione dei provvedimenti cautelari previsti dagli artt. 282 bis, 282 ter e 384 bis c.p.p., tutti ideati per una maggiore tutela preventiva della vittima.
Sinteticamente, l’art. 282 bis c.p.p. prevede la possibilità, per il giudice, di prescrivere all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare o non farsi più rientro o non accedervi senza sua autorizzazione. Inoltre, in caso di particolari esigenze di tutela della persona offesa, il giudice può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi ai luoghi frequentati abitualmente dalla persona offesa, specie il luogo di lavoro e il domicilio della famiglia di origine, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tal caso, si prescrivono le modalità di esecuzione. Inoltre, per particolari necessità, il giudice può prescrivere anche di non avvicinarsi ai luoghi solitamente frequentati dai congiunti della persona offesa o da persone con questa convivente o legate da relazione affettiva.
L’art. 384 bis c.p. attribuisce agli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria la facoltà di disporre, su autorizzazione del p.m., l’allontanamento urgente dalla casa familiare, con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa in taluni casi espressamente disciplinati.
Il neo introdotto art. 387 bis c.p. pone fine al vuoto di tutela rilevato nella prassi giudiziaria. Fino alla riforma del 2019, infatti, la violazione dei provvedimenti cautelari richiamati poteva portare esclusivamente ad una più severa misura cautelare. Del resto, con la previsione richiamata, il legislatore ha inteso attuare l’art. 55 della richiamata Convenzione di Istanbul nel punto in cui dispone che la violazione delle misure di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di frequentazione dei luoghi frequentati dalla vittima deve essere penalmente sanzionata.
Si è subito evidenziato che, in forza del principio di tassatività, resta esclusa dal fuoco della norma la violazione degli artt. 342 bis e 342 ter c.c., pure disposti a tutela del soggetto debole.
Art. 558 bis c.p.: costrizione al matrimonio
L’art. 558 bis c.p. incrimina la costrizione al matrimonio, in parziale attuazione dell’art. 37 della Convenzione di Istanbul.
Anche questa previsione interviene in modo specifico a colmare un vuoto di tutela, sanzionando condotte che nell’assetto previgente, laddove ne ricorressero gli elementi costitutivi, erano ricondotti a fattispecie già previste, sebbene non perfettamente aderenti (induzione al matrimonio; sottrazione consensuale di minorenni per il fine del matrimonio; sequestro di persona; sottrazione di persone incapaci..).
La nuova disposizione punisce chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o un’unione civile. Il secondo comma estende la pena a chiunque, approfittando della vulnerabilità o dell’inferiorità psichica o di necessità, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induce a contrarre matrimonio.
Nonostante la collocazione sistematica tra i delitti contro il matrimonio, la norma è volta a tutelare la salvaguardia della libertà individuale per le scelte di vita che coinvolgono la sfera affettiva.
Il primo comma, che punisce genericamente qualsiasi costrizione realizzata con violenza o minaccia, ripropone lo schema del delitto di violenza privata (art. 610 c.p.) di cui pare norma speciale, laddove l’elemento specializzante si individua nella finalità della violenza e della minaccia.
Art. 612 ter c.p.: il revenge porn
L’art. 612 ter c.p. introduce il c.d. revenge porn, per punire la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. La norma, salvo che il fatto costituisca più grave reato, punisce chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto i video, li invia, consegna cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate, al fine di recare loro un nocumento”.
Desta perplessità l’inserimento della fattispecie tra i delitti contro la libertà morale poiché pare assente la finalità minatoria.
La procedibilità del reato, in conformità ai principi che hanno orientato il legislatore nei delitti contro la libertà sessuale, è stabilita in via di principio nella procedibilità a querela con la possibilità, similmente allo stalking, di una sola rimessione processuale, per assicurare che l’esercizio di tale facoltà avvenga al cospetto del giudice.
Art. 583 quinquies c.p.: deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso.
L’art. 583 quinquies c.p. incrimina la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso.
Il legislatore trasforma in fattispecie autonoma il reato di lesione, causa della deformazione o dello sfregio permanete, prima disciplinato come delitto aggravato, modificandone il trattamento sanzionatorio in maniera afflittiva.
L’intervento, reso necessario dall’allarmante ripetersi di vicende di lesioni volontarie, mira a scongiurare che la fattispecie aggravata possa essere attenuata attraverso il bilanciamento con circostanze attenuanti concorrenti. In tale ottica va la pena accessoria: la condanna, ovvero l’applicazione della pena per patteggiamento , comporta “l’interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente alla tutela, alla curatela e all’amministrazione di sostegno” anche se la previsione contrasta con le ormai nette affermazioni della Corte Costituzionale avverso la pena accessoria fissa e perpetua (si veda in tal senso Corte Cost. 222/2018).
La previsione di nuovo conio è stata inserita nei delitti contenuti all’art. 4 bis L.54/75.
Nello specifico, giusta l’inclusione del neo introdotto delitto tra le fattispecie enumerate dalla norma menzionata, si ammette la concessione di benefici penitenziari a seguito dell’osservazione scientifica della personalità e, nel caso in cui la vittima sia minorenne, si ammette la partecipazione ad un programma di riabilitazione psicologica specifica.
Le novità in ambito processuale
Al fianco a misure di carattere sostanziale, come detto, è bene specificare che il legislatore interviene in maniera netta anche in ambito processuale.
Le novità sono tutte improntate ad un’accelerazione del procedimento penale.
SI perviene alla velocizzazione delle indagini e dei procedimenti giudiziari per giungere alla rapida emanazione di provvedimenti a tutela della vittima.
La polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, deve darne immediatamente comunicazione al p.m., anche in forma orale (art. 1 L. 69/2019).
Il pubblico ministero, entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, assume informazioni dalla persona offesa o dal querelante (art. 2). Il termine potrà anche non essere osservato se ricorrono “imprescindibili esigenze di tutela di minori di anni diciotto o della riservatezza delle indagini, anche nell’interesse della persona offesa”.
Nell’ottica di tutela, sono poi individuate espressamente le informazioni che devono essere fornite alla persona offesa sin dal primo contatto con l’autorità procedente.
Al di là della previsione che preveda la comunicazione, alla vittima, delle strutture sanitarie presenti sul territorio, delle case famiglia, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza alla vittima, sono incrementate anche le comunicazioni dei provvedimenti giudiziari.
All’art. 90 ter c.p.p. è inserito il comma 1 ter che prevede l’obbligo di comunicazione, alla persona offesa da reato di violenza domestica e di genere e al suo difensore, dei provvedimenti di scarcerazione, cessazione della misura detentiva e di evasione.
Allo stesso modo, deve essere immediatamente comunicata, alla persona offesa e al suo difensore, la revoca o la sostituzione di misure coercitive e interdittive.
Inoltre, si chiarisce che l’art. 272, co. 2 bis, c.p.p., che prevede non applicabile la custodia cautelare in carcere ove la pena da irrogare non sia superiore tre anni, non trovi applicazione – tra gli altri – per i reati di maltrattamenti contro i familiari e i conviventi e di stalking.
Ulteriori novità
Infine, è bene segnalare che il “ Codice Rosso” ha introdotto, per il catalogo dei reati che costituiscono manifestazione di violenza domestica e di genere, un’ulteriore condizione per l’accesso alla sospensione condizionale della pena (art. 165 c.p.) prevedendo che la concessione sia comunque subordinata alla partecipazione di specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione e assistenza psicologica di soggetti condannati per i reati in esame.
A completamento del reticolo di norme incriminatrici, disposto a tutela della vittima di violenza di genere, è bene segnalare che il testo unico in materia di spese di giustizia garantisce sempre l’accesso al gratuito patrocinio per le vittime di violenza sessuale, stalking e maltrattamenti.
In generale è possibile accedere al gratuito patrocinio a spese dello Stato solo se non si dispone di un reddito sufficiente ad assicurarsi una difesa adeguata. A tal fine, la legge stabilisce la soglia massimo di reddito imponibile ai fini Irpef per poter accedere al gratuito patrocinio.
La vittima dei reati richiamati, invece, ha diritto al gratuito patrocinio a spese dello stato qualunque sia il suo reddito. La cassazione ha, infatti, chiarito che in tal caso non solo non è necessario rientrare nei limiti di reddito, ma nemmeno occorre presentare dichiarazioni sostitutive (Cass. 13497/2017).
La vittima di violenza e di stalking deve solo presentare richiesta di ammissione al gratuito patrocinio e il Tribunale non “può”, ma deve accogliere la domanda della donna vittima di violenza.
La finalità della norma è quella di assicurare alle vittime di tali reati un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità dell’assistenza legale.