Le procedure di allerta costituiscono uno strumento volto ad evidenziare gli elementi premonitori della crisi d’impresa, così da farli emergere quando la crisi si trovi ancora in una fase embrionale.
Già la Commissione Trevisanato (commissione che dal 2001 elaborò alcune proposte di riforma delle procedure concorsuali) propose l’introduzione nell’ordinamento italiano di procedure aventi queste caratteristiche ma, allora, a tale proposta, non seguì alcuna implementazione. Dopo tale occasione perduta, è stato necessario attendere ancora molti anni prima che si tornasse a parlare (seriamente) di procedure di allerta della crisi d’impresa. Ad oggi, il dibattito attorno alle procedure di allerta è tornato ad essere molto vivace e le ragioni di questo rinnovato interesse sono molteplici.
Tra le altre, vale la pena osservare che, anche in sede europea, è stata dedicata una particolare attenzione al tema delle procedure di allerta: anzitutto con la Raccomandazione dell’Unione Europea n. 2014/135/UE, la quale prevede che gli Stati membri introducano strumenti idonei a consentire l’emersione anticipata della crisi d’impresa. Anche l’art. 3 della proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio del 22 novembre 2016 contempla l’opportunità di disciplinare tali strumenti. La proposta di Direttiva, ad oggi ancora non convertita in legge, si sofferma, in particolare, sulla nozione di “early warning” che viene definito come il complesso di quegli strumenti che possono evidenziare l’avvio di un peggioramento delle performance dell’impresa e che possono, dunque, segnalare all’imprenditore la necessità di attivarsi con urgenza al fine di porvi rimedio.
Con questo background sullo sfondo, nell’ambito del progetto di riorganizzazione complessiva delle procedure concorsuali, la commissione Rordorf ha elaborato delle proposte in tema di procedure di allerta che si discostano parzialmente da quelle predisposte della Commissione Trevisanato. Le soluzioni tecniche elaborate dalla Commissione Rordorf hanno costituito lo “zoccolo duro” del disegno di legge n. 3671 bis e dei successivi lavori parlamentari che hanno portato all’approvazione della legge delega n. 155/2017.
Nell’iter parlamentare sono state effettuate perlopiù modifiche minori a quanto già proposto dalla Commissione Rordorf. Tra le poche modifiche sostanziali, si segnala l’eliminazione della competenza del tribunale per le procedure d’allerta, che era invece prevista nell’originario schema elaborato dalla Commissione Rordorf (e che era stata oggetto di forti critiche in dottrina).
Facendo un rapido confronto, è facile notare che molti principi e strumenti tecnici successivamente trasposti nella legge delega (e poi accolti nel decreto legislativo delegato) erano presenti già nella relazione conclusiva dei lavori della commissione. La chiusura della XVII legislatura e l’avvio stentato della successiva hanno contribuito a rallentare i lavori relativi all’introduzione di una disciplina di dettaglio in tema di procedure di allerta ma, ad ogni modo, in data 10 gennaio 2019, il Consiglio dei Ministri ha licenziato definitivamente il decreto legislativo che ha attuato la Legge 19 ottobre 2017, n. 155 e ha approvato il nuovo “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”. Il nuovo Codice – dando attuazione all’art. 4 della legge delega – ha finalmente disciplinato, all’art. 12 e seguenti, le procedure d’allerta nella crisi d’impresa.
Le procedure d’allerta nella crisi d’impresa e l’approccio forward looking
Ai fini del prosieguo della trattazione, è opportuno chiarire che strumenti di allerta sono previsti anche in altri settori dell’ordinamento: infatti, oltre agli strumenti d’allerta applicabili alla crisi d’impresa, l’ordinamento prevede ulteriori procedure con caratteristiche e finalità analoghe.
Le procedure d’allerta nella crisi d’impresa si fondano su un approccio forward looking, volto ad anticipare l’emersione delle problematiche dell’impresa, così da contenerne gli effetti negativi e pregiudizievoli. Si ritiene che l’anticipazione della soglia d’allerta permetta agli operatori di affrontare i problemi ottenendo migliori risultati.
È chiaro che un meccanismo più efficiente di risoluzione delle difficoltà dell’impresa rappresenti un vantaggio sia per i singoli soggetti direttamente interessati, sia per la collettività (tale approccio può, quindi, essere considerato a pieno titolo una soluzione win-win), con un deciso contenimento delle esternalità negative.
Come accennato sopra, la valorizzazione dell’approccio di early warning è stata promossa anche in settori differenti da quello della crisi d’impresa. Ciò si coglie in modo evidente, ad esempio, nel settore bancario: l’indicazione, nelle linee guida delle BCE per la valorizzazione dei Non Performing Loans dell’obbligo di considerare come non performing exposures tutti quei crediti che appaiano, secondo una valutazione prospettica, di difficile realizzo costituisce un’applicazione di meccanismi di early warning; in ambito contabile, invece, i principi IFRS9 impongono una valutazione dei crediti secondo una valutazione dinamica e prospettica, abbandonando i criteri di valutazione statica incentrati sull’incurred loss.
Si può affermare, dunque, di essere attualmente spettatori di una vera e propria rivoluzione copernicana nei criteri adottati per l’analisi, valutazione e denuncia dei rischi: si è deciso, trasversalmente nelle materie che risultano più rilevanti per il loro impatto economico, in tutti gli ordinamenti europei, di arretrare la soglia di rilevanza delle situazioni di difficoltà. Si è, infatti, deciso di accendere i riflettori sulla situazione potenzialmente negativa ben prima che questa si deteriori, anticipandone la rilevazione e la emersione, sia a livello temporale che dal punto di vista quantitativo, ritenendo che in tal modo si aumenti la consapevolezza del rischio e lo “si curi” per tempo evitandone la possibile evoluzione negativa.
Come già evidenziato, la valorizzazione dell’approccio forward looking non è faccenda solamente italiana, ma, tutto al contrario, è di derivazione chiaramente europea. Anche gli altri Paesi europei, perciò, hanno dovuto implementare tale nuova impostazione e si sono trovati a fronteggiare problematiche analoghe a quelle affrontate dal legislatore italiano. Risulta, dunque, particolarmente interessante osservare quali siano le diverse soluzioni tecniche approntate dagli altri paesi europei. Alcuni di questi paesi, però, Francia in testa, non sono stati chiamati ad apportare modifiche sostanziali allo strumentario già previsto dal proprio ordinamento, in quanto i loro sistemi giuridici già prevedevano meccanismi in linea con gli scopi perseguiti dal legislatore europeo.
La commissione Rordorf nell’elaborare le sue proposte ha potuto, quindi, prendere spunto da ordinamenti vicini, che già avevano sperimentato e maturato meccanismi di allerta nella crisi dell’impresa. In chiave comparatistica, l’ordinamento che più di altri, ad oggi, rappresenta il punto di riferimento e criterio di paragone per le proposte di legge italiane in tema di procedure di allerta è – come detto – quello francese. È, però, necessario segnalare l’esistenza di differenze strutturali tra la nuova disciplina introdotta in Italia ed il modello francese. Molte di queste differenze trovano la loro giustificazione nelle diversità del sistema giudiziario francese, in cui sono presenti i cd. Tribunali di Commercio, organi giurisdizionali con una peculiare composizione.
La composizione dei Tribunali di commercio è particolare, in quanto vi fanno parte imprenditori e professionisti; è evidente che tali soggetti abbiano una maggiore sensibilità, rispetto ai giudici ordinari, per le problematiche attinenti alla gestione d’impresa. Anche per tale ragione, i Tribunali di commercio si rivelano essere il soggetto più adatto per effettuare una diagnosi delle problematiche dell’impresa e per consigliare all’imprenditore e/o agli organi di gestone dell’impresa quali accorgimenti adottare per porre rimedio alla situazione di difficoltà. In Italia, il legislatore delegante, ben consapevole dell’inadeguatezza dei giudici togati a valutare correttamente le difficoltà dell’impresa e a porvi efficientemente rimedio, ha previsto la devoluzione delle procedure di allerta ai cd. “organismi di composizione della crisi” istituiti presso le Camere di Commercio.
Le procedure di allerta in Francia
In Francia esistono più modelli di procedura d’allerta. La procedura di allerta in senso stretto attivata dai commisaires aux competes è disciplinata dall’art. L 234-1 del Codice di Commercio; accanto a questa è prevista la procedura attivata dal Presidente del Tribunale di commercio, disciplinata all’art. L.611-2 del Codice di Commercio. La procedura di allerta francese costituisce una procedura non concorsuale, caratterizzata dalla natura riservata e confidenziale: costituisce il luogo dove l’imprenditore potrà ricevere consigli sia giuridici, sia economico-manageriali.
Il sistema francese non individua un vero e proprio elenco tassativo di fattispecie che consentano l’apertura della procedura d’allerta: infatti, solo dopo molti tentativi poco fortunati si è giunti ad un sistema atipico. Le prime proposte francesi (tra le altre, meritano una menzione, il Rapport Sudreau del 1975 e il projet n. 974 del 1979) richiedevano, per l’attivazione della procedura, l’emersione di specifici segnali (le “clignotans”) che fossero indicatori di una preoccupante evoluzione dello stato di salute dalla società. Il legislatore delegato italiano non pare aver fatto tesoro dell’esperienza maturata oltralpe in quanto ha individuato i cd. indicatori della crisi come presupposti dell’attivazione delle procedure d’allerta. In tal modo, si è costruito un sistema sostanzialmente tipico, che rischia di irrigidire tali procedure (anche se, come meglio si dirà di seguito, sono stati previsti meccanismi volti a personalizzare tali indicatori e ad adattarli alle specificità delle singole imprese).
La prima procedura di allerta prevista in Francia richiede ai commissaires aux comptes di segnalare agli organi di gestione tutte quelle circostanze che possano compromettere la continuità aziendale. È interessante notare, e risulterà assai utile in chiave interpretativa della nuova disciplina posta dal “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, che la dottrina francese ritiene che il collegio sindacale non abbia alcun obbligo di ricercare sistematicamente tali fatti idonei a compromettere la continuità aziendale, ma ritiene, al contrario, che l’obbligo della segnalazione sorga in capo ai commissaires aux comptes solamente quando questi rilevino per qualsiasi ragione, anche in modo incidentale, circostanze che possano compromettere la continuità aziendale. Nell’ambito di tale procedura, è previsto un termine di 15 giorni successivo all’informativa, entro il quale il presidente del consiglio di amministrazione o il direttore generale dovrà addurre giustificazioni idonee a superare la contestazione mossa. Qualora tali soggetti non forniscano alcuna risposta nei termini o se tale risposta non sia giudicata soddisfacente perché non fornisce garanzie sufficienti sulla continuità aziendale, si aprirà una seconda fase della procedura. La seconda fase prevede che il consiglio di amministrazione assuma una delibera sull’oggetto della contestazione e che l’ordine del giorno del consiglio di amministrazione venga inviato al tribunale di commercio. Se tali adempimenti non vengono osservati, il collegio sindacale provvede ad informare l’assemblea ordinaria di tali circostanze, presentandole anche una relazione speciale. In mancanza di cooperazione degli organi sociali, i commisaires aux comptes dovranno dare comunicazione al tribunale di commercio delle circostanze rilevate e delle risposte/mancate risposte della società.
Nel meccanismo ideato dal legislatore francese, i soci che abbiano una partecipazione pari ad almeno il 50 per cento del capitale sociale avranno la possibilità di porre interrogazioni agli organi di gestione, con riferimento a quei fatti che siano idonei ad incidere negativamente sulla continuità aziendale. Di fatto, di fronte all’emersione di tali circostanze potenzialmente “pericolose” per la sopravvivenza della società, un numero di azionisti che rappresentino la maggior parte della compagine sociale potranno chiedere all’organo di controllo di assumersi le proprie responsabilità e dare spiegazioni su tali fatti. Ovviamente, la sanzione a fronte di risposte non soddisfacenti potrà essere la rimozione degli amministratori, fatte salve le eventuali ulteriori iniziative che siano intraprese nei confronti di questi.
Tali poteri di interrogazione e, in qualche modo di controllo, sulle attività della società, spettano anche al comitè d’enterprise – l’organo rappresentativo dei lavoratori dipendenti – il quale potrà domandare al “capo dell’impresa” maggiori informazioni su tali circostanze. Ovviamente non sarebbe facile calare nella realtà italiana il concetto di capo dell’impresa, ma è sicuramente interessante rilevare come vi siano una pluralità di soggetti abilitati a “fare le pulci” alla gestione dell’impresa, con la finalità di rendere questa il più possibile trasparente e, dunque, efficiente. Va da sé che una regolamentazione di questo tipo sottende non un mero interesse privato, ma anche un più generale interesse pubblico.
Un’ulteriore procedura di allerta disciplinata dall’ordinamento francese prevede che l’iniziativa sia intrapresa dai groupements de prevention agrees qualora emergano indici di difficoltà dell’impresa. Tali soggetti, quando lo ritengano opportuno, possono domandare alla Banca di Francia che venga dato un parere sulla situazione finanziaria della società.
E comunque, è previsto che, il Presidente del Tribunale di commercio, ogni qualvolta rilevi circostanze che indichino difficoltà nella normale gestione dell’impresa, provveda a convocare i dirigenti dell’impresa stessa così da sollecitare iniziative volte a porre rimedio a tale situazione.
Dalla trattazione che precede emerge chiaramente che l’ordinamento francese prevede diversi meccanismi e procedure di allerta nella crisi d’impresa, volti a massimizzare la comunicazione tra gli organi aziendali oltreché all’emersione della crisi. Inoltre, nel sistema francese, spicca il ruolo del Tribunale di commercio, che spesso in tali procedure svolge anche un ruolo di consulenza nei confronti dell’imprenditore in crisi.
L’approccio forward looking nel diritto bancario e nel diritto societario
La legge fallimentare italiana, nel suo impianto originario, prima dell’ultima modifica normativa, non prevedeva strumenti di osservazione preventiva degli indicatori della crisi, che fossero finalizzati ad individuare ed evidenziare il deterioramento delle condizioni dell’impresa, nell’ottica di preservare gli assets aziendali e di tutelare sia l’interesse dei creditori sia quello dei lavoratori. Neppure il codice civile prevedeva particolari obblighi di compliance gravanti sugli organi societari, che avessero lo scopo di dare l’allarme a fronte del deterioramento delle condizioni dell’impresa. Negli anni, sono comunque state elaborare routine e best practices da rispettare nello svolgimento delle mansioni nell’ambito del contesto societario.
È sufficiente guardare le statistiche relative alla probabilità di insolvenza (rectius, la probabilità che un’impresa venga dichiarata insolvente) per capire che una riforma normativa è più che mai necessaria. Infatti, secondo le rilevazioni dalla European Banking Authority relative al 2017 e pubblicate nel Risk Dashboard Annex – 1° trimestre 2018, le PMI italiane hanno una probabilità di insolvenza media pari al 12,03 % e una perdita attesa al momento dell’insolvenza pari al 40,39 %. Nonostante tali indicatori siano lievemente migliorati negli ultimi anni, questi rimangono ben peggiori di quelli rilevati in Germania – dove con riferimento agli stessi indicatori sono stati rilevati indicatori pari, rispettivamente a 1,20 % e al 32 % – e Francia – dove le rilevazioni sono pari, rispettivamente, a 2,14 % e 38,04 %- e sono solamente di poco migliori rispetto a quelli rilevati nella disastrata economia greca (15,74 % e 40,52 %). Dalla lettura di questi dati statistici è evidente come lo sviluppo di un sistema di interscambio comunicativo tra gli organi di gestione delle imprese, organi di controllo delle imprese stesse e anche gli organi di controllo del rischio delle banche (che si caratterizzano per effettuare una continua valutazione delle condizioni di solidità dei propri clienti) debba essere implementato e reso efficiente. Tale meccanismo di scambio informativo, affinché possa funzionare correttamente e affinché possa rivelarsi particolarmente adatto ad evitare che la crisi dell’impresa giunga ad una fase matura, è auspicabile che abbia le caratteristiche della continuatività, confidenzialità e riservatezza. Va riconosciuto che le procedure d’allerta accolte nel Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza sembrano rispettare tutte le caratteristiche summenzionate.
Ciò che si può facilmente notare da tali rilevazioni statistiche è una grande differenza tra gli ordinamenti che prevedono sistemi di controllo e allerta degli indicatori della crisi d’impresa e quelli che non li prevedono; e tale grande differenza è percepibile e misurabile direttamente nella maggiore o minore probabilità che un’impresa si venga a trovare in uno stato d’insolvenza. La perdita percentuale attesa non è invece così diversa nei singoli paesi, e comunque tale dato è influenzato dall’efficienza delle piattaforme di recupero del credito e dalla qualità e dalla tempestività delle procedure esecutive previste dai singoli ordinamenti.
Come già evidenziato, una trattazione completa delle procedure di allerta non può prescindere da un confronto e da una lettura d’insieme dell’ordinamento. Ragioni di completezza della trattazione impongono, quindi, di tenere in considerazione l’approccio adottato dal legislatore europeo – recepito anche dall’ordinamento nazionale – con riferimento a talune materie, tra cui anche i Non Performing Loans. Dunque, va ricordato che le “Linee Guida per le banche sui crediti deteriorati (NPL)”, emanate dalla BCE nel marzo 2017 già suggeriscono alle banche di dotarsi di procedure e di flussi informativi interni volti ad individuare e, successivamente, a gestire proattivamente (fin da quando si trovino in uno stadio molto precoce) le situazioni di deterioramento creditizio, adottando un Early Warning System. Secondo le Linee Guida, la gestione operativa delle segnalazioni di allerta derivanti dall’Early Warning System deve essere affidata ad unità operative di back-office specializzate nel monitoraggio e nella valutazione del rischio (il cd. Credit Risk Management) ma tali segnalazioni devono altresì essere verificate, attraverso procedure dedicate, da parte di unità di front-office (che nella prassi coincide con il singolo gestore di filiale).
Le linee guida della BCE prevedono, inoltre, dei suggerimenti in ordine alla struttura e alla procedura operativa che le banche potranno seguire nella progettazione di un sistema di allerta adeguato che si fondi su: (i) l’identificazione di adeguati indicatori, (ii) la previsione di una procedura basata sull’adeguata verifica della situazione economico finanziaria complessiva della controparte (anche interpellando i referenti aziendali) e (iii) l’individuazione di adeguate misure e soglie di allerta.
C’è da dire che la procedura prevista dalle linee guida della BCE sembra adattarsi perfettamente alle esigenze segnaletiche e di monitoraggio preventivo prospettate dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d’altronde, entrambi gli interventi sono figli di una medesima visione dettata dal legislatore europeo).
Il legislatore nazionale, sulla scorta delle indicazioni europee, e seguendo gli esempi virtuosi di quei paesi in cui una fattiva collaborazione tra tutti gli stakeholders ha determinato una forte riduzione del rischio d’insolvenza, sembra voler, quindi, costruire un meccanismo in cui ciascun portatore d’interesse sia responsabilizzato. Ciò viene perseguito imponendo a ciascun portatore d’interessi l’obbligo di comportarsi in modo virtuoso e collaborativo, e rendendo così possibile la sinergia tra i sistemi di controllo interni all’impresa ed i sistemi di monitoraggio del rischio di credito delle banche. Sia la singola impresa sia le banche hanno, infatti, il comune interesse che la continuità aziendale sia preservata. L’accoglimento da parte del legislatore italiano di tale modello si può cogliere dalla lettura della previsione – contenuta nel nuovo Codice della crisi d’impresa e insolvenza – che impone alle banche e agli intermediari di cui all’art. 106 TUB di dare notizia, anche agli organi di controllo societari, delle variazioni e revoche degli affidamenti all’impresa.
Le innovazioni nel diritto societario
Con l’adozione del nuovo approccio basato su una visione forward looking e la relativa introduzione delle procedure di allerta, come previste dall’art. 12 e ss. del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, anche i meccanismi di corporate governance disciplinati dal codice civile (e i relativi compiti gravanti sugli organi di controllo) dovranno essere conseguentemente aggiornati.
Ogni qualvolta si parla della rilevazione tempestiva della crisi d’impresa o dell’individuazione di elementi che possano preannunciare tale crisi, si deve fare i conti con la struttura del tessuto economico italiano, caratterizzato da un gran numero di PMI e un numero ancora più elevato di microimprese. In questo contesto, l’imprenditore, che spesso è il fondatore ed artefice dell’impresa stessa, del tutto immedesimato con “la sua creatura” difficilmente avrà la freddezza per individuare quelle circostanze che potrebbero essere spia di un deterioramento del business o delle condizioni finanziarie dell’impresa. Anche qualora l’imprenditore/ socio di maggioranza se ne dovesse avvedere, spesso cercherebbe di nascondere tali circostanze anziché renderle pubbliche, perché convinto di riuscire a superare le difficoltà e perché certo che la pubblicità di tali circostanze potrebbe indebolire ulteriormente l’impresa. Il piccolo imprenditore (utilizzando la nozione in senso atecnico) con grande difficoltà accetterebbe di aver “fallito” (utilizzando la parola nel senso colloquiale e non tecnico) e dunque cercherebbe fino all’ultimo di risollevare le sorti dell’impresa, spesso finendo per peggiorare la situazione. L’imprenditore avrà forte ritrosia nel riconoscere di essere in una condizione di difficoltà.
Spetta, quindi, al legislatore predisporre uno strumentario che sia idoneo a permettere la rilevazione di quelle situazioni che siano indice del fatto che l’impresa versi in uno stato di difficoltà o pre-crisi (la cd. twilight zone, la zona di ombra in cui sorgono le prime avvisaglie di difficoltà ma è ancora possibile porvi rimedio). Corollario di queste considerazioni è la predisposizione di uno statuto societario particolare, afferente al diritto societario della crisi, applicabile all’impresa che si trovi in questa situazione d’ombra.
Un approccio di questo tipo è ben presente all’ordinamento statunitense, il quale conosce il concetto di “vicinity of insolvency” e prevede che, al ricorrere di tale circostanza di pre-crisi, gli organi sociali della corporation siano chiamati ad agire non solo con il fine di massimizzare il profitto della corporation stessa ma anche al fine di proteggere quegli interessi che siano riconducibili all’interesse generale. Addirittura, c’è chi giunge ad affermare che quando la corporation si trovi nella cd. twilight zone, gli amministratori non rispondano più ai soci, bensì ai creditori e genericamente a tutti i portatori d’interessi nella corporation. Questa lettura radicale dà bene l’idea di quanto la disciplina speciale da applicarsi in casi di questo genere possa discostarsi da quella ordinaria.
È auspicabile che anche il legislatore italiano preveda una disciplina degli organi sociali, applicabile in pendenza della procedura di allerta, che sia in qualche modo derogatoria rispetto a quella di diritto comune.
La legge delega e le soluzioni accolte dal legislatore delegato
La delega contenuta nella l. 155/2017, seguendo il modello francese, ha previsto due diversi modelli di allerta (che sono stati sostanzialmente accolti nel “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”):
- un’allerta interna
- e un’allerta esterna.
Secondo il modello di allerta interna gli organi di controllo dell’impresa sono chiamati a comunicare agli amministratori l’esistenza di uno stato di pre-crisi. Questo meccanismo è volto ad incentivare la circolazione delle informazioni all’interno dell’impresa stessa, consentendo agli amministratori di esaminare il rilevo mosso dagli organi di controllo e valutare quali siano le ragioni di tale rilievo; qualora l’oggetto della segnalazione dovesse rivelarsi indicatore di patologie della gestione o di rischi potenziali relativi all’impresa, spetterà agli amministratori avvedersene e valutare come sanarli.
L’altro modello, quello dell’allerta esterna, prevede che determinati soggetti pubblici, che intrattengano rapporti con l’impresa e che vantino crediti nei confronti dell’impresa stessa che siano superiori ad una determinata soglia di materialità, dovranno prontamente segnalare tale circostanza agli amministratori. Anche tale meccanismo vuole avere, nell’intenzione del legislatore, la funzione di campanello di allarme di situazioni potenzialmente pericolose per la continuità imprenditoriale.
L’organo di controllo dell’impresa ha, dunque, una funzione centrale nell’ambito del complesso delle procedure di allerta ed emersione anticipata della crisi. Difatti, come già previsto dalla legge delega, sono previsti a carico dell’organo di controllo dell’impresa, sia obblighi di monitoraggio degli indicatori premonitori della crisi, sia obblighi di segnalazione degli indizi di pre-crisi.
Peraltro, l’art. 12 del Codice chiarisce che rientrano nella categoria degli strumenti di allerta sia gli obblighi di segnalazione degli indizi di crisi posti a carico di alcuni soggetti qualificati, sia gli obblighi organizzativi posti dal codice civile a carico dell’imprenditore. Come indica anche la Relazione al Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, tale nozione allargata di procedura d’allerta si giustifica “in quanto entrambi concorrono al perseguimento dell’obiettivo di una precoce rilevazione della crisi dell’impresa, in vista della tempestiva adozione delle misure idonee a superarla o regolarla”.
L’ambito applicativo delle procedure d’allerta è delineato dall’art. 12 del Codice, il quale prevede che “Gli strumenti di allerta si applicano ai debitori che svolgono attività imprenditoriale, esclusi le grandi imprese, i gruppi di imprese di rilevante dimensione e le società con azioni quotate in mercati regolamentati, o diffuse fra il pubblico in misura rilevante” e “Gli strumenti di allerta si applicano anche alle imprese agricole e alle imprese minori, compatibilmente con la loro struttura organizzativa”. Quest’ultima previsione, che a prima lettura parrebbe eccentrica, in quanto ricomprende tra i soggetti a cui si applicano le procedure d’allerta anche soggetti che sfuggono all’applicabilità del fallimento o di altre procedure concorsuali, si pone però in linea con l’articolo 3, paragrafo 3, della Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 novembre 2016, riguardante i quadri di ristrutturazione preventiva.
Il testo della legge delega prevedeva l’esenzione dall’applicazione delle procedure di allerta solo per taluni tra i soggetti sottoposti ad una vigilanza più stringente (si pensi alle banche e alle società quotate su mercati regolamentati). L’art. 12, accogliendo un rilievo critico mosso dagli interpreti, ha dunque esteso tale esenzione anche agli soggetti sottoposti ad una vigilanza analoga. In mancanza di un intervento (adeguatore) di questo tipo vi sarebbe stata un’ingiustificata disparità di trattamento.
Quanto ai profili più problematici che interessano le procedure d’allerta, va anzitutto segnalato che, in Italia, tali procedure si scontrano con la conformazione del tessuto economico, caratterizzata da realtà imprenditoriali medio-piccole, in cui spesso i soci coincidono con il management dell’impresa, o in cui comunque la compagine sociale esercita una forte influenza sulle scelte manageriali. In tale contesto, le avvisaglie precedenti alla crisi sono spesso sottovalutate e l’emersione della crisi è, così, rallentata a causa dalla mancanza di oggettività nell’analisi della situazione.
Accanto ai problemi strutturali di cui sopra, si pongono anche questioni interpretative dirimenti: tra tutte, non è per nulla chiaro cosa si debba intendere per pre-crisi e quale sia il rapporto tra la pre-crisi e l’insolvenza. Non pare sufficiente a risolvere il dubbio interpretativo la definizione di crisi – contenuta nell’art. 2, comma 1, lett. a) del Codice – che consisterebbe in quello “stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. Il “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, peraltro, accoglie un sistema basato su i cd. “indicatori dello stato di crisi”; tali indicatori che non sono fissati dallo stesso Codice bensì dovranno essere elaborati e aggiornati periodicamente dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Un meccanismo di questo genere introduce quindi una nozione di pre-crisi affidata a fonti esterne rispetto al Codice, mediante un rinvio mobile. Sarà, dunque, necessario attendere la determinazione di tali indicatori, da parte del CNDCEC, per comprendere quali siano le nozioni di crisi e pre-crisi che effettivamente si intendano adottare.
Peraltro, nella legge delega emergeva un’ulteriore ambiguità che in parte è stata chiarita. Non era, infatti, chiaro quale fosse l’orizzonte temporale entro il quale dover effettuare una valutazione sul possibile deterioramento della situazione (che avrebbe potuto portare all’insolvenza). Si diceva che, qualora tale orizzonte temporale fosse stato fissato in un tempo molto lungo, di molti mesi o addirittura anni, sarebbe stato necessario ripensare completamente le categorie giuridiche applicabili, in quanto difficilmente si sarebbero potute impiegare le tradizionali nozioni di insolvenza e crisi (che rappresentano, invece, nozioni applicabili ad un’impresa particolarmente deteriorata, con un orizzonte temporale piuttosto breve).
La soluzione adottata dal legislatore delegato pare invece porre problemi del tutto opposti. Infatti, l’art. 13 del nuovo Codice afferma che “Costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportati alle specifiche caratteristiche dell’impresa e dell’attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di costituzione e di inizio dell’attività, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i sei mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale per l’esercizio in corso o, quando la durata residua dell’esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi. Sono indicatori significativi, a questi fini, il rapporto tra flusso di cassa e attivo, tra patrimonio netto e passivo, tra oneri finanziari e ricavi”. Essendo così breve l’orizzonte temporale di valutazione degli indicatori della crisi, gli indizi di peggioramento della situazione economico-finanziaria dell’impresa dovranno, quindi, evidenziare uno stato di salute dell’impresa non molto dissimile da una vera e propria insolvenza o crisi d’impresa (con conseguente rischio di sovrapposizione dell’ambito applicativo delle procedure d’allerta con quello delle procedure concorsuali).
Le procedure di allerta interna ed esterna
La procedura di allerta esterna è disciplinata dall’art. 15 del nuovo Codice e si caratterizza in quanto dovrà essere instaurata da soggetti pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate, enti previdenziali e agenzia della riscossione) qualora si verifichi il perdurare di inadempimenti di importo rilevante. La determinazione delle soglie di rilevanza, fissata in base ai criteri indicati al comma 2 di tale articolo, è comunque differenziata in base agli indici dimensionali dell’impresa debitrice. Come già previsto dall’art. 4 della legge delega, i soggetti pubblici qualificati dovranno effettuare, in una prima fase, la segnalazione dell’irregolarità agli organi societari. Con tale comunicazione i creditori pubblici qualificati avvertiranno il debitore che, se entro i successivi novanta giorni non avrà provveduto ad estinguere il proprio debito, a regolarizzarlo, a presentare istanza di composizione assistita della crisi o a proporre domanda di accesso ad una procedura concorsuale, verrà effettuata una segnalazione all’organismo di composizione assistita della crisi di impresa. Gli organi gestori della società avranno comunque la possibilità di fornire giustificazioni per ciascuna anomalia segnalata e, solo qualora tali risposte non siano considerate soddisfacenti da parte del segnalante, la segnalazione sarà inoltrata all’organo di composizione della crisi.
Ad ogni modo, si segnala che gli obblighi di segnalazione posti a carico di soggetti qualificati trovano applicazione solamente nei confronti di debitori in bonis: tali obblighi di segnalazione cessano, infatti, in pendenza di procedure concorsuali, la cui apertura determina altresì la chiusura del procedimento di allerta e composizione assistita della crisi.
Quanto alle conseguenze gravanti sui soggetti pubblici qualificati che non ottemperino all’obbligo di segnalazione, la sanzione consiste, per l’Agenzia delle entrate e l’Istituto nazionale della previdenza sociale, nell’inefficacia del titolo di prelazione spettante ai crediti dei quali essi sono titolari. Per l’agente della riscossione delle imposte, la sanzione è invece quella dell’inopponibilità alla massa del proprio credito per spese ed oneri di riscossione. Tale differenziazione – che non era prevista nella legge delega – si è resa necessaria in considerazione del fatto che sarebbe stato iniquo penalizzare l’ente impositore, degradando il credito al rango chirografario, per omissioni che sarebbero invece imputabili all’agente incaricato della riscossione
La procedura di allerta interna, disciplinata dall’art. 14 del nuovo codice, prevede, invece, che “gli organi di controllo societari, il revisore contabile e la società di revisione, ciascuno nell’ambito delle proprie funzioni, hanno l’obbligo di verificare che l’organo amministrativo valuti costantemente, assumendo le conseguenti idonee iniziative, se l’assetto organizzativo dell’impresa è adeguato, se sussiste l’equilibrio economico finanziario e quale è il prevedibile andamento della gestione, nonché di segnalare immediatamente allo stesso organo amministrativo l’esistenza di fondati indizi della crisi. La segnalazione deve essere motivata […] e deve contenere la fissazione di un congruo termine, non superiore a trenta giorni, entro il quale l’organo amministrativo deve riferire in ordine alle soluzioni individuate e alle iniziative intraprese. In caso di omessa o inadeguata risposta, ovvero di mancata adozione nei successivi sessanta giorni delle misure ritenute necessarie per superare lo stato di crisi, i soggetti di cui al comma 1 informano senza indugio l’OCRI, fornendo ogni elemento utile per le relative determinazioni, anche in deroga al disposto dell’articolo 2407, primo comma, del codice civile quanto all’obbligo di segretezza.”
Come detto, il sistema delle procedure di allerta attribuisce centralità alla nozione degli indicatori di crisi. Tali indicatori, devono essere elaborati, almeno triennalmente, dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili, in riferimento ad ogni tipologia di attività economica. L’ordinamento comunque prevede, come valvola di sicurezza del sistema, la possibilità di tenere conto delle specificità delle singole imprese (che potrebbero rendere gli indici elaborati in via generale concretamente inidonei a evidenziare la possibile situazione di crisi) dichiarando, nella nota integrativa al bilancio di esercizio, le ragioni per le quali sarebbero inadeguati gli indici elaborati dal CNDCEC. In tal caso, un professionista indipendente dovrà attestare che i diversi indici della crisi che siano ritenuti rispondenti alle specificità dell’impresa (e indicati nella nota integrativa) siano effettivamente adeguati in rapporto alla specificità dell’impresa. Solamente a seguito di tale attestazione, l’impresa, a partire dal successivo esercizio, potrà essere “valutata” sulla base di questi diversi indici.
A dimostrazione della trasversalità dell’approccio forward looking e alla necessità di comunicazione anche tra i diversi soggetti che entrano in contratto con l’impresa, l’art. 14, comma 4 del nuovo Codice impone agli istituti di credito e agli altri intermediari finanziari ex art. 106 TUB di dare notizia anche agli organi di controllo societari, se esistenti, delle variazioni, revisioni e revoche degli affidamenti che siano state comunicate al cliente. Tale meccanismo è perciò volto a consentire di superare eventuali carenze nella comunicazione interna tra gli organi societari e comunque consente di perseguire la massima tempestività nell’eventuale attivazione del meccanismo di allerta interna.
Questioni aperte e possibili sviluppi
Nonostante il legislatore delegato abbia recepito il modello delle procedure d’allerta, prendendo perciò posizione nel vivace dibattito aperto tra gli interpreti, restano da chiarire molti interrogativi – a cui auspicabilmente potrà darsi risposta a seguito della concreta applicazione di tali procedure – tra cui, tra l’altro, (i) se sia concretamente possibile importare il modello francese delle procedure d’allerta, pur mancando in Italia un organo similare al Tribunale di Commercio, e se la scelta di attribuire la competenza agli organismi di composizione della crisi, incardinati presso le Camere di Commercio sia una scelta vincente; (ii) se sia opportuno dare pubblicità dell’esito della procedura di allerta o se piuttosto sia più utile preservarne fino in fondo la caratteristica di riservatezza; (iii) quale sia il carico di lavoro effettivamente attribuito agli organi di controllo dell’impresa e se questo sia compatibile con le altre loro funzioni.
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