Jobs Act e licenziamenti collettivi: l’esame della Corte Costituzionale

Dopo (molto) tempo e grazie alla pronuncia della Corte Costituzionale (n. 7) del 22 gennaio 2024, il Jobs Act torna al centro del dibattito.
Con la sentenza in commento, la Corte Costituzionale ha ritenuto “non fondate” le questioni di legittimità (costituzionale) degli artt. 3 (primo comma) e 10 del d. lgs. n. 23/2015 sollevate dalla Corte d’Appello di Napoli.
Come noto, il d. lgs. n. 23 del 4 marzo 2015, in attuazione della legge di delega n. 183/2014 (cosiddetto Jobs Act), ha introdotto il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio.
Già in passato il Jobs Act è stato posto, per vari motivi, sotto il riflettore della Consulta (si ricordano le sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022).
Questa volta, al centro del dibattito, ci sono i licenziamenti collettivi e la relativa tutela applicabile nel caso di licenziamento illegittimo e, volendo anticipare le conclusioni cui è pervenuta la Corte Costituzionale nella sentenza in commento, “vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, censurati sotto diversi profili e con riferimento agli indicati parametri, nella parte in cui hanno modificato la disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, fissando, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, la tutela economica in misura di un indennizzo determinato entro un limite massimo fissato per legge ed escludendo quella reintegratoria”.

a cura degli Avv.ti Fabrizio Morelli (partner responsabile del dipartimento di diritto del lavoro) e Davide Maria Testa c/o DLA Piper – esperti in diritto del lavoro, relazioni industriali e riorganizzazioni aziendali.

Corte costituzionale- sent. n. 7 del 22-01-2024

I fatti

La questione di legittimità costituzionale, come detto, è stata sollevata dalla Corte d’Appello di Napoli (in funzione di giudice del lavoro) nel corso di un “giudizio di impugnazione di un licenziamento, intimato in data 1° luglio 2016, ad una lavoratrice assunta in data 1° maggio 2016, a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo per «riduzione del personale» avviata ai sensi degli artt. 4 e 24, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), censurato per violazione della procedura e per la non corretta applicazione dei criteri di scelta”.
Nel merito, “il giudice a quo”, nel rimettere la questione alla Consulta, ha evidenziato di aver (già) “dichiarato con sentenza parziale l’illegittimità dell’impugnato licenziamento per violazione dei criteri di scelta” e, al contempo, di aver disposto la prosecuzione del giudizio ai soli fini dell’individuazione delle conseguenze sanzionatorie.
In punto di rilevanza, la Corte d’Appello ha osservato che “ad un licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, intimato nel 2016 nei confronti di una lavoratrice assunta dopo il 7 marzo 2015, trova applicazione il regime sanzionatorio previsto dall’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, richiamato dall’art. 10 del medesimo decreto, nella versione antecedente la novella di cui al decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 (Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese), convertito, con modificazioni, nella legge 9 agosto 2018, n. 96, ai sensi del quale il giudice dichiara l’estinzione del rapporto e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale «in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità»”.
Dunque, con ordinanza del 16 aprile 2023, la Corte d’appello di Napoli ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, in riferimento agli artt. 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 111, 76 e 117, primo comma, Cost., questi ultimi due in relazione all’art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014 e all’art. 24 CSE.
Di seguito, i tre profili analizzati dai Giudici rimettenti:

  • Con riferimento agli 3, 10, 35, 76 e 117, primo comma, Cost., la Corte d’Appello di Napoli ha dedotto che “l’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, unitariamente considerato, e in combinato disposto con l’art. 3, comma 1, dello stesso decreto, nella parte in cui ha modificato la disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, violerebbe la legge delega sotto due profili, uno interno e uno sovranazionale”:
  1. profilo interno (nazionale): a parer dei Giudici rimettenti l’art. 1, comma 7, lettera c), della legge (delega) n. 183 del 2014, “demandando al Governo l’adozione di una disciplina che escludesse la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro solo «per i licenziamenti economici», termine riferibile alle sole forme di recesso individuale per motivo oggettivo, non consentiva di ricomprendere nella potestà normativa delegata anche la rimodulazione della disciplina sanzionatoria del licenziamento collettivo”;
  2. profilo sovranazionale: a parer dei Giudici rimettenti, l’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 avrebbe richiesto un esercizio della delega coerente con le convenzioni internazionali ma “la disciplina censurata si è posta in contrasto con l’art. 24 CSE prevedendo come sanzione un indennizzo, forfettizzato ex ante in un plafond rigido, che non consente una personalizzazione del danno subito a causa della perdita del posto di lavoro (contrasto già ritenuto dal Comitato europeo dei diritti sociali nella decisione dell’11 settembre 2019, pubblicata l’11 febbraio 2020)”.
  • Con riferimento agli 3, 4, 24, 35 e 111 Cost., la Corte d’Appello di Napoli ha rilevato che l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, in combinato disposto con l’art. 10 dello stesso decreto, nella parte in cui, per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, introduce una disciplina sanzionatoria diversa per i soli lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, “disporrebbe, irragionevolmente, per una identica violazione, avvenuta contestualmente nella medesima procedura e per rapporti di lavoro omogenei, una sanzione priva di efficacia deterrente e inidonea ad assicurare un ristoro personalizzato ed effettivo del danno subito a seguito della illegittima perdita del posto di lavoro”.

Con riferimento agli 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 e 117, primo comma, Cost., la Corte d’Appello di Napoli ha prospettato l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, unitariamente considerato, e in combinato disposto con l’art. 3, comma 1, dello stesso decreto, “nella parte in cui, in riferimento alla violazione dei criteri di scelta del lavoratore in esubero in una procedura di licenziamento collettivo, deroga ad una sanzione efficace e adeguata introducendo, in forma irragionevole, in presenza di una violazione di parametri selettivi oggettivi e solidaristici, un sistema forfettizzato di danno inefficace. Ciò determina un affievolimento del ristoro del pregiudizio causato e non consente una idonea responsabilizzazione del soggetto inadempiente attraverso una personalizzazione del danno cagionato”.

La Corte Costituzionale

Preliminarmente, la Corte Costituzionale ha chiarito che “l’ordinanza di rimessione ha sufficientemente motivato i dubbi di legittimità costituzionale con argomentazioni che hanno una complessiva coerenza e unitarietà”.
Quanto sopra per dire che tutte le questioni di legittimità costituzionale ad oggetto sono focalizzate sul regime sanzionatorio del licenziamento collettivo illegittimo per violazione dei criteri di scelta, intimato a lavoratori assunti dopo la data di entrata in vigore del d.lgs. n. 23 del 2015 (7 marzo 2015) “che ha soppresso la reintegrazione come conseguenza dell’illegittimità di tale fattispecie di licenziamento”.
La Consulta ha rilevato, infatti, che l’eliminazione della tutela reintegratoria (la quale permane ancora per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 anche se destinatari del medesimo licenziamento collettivo illegittimo) e la limitazione delle conseguenze del licenziamento illegittimo alla sola tutela indennitaria, “costituiscono il tratto comune delle censure mosse dalla Corte d’appello, dirette tutte a reintrodurre la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato anche nella fattispecie oggetto del giudizio principale”.
Avendo fotografato ciò, ai fini della propria analisi, i Giudici Costituzionali hanno brevemente anteposto una panoramica del quadro normativo di riferimento, e senza entrare nel particolare dettaglio della disciplina, hanno ripercorso alcuni passaggi della “storia” del Jobs Act. Se ne riportano qui di seguito i tratti salienti:

  • il d.lgs. n. 23 del 2015 interviene anche sulla disciplina del licenziamento collettivo, sempre limitatamente ai lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti, e sopprime la tutela reintegratoria prevedendo solo quella indennitaria anche nel caso di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, legali o previsti da accordo sindacale, salvo comunque conservarla in caso di licenziamento intimato senza l’osservanza della forma scritta”;
  • il successivo d. l. n. 87 del 2018, come convertito, si limita, quanto alla disciplina dei licenziamenti individuali, ad incrementare la misura dell’indennizzo (art. 3), con l’effetto di confermare, per il resto, il meccanismo delle cosiddette tutele crescenti in progressione lineare (e certa) con l’anzianità di servizio in caso di licenziamento illegittimo. Nulla dispone quanto ai licenziamenti collettivi”;
  • il rapporto tra la tutela reintegratoria e quella solo indennitaria nel nuovo regime del d.lgs. n. 23 del 2015 risulta infine modificato a seguito delle pronunce di questa Corte, successive a quest’ultimo intervento del legislatore” (sentenze n. 59 del 2021 e n. 125 del 2022).

Interessante, a questo punto, osservare il mutamento che ha subìto la tutela indennitaria, dalle prime formulazione nei testi originari di legge sino alla versione attuale condizionata dagli interventi della Corte Costituzionale. Infatti:

  • con la sentenza costituzionale n. 59/2021, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 – sia nel testo originario, sia in quello modificato dall’art. 3, comma 1, del D.L. n. 87/2018 limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
  • con la sentenza costituzionale n. 125/2022, è stata dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 23/2015, limitatamente alle parole “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.

Ne è derivato un ampliamento complessivo della tutela indennitaria ove, nella misura attuale, l’indennizzo è fissato in un range tra un minimo e un massimo e, a differenza del passato, non è più quantificato in modo rigido e unicamente sulla base della progressione dell’anzianità di servizio.
Ed in effetti, se s’immagina una “linea del tempo”, si è passati da un ampio ed uniforme quale quello della reintegra, ad un regime “differenziato secondo la “gravità”, in senso lato, della violazione che inficia la legittimità del licenziamento (intimato dopo il 18 luglio 2012) e, per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015, ulteriormente differenziato con un maggiore restringimento dell’area della tutela reale e ampliamento di quella indennitaria, quest’ultima poi rinforzata in termini quantitativi dal d.l. n. 87 del 2018, come convertito (e quindi a partire dal 12 agosto 2018)”.
Dopo aver proposto una panoramica d’ordine generale sull’evoluzione del Jobs Act, i Giudici costituzionali si sono addentrati nell’analisi, al fine di dirimerle, delle questioni di legittimità sollevate dalla Corte d’Appello napoletana.

La questione – sollevata in riferimento all’art. 76 Cost. – non è fondata

I Giudici Costituzionali hanno esaminato in primis le questioni di legittimità costituzionale legate alla violazione della legge delega (art. 1, comma 7, lettera c), L. n. 183/2014), ove quest’ultima aveva previsto l’eliminazione della tutela reintegratoria (e previsione della sola tutela indennitaria) unicamente per i «licenziamenti economici», “intendendo per tali – secondo la Corte rimettente – quelli individuali «economici» (ossia per giustificato motivo oggettivo) e non anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale”.

In merito,

  • muovendo dal criterio di delega (art. 1, comma 7, lettera c), della legge n. 183 del 2014): «previsione, per le nuove assunzioni, del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento»; e
  • proseguendo con un’approfondita e (davvero) complessa analisi dei lavori parlamentari che hanno portato all’approvazione della citata legge delega (districandosi tra i disegni di legge, gli emendamenti e le relazioni parlamentari nonché richiamando gli atti specifici delle Commissioni Lavoro presso Camera e Senato),

la Corte Costituzionale ha ritenuto che il riferimento ai “licenziamenti economici” contenuto nella legge di delega, riguardasse sia i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi.
Nel motivare tale convincimento, i Giudici Cost. hanno evidenziato la necessarietà di considerare che l’interpretazione dei criteri direttivi posti dalla legge delega del 2014 deve muovere, anzitutto, della “lettera del testo normativo”. A tale lettura (del senso) letterale dovrà poi affiancarsi l’interpretazione c.d. “sistematica” sulla base della ratio legis, ricavabile dal contesto complessivo della legge delega e dalle finalità ivi perseguite.
A tale proposito, deve ritenersi davvero molto interessante il passaggio motivazionale della sentenza ove i Giudici si focalizzano sulle regole interpretative cui ispirarsi per ottenere un valido risultato ermeneutico, fornendo, contestualmente, una sorta di “metodo” di lettura normativa conforme sia al dato letterale sia alla ratio legis.
Tale “metodo”, orientato alla verifica di conformità della norma delegata rispetto a quella delegante, consisterebbe nello “svolgimento di un duplice processo ermeneutico che, condotto in parallelo, tocca, da una parte, la legge di delegazione e, dall’altra, le disposizioni emanate dal legislatore delegato, da interpretare nel significato compatibile con la delega stessa. In sintesi, per definire il contenuto di questa, si deve tenere conto del complessivo contesto normativo in cui si inseriscono i principi e criteri direttivi della legge di delega e delle finalità che la ispirano; ciò che rappresenta non solo la base e il limite delle norme delegate, ma offre anche criteri di interpretazione della loro portata”.
Sulla scorta di ciò, i Giudici Costituzionali hanno affermato che “l’estensione della soppressione della tutela reintegratoria anche ai licenziamenti collettivi – «economici» perché per “ragioni d’impresa” – oltre che a quelli individuali – «economici» perché per giustificato motivo oggettivo – può farsi rientrare nel più volte richiamato criterio di delega, che faceva riferimento ai «licenziamenti economici”.

La questione – sollevata in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost. – non è fondata

Con riferimento a tale specifica questione, il presupposto interpretativo delle censure mosse dai Giudici a quo risulta corretto.
Infatti, nel vigente regime sanzionatorio, la tutela applicabile nei confronti di rapporti di lavoro risolti in violazione dei criteri di scelta a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo è diversa a seconda della data assunzione: per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 sarà applicabile la tutela reintegratoria attenuata, mentre per i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 spetterà la tutela indennitaria.
Rammentiamo che, a parer del Giudice a quo, tale differenziazione debba considerarsi irragionevole se, come nel caso rimesso all’attenzione della Corte Costituzionale, l’illegittimità del licenziamento derivi per tutti i lavoratori da una “identica violazione, avvenuta contestualmente nella medesima procedura.
In termini generali, secondo la giurisprudenza della Consulta se “il principio di eguaglianza esprime un giudizio di relazione in virtù del quale a situazioni eguali deve corrispondere l’identica disciplina e, all’inverso, discipline differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, ciò equivale a postulare che la disamina della conformità di una norma a quel principio deve svilupparsi secondo un modello dinamico, incentrandosi sul “perché” una determinata disciplina operi, all’interno del tessuto egualitario dell’ordinamento, quella specifica distinzione, e quindi trarne le debite conclusioni in punto di corretto uso del potere normativo”.
C’è da dire altresì che, proprio sulla ragionevolezza del criterio di applicazione temporale del regime introdotto dal d.lgs. n. 23/ 2015 ai soli lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, la Corte Costituzionale si è già pronunciata (con riferimento ai licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo) con sentenza n. 194 del 2018 (ove ha ritenuto non fondata l’analoga censura di violazione dell’art. 3 Cost).
A parer della Consulta, “il diverso trattamento sanzionatorio modulato dal d.lgs. n. 23 del 2015 per i licenziamenti individuali non viola il principio di uguaglianza, trovando il regime temporale un motivo non irragionevole nella finalità perseguita dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014)” e “risponde al canone di ragionevolezza modulare le conseguenze del licenziamento illegittimo dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato al fine di rafforzare le opportunità d’ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, sicché «appare coerente limitare l’applicazione delle stesse tutele ai soli lavoratori assunti a decorrere dalla loro entrata in vigore, quelli, cioè, la cui assunzione avrebbe potuto essere da esse favorita» (sentenza n. 194 del 2018)”.
Tale conclusione è assolutamente condivisibile, a parer dei Giudici Costituzionali, anche con riferimento ai licenziamenti collettivi, sussistendo la stessa logica di gradualità dell’applicazione della nuova normativa.
Invero, sia per i licenziamenti collettivi che per quelli individuali, “la ragionevolezza di una disciplina differenziata va individuata nello scopo dichiarato nella legge delega di favorire l’ingresso nel mondo del lavoro di “nuovi” assunti, accentuandone la flessibilità in uscita con il riconoscimento di una tutela indennitaria predeterminata, risultando indifferente rispetto a tale fine che il recesso sia individuale o collettivo”.

La questione – sollevata con riferimento a plurimi parametri (artt. 3, 4, 35, 38, 41 e 117 Cost.), convergenti però in una censura unitaria di insufficienza di una tutela meramente indennitaria e senza reintegrazione – non è fondata

La Corte d’Appello di Napoli ha sollevato dubbi circa l’adeguatezza di una tutela indennitaria determinata con la previsione di un “tetto” massimo, lamentandone l’inefficacia, o una debole efficacia, dissuasiva.
La Consulta ha preliminarmente evidenziato che, nel corso del tempo, la Corte medesima “ha negato che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., tra diritto al lavoro e libertà d’impresa, imponga un determinato regime di tutela (sentenza n. 46 del 2000), ammettendo che il legislatore ben può, nell’esercizio della sua discrezionalità, prevedere un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario purché esso sia rispettoso del principio di ragionevolezza”.
Di recente, proprio con riferimento al d.lgs. n. 23 del 2015, la Consulta “ha ritenuto compatibile con la Carta fondamentale una tutela meramente monetaria, purché improntata ai canoni di effettività e di adeguatezza, rilevando che il bilanciamento dei valori sottesi agli artt. 4 e 41 Cost., «terreno su cui non può non esercitarsi la discrezionalità del legislatore», non impone «un determinato regime di tutela» (sentenza n. 194 del 2018)”. In tale occasione, si rammenta ricorda come sia stato più volte affermato che “la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale purché sia garantita l’adeguatezza del risarcimento”.
In sintesi, la tutela, “ancorché non necessariamente riparatoria dell’intero pregiudizio subito dal danneggiato, deve essere comunque equilibrata”.
Dalle stesse pronunce emerge, altresì, che:

  • l’adeguatezza del rimedio forfetizzato richiede che esso sia tale da realizzare un ragionevole contemperamento degli interessi in conflitto; e
  • la ragionevolezza dev’essere declinata come necessaria adeguatezza dei rimedi “nel contesto di un equilibrato componimento dei diversi interessi in gioco e della specialità dell’apparato di tutele previsto dal diritto del lavoro. Il legislatore, pur potendo adattare secondo una pluralità di criteri, anche in considerazione delle diverse fasi storiche, i rimedi contro i licenziamenti illegittimi, è chiamato a salvaguardarne la complessiva adeguatezza, che consenta di attribuire il doveroso rilievo al fatto, in sé sempre traumatico, dell’espulsione del lavoratore”.

Peraltro, la fissazione di un limite massimo dell’indennizzo risponde, del resto, alla ragione di fondo della legge delega di incentivare le nuove assunzioni con la previsione di conseguenze sanzionatorie certe e prevedibili in caso di licenziamento illegittimo.
La personalizzazione del ristoro resta in ogni caso garantita entro l’intervallo in cui va quantificata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, e comunque l’indennità, pur assorbendo tendenzialmente qualunque voce di danno, patrimoniale e non patrimoniale, non preclude alla giurisprudenza di identificare ipotesi di danno ulteriore risarcibile, come nel caso di danni derivanti dal licenziamento ingiurioso.

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