Il dictatum oggetto della presente trattazione trae origine da una recente pronuncia della Cassazione Civile, III Sezione, n. 14732 del 07.06.2018[1], in materia di azione di arricchimento senza giusta causa.
Al fine di correttamente comprendere il principio di cui sopra occorrerà, seppur concisamente, ripercorrere i tratti salienti di quanto accaduto.
Il caso in esame
Nel 2003, Tizia conveniva in giudizio l’ex partner, Caio, dichiarando di aver convissuto con questi a partire dalla data del 1997 dando vita ad una famiglia di fatto.
Tizia rappresentava come la suddetta relazione fosse iniziata fin dal lontano 1987 e che, solo a partire dalla data del 1997, i due avessero instaurato una convivenza di fatto fino al 2001.
Secondo la ricostruzione effettuata dalla donna, entrambi, ancor prima dell’instaurazione della convivenza di fatto, avevano contribuito – ciascuno proporzionalmente ai propri risparmi – alla costruzione di una casa, edificata tra il 1995 ed il 1997, su un terreno di esclusiva proprietà di Caio il quale, pertanto, ne era divenuto esclusivo proprietario.
Tizia precisava, altresì, di aver personalmente sopportato delle spese per l’acquisto dei materiali necessari per la costruzione del predetto immobile, nonché di aver partecipato fattivamente alla costruzione dello stesso.
Terminata, sfortunatamente, la relazione Caio tratteneva con sé tutti gli arredi della casa, acquistati sia congiuntamente che separatamente durante il periodo di convivenza, i risparmi versati su un conto corrente comune ed un motoscooter.
L’attrice, quindi, chiedeva che si accertasse la cessazione della famiglia di fatto esistente fino alla data del 2001, la consistenza del patrimonio comune a quella data, conseguentemente agli apporti di denaro frutto dei rispettivi lavori, che i due versavano sul conto corrente cointestato.
Pertanto, oggetto della pretesa da parte della stessa era la richiesta che venisse disposta la divisione del patrimonio in parti uguali con la conseguente attribuzione, in proprio favore, del controvalore in denaro.
In subordine la donna chiedeva, altresì, che venisse accertato l’ingiustificato arricchimento dell’ex partner, ex art. 2041 c.c., e la sua relativa condanna alla restituzione degli importi ricevuti.
Si costituiva in giudizio Caio il quale, sostenendo di essere divenuto proprietario della casa – peraltro eretta su un terreno di sua proprietà – , affermava che le contribuzioni apportate dalla signora al ménage familiare fossero a titolo gratuito e, quindi, irripetibili in quanto prestate in adempimento di un dovere morale.
La domanda attrice, con pronuncia del 2007 [2], veniva rigettata in primo grado e, pertanto, Tizia adiva la Corte di Appello di Venezia che, nel 2015, riformava la sentenza impugnata.
La Corte, nello specifico, escludeva la sussistenza di una obbligazione naturale e, di conseguenza, l’irripetibilità delle prestazioni, dal momento che esse erano andate a totale vantaggio di uno dei due partner in mancanza di un rapporto che la giustificasse.
Difatti, i due all’epoca dei fatti non erano né sposati e né conviventi.
Ciò nonostante, veniva riconosciuta alla donna una somma equitativamente determinata per il lavoro prestato nella costruzione della casa ed accolta, altresì, la domanda di divisione dei beni residui al momento della cessazione della convivenza.
Depositata la sentenza di secondo grado l’uomo, che in itinere si era sposato con un’altra donna, Mevia, decedeva senza lasciare testamento.
Mevia accettava l’eredità con beneficio di inventario e proponeva ricorso in Cassazione nei confronti dell’ex convivente del marito che resisteva con controricorso.
I motivi di ricorso
Con il primo motivo di ricorso la ricorrente sosteneva che il Giudice di secondo grado fosse incorso in errore poiché aveva condannato l’uomo – ex art. 2041 c.c. – ad indennizzare l’ex partner del valore dei materiali e del prezzo della manodopera impiegati nella costruzione della casa mentre, considerato il carattere residuale dell’azione di ingiustificato arricchimento, la domanda della parte andava formulata ai sensi e per gli effetti dell’art. 936 c.c.
Tale norma, tuttavia, disciplinando il caso in cui un terzo, che non sia neppure autorizzato o legittimato, realizzi un’opera su un fondo altrui, veniva ritenuta dalla Corte non confacente alla fattispecie de qua.
Con il secondo motivo Mevia si doleva in ordine alla mancata considerazione, da parte della Corte d’Appello di Venezia, della volontarietà della prestazione la quale avrebbe dovuto escludere l’ingiustificato arricchimento.
Gli ultimi due motivi di gravame inerivano l’accoglimento della domanda di restituzione del 50% delle somme esistenti sul conto corrente comune.
Sosteneva, infatti, la ricorrente che la maggiore somma di denaro versata dal marito sul conto corrente cointestato trovasse giustificazione nel maggiore guadagno, all’epoca dei fatti, dallo stesso percepito.
L’uomo, infatti, guadagnando di più, contribuiva economicamente nella misura del 60% mentre la donna nella misura del 40%, ragion per cui, a suo dire, nel rispetto di queste proporzioni, tra i due doveva essere eventualmente diviso il residuo.
Tale circostanza giustificava la corretta ripartizione del residuo tra i due.
I Giudici della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione rigettavano tutti i motivi di ricorsi e ponevano a carico della ricorrente le spese di giudizio sostenute dalla stessa.
La Corte ha, infatti, riconosciuto il diritto all’ex partner di ottenere il rimborso di tempo e denaro impegnati per costruire la casa comune, anche se di esclusiva proprietà del compagno.
La decisione della Corte
L’arricchimento senza giusta causa è disciplinato dall’art. 2041 c.c. a mente del quale “Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, ad indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”
La ratio di fondo contenuta in tale previsione normativa è riassunta nel brocardo latino nemo locupletari potest cum aliena iactura secondo il quale non si può consentire che una persona ricavi un vantaggio dal danno arrecato ad altri senza che vi sia una causa che giustifichi lo spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro.
Presupposti per il corretto esercizio dell’azione di cui sopra sono, da un lato l’arricchimento senza causa di un soggetto e la conseguente diminuzione patrimoniale di un altro soggetto (causalmente connessa) e, dall’altro, l’assenza di una causa giustificativa dell’arricchimento dell’uno e della perdita dell’altro [3].
L’ingiustificato arricchimento impone, a carico dell’arricchito, o un obbligo di restituzione in natura, qualora l’arricchimento abbia ad oggetto una cosa determinata (si veda art. 2041 co.2. c.c.), ovvero un obbligo di indennizzare la controparte in ordine alla relativa deminutio patrimonii patita.
Peraltro, è opportuno tenere a mente che tale forma di indennizzo incontra un doppio limite, che discende dalla stessa funzione di riequilibrio tra i due patrimoni che gli è propria: infatti, non può superare né l’entità dell’arricchimento né quella dell’impoverimento.
Nel caso che ci occupa, i principi correttamente applicabili risultano quelli espressi dalla Suprema Corte con sentenza n. 1130 del 2009 [4], che da un lato ricostruisce sinteticamente tutte le ipotesi in cui si possa legittimamente richiamare la mancanza di causa del conferimento, a fondamento dell’azione di arricchimento, dall’altro fa applicazione degli indicati principi in relazione ad un disciolto rapporto di convivenza more uxorio: “l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’obbligazione naturale.
È, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo che esulino dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalcanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza “.
All’interno dell’azione di indebito arricchimento, pertanto, la volontarietà del conferimento è idonea ad escludere il diritto alla ripetizione di quanto spontaneamente pagato.
Ciò in quanto essa è spontaneamente finalizzata ad avvantaggiare il soggetto in cui favore viene effettuato il conferimento.
Nel caso oggetto della presente trattazione, trattasi del conferimento di denaro e del proprio tempo libero, impegnato in ore di lavoro per la costruzione della casa che avrebbe dovuto essere la dimora comune, da parte di Tizia e, peraltro effettuato quando essa ancora non era convivente con Caio ma proprio in vista dell’instaurazione di una futura convivenza, nella quale entrambi avrebbero goduto in comune dell’immobile.
Secondo i Giudici della Terza Sezione, pertanto, il conferimento del denaro e del proprio tempo libero da parte di Tizia, impiegato – come detto – nella costruzione della casa adibita a dimora comune, pur essendo volontario da parte della donna, è pur sempre avvenuto non a favore esclusivo del partner per aiutarlo nella costruzione della sua casa, bensì in vista della costruzione di un futuro comune, cioè per la costruzione e la fruizione di un immobile nel quale entrambi avrebbero dovuto condividere il futuro.
Ebbene, data la proprietà esclusiva del terreno sul quale si trovava edificato il bene e, considerate le regole che disciplinano i modi di acquisto della proprietà, la casa entra sì a far parte della proprietà esclusiva dell’uomo, tuttavia quando cessa la convivenza ed il progetto di vita in comune tra i due, il convivente – che sfortunatamente non si è tutelato in alcun modo ed al quale non potrà essere riconosciuta la comproprietà del bene che ha contribuito a costruire con il suo apporto economico e lavorativo – avrà diritto a recuperare il denaro versato e ad essere indennizzato per le energie lavorative impiegate volontariamente per quella determinata finalità, in applicazione e nei limiti del principio dell’indebito arricchimento.
Riconducibilità dei conferimenti nell’alveo delle obbligazioni naturali
Ebbene, è consolidato orientamento giurisprudenziale quello secondo il quale, nell’ambito di una famiglia di fatto, “le reciproche dazioni di denaro o in lavoro che vanno a vantaggio del complessivo menage familiare trovino il loro fondamento in una obbligazione naturale, ovvero siano erogate nella convinzione, esistente in capo ai partners, di adempiere ad una obbligazione fondata su doveri morali o sociali, purché le stesse si mantengano nei limiti di proporzionalità e di adeguatezza parametrati alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti”.[5]
Tuttavia, nel caso di specie, ad avviso della Suprema Corte, dovrà, altresì, escludersi la possibilità che i conferimenti erogati dalla donna possano essere ricondotti nell’alveo delle obbligazioni naturali.
Ciò in quanto, all’epoca dei fatti, i due erano solo fidanzati e non conviventi, quindi non formavano ancora una famiglia di fatto che giustificasse, in capo alla donna, la sussistenza di una obbligazione naturale tale da determinare la non ripetibilità dei quei conferimenti.
Inoltre, si trattava di dazioni consistenti, che si collocavano oltre la soglia di proporzionalità e di adeguatezza rispetto ai mezzi di ciascun partners.
Per concludere, pertanto, sarà possibile configurare “l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo che esulino dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza”[6].
[1] De Jure, Milano, 2018.
[2] Tribunale di Venezia, n. 1787 del 2007.
[3] Torrente/Schlesinger., Manuale di diritto privato, Milano, 2015, pp. 837 e ss.
[4] Cass. Civ. Sez. III, n. 1130 del 15.05.2009.
[5] Cass. Civ. Sez. II, n. 1130 del 07/10/2009.
[6] Cass. Civ. Sez. III, n.14732 del 07.06.2018.