Il giudice può decidere discrezionalmente se ammettere le indagini patrimoniali e fiscali nei procedimenti di separazione e divorzio mediante l’ausilio della Polizia Tributaria.
Tuttavia, in caso di rigetto della relativa istanza, deve fornire adeguata motivazione in merito e non limitarsi ad una valutazione implicita di superfluità o verosimiglianza dei dati forniti dall’altro coniuge.
Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 4292 del 20 febbraio 2017.
Le indagini patrimoniali e fiscali della Polizia Tributaria
In tema di determinazione dell’assegno di mantenimento in sede di scioglimento degli effetti civili del matrimonio, l’art. 5, comma 9, della Legge 898/1970, prevede che il giudice possa disporre – d’ufficio o su istanza di parte – indagini patrimoniali e fiscali avvalendosi della Polizia Tributaria.
In particolare, le attività che possono essere richieste per verificare la corrispondenza tra quanto dichiarato nel corso della causa di separazione o divorzio e quanto risulta all’Amministrazione finanziaria sono:
- l’acquisizione e la comunicazione di informazioni in possesso della Guardia di Finanza o da questa reperibili, con l’accesso ai sistemi informativi dell’Anagrafe tributaria, delle Camere di Commercio, del Pubblico registro automobilistico, delle Conservatorie dei registri immobiliari;
- un’attività di valutazione da parte della Polizia tributaria che, agendo come consulente tecnico di ufficio, potrà effettuare una consulenza di natura contabile sui dati economici già raccolti.
I limiti all’integrazione probatoria d’ufficio: quando può essere disposta
La Suprema Corte ha innanzitutto ribadito che tale strumento costituisce una deroga alle regole generali sull’onere della prova.
L’esercizio di tale potere discrezionale non può sopperire alla carenza probatoria della parte onerata: è infatti previsto soltanto per concedere informazioni ad integrazione degli elementi istruttori già forniti, qualora essi siano incompleti o non completabili attraverso gli ordinari mezzi di prova.
Ne consegue che tale potere non può essere attivato a fini meramente esplorativi: al contrario, la relativa istanza e la contestazione di parte dei fatti che incidono sulla posizione reddituale del coniuge tenuto al mantenimento devono basarsi su fatti specifici e circostanziati.
Obblighi del giudice in materia di integrazione probatoria d’ufficio
Come rilevato dalla Cassazione, il giudice del merito, ove ritenga raggiunta la prova dell’insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento dell’assegno di divorzio, può procedere direttamente al rigetto della relativa istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la polizia tributaria.
L’esercizio del potere officioso di disporre indagini sui redditi e sui patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita rientra infatti nella sua discrezionalità.
Non trattandosi di un adempimento imposto dall’istanza di parte, può pertanto decidere di non ricorrervi se ritenga superflua l’iniziativa o comunque sufficienti i dati istruttori acquisiti.
Tuttavia, come precisato dalla Corte di legittimità, il mancato accoglimento della istanza di parte in tal senso deve trovare adeguata valutazione nella motivazione della sentenza.
Non può pertanto emergere implicitamente una valutazione di superfluità della iniziativa, con la mera contrapposizione ad una serie di dati di fatto delle valutazioni e giustificazioni sul punto fornite dalla parte stessa (che chiaramente hanno una portata limitata e non risolutiva).
Né può ritenersi sufficiente un giudizio probabilistico riguardo alla “verosimiglianza” della congiuntura economica rispetto alle affermazioni di parte in ordine al proprio reddito per ritenere implicitamente superata l’esigenza di un accertamento sui redditi.
Contrariamente a quanto statuito dalla Corte di merito, la limitata produzione delle dichiarazioni dei redditi da parte dell’ex coniuge costituiva dunque circostanza fondata per introdurre l’istanza di indagini tributarie sui redditi.