La nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento è disciplinata dall’art. 3 della legge n. 604 del 1966 che stabilisce che il giustificato motivo oggettivo di licenziamento ricorre quando sussistano «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».
Una nozione molto sintetica che ha spinto sia la dottrina che la giurisprudenza ad intervenire nel tentativo di riempire di contenuto questo precetto normativo. In particolare, dopo un’ intensa attività interpretativa, dottrina e giurisprudenza oggi concordano nel ricondurre il motivo oggettivo di licenziamento a due categorie di fattispecie: una categoria di fattispecie inerenti ad una scelta gestionale dell’imprenditore (tra cui, ad esempio, il trasferimento d’azienda, il fallimento dell’impresa e la cessazione totale o parziale dell’attività produttiva) e una categoria di fattispecie inerenti, invece, alla persona del lavoratore (tra cui, ad esempio, il superamento del periodo di comporto, l’inidoneità psico-fisica o il suo scarso rendimento).
Gli orientamenti della giurisprudenza sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento: l’orientamento restrittivo.
Naturalmente, queste fattispecie hanno posto diversi problemi interpretativi. Tuttavia, una questione che da sempre divide dottrina e giurisprudenza, concerne i presupposti di legittimità del recesso del datore di lavoro.
In giurisprudenza, in particolare, si sono consolidati due orientamenti, uno più restrittivo e uno più liberista [1], che hanno cercato di spiegare la nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento, individuandone i profili caratterizzanti.
L’orientamento più restrittivo si rinviene in diverse pronunce degli anni Ottanta della giurisprudenza di legittimità [2] e ha rappresentato, per diversi anni, la posizione maggioritaria sul tema in esame. Questo orientamento, in particolare, poggia su un assunto: il licenziamento è giustificato solo nel momento in cui il datore di lavoro realizzi una riorganizzazione aziendale finalizzata a far fronte a situazioni economiche sfavorevoli non contingenti oppure a spese di carattere straordinario [3].
Di conseguenza, in questo orientamento, la crisi aziendale assurge a presupposto fattuale di legittimità del recesso. Tuttavia, perché ciò accada, è necessario che tale crisi aziendale non sia di modesta consistenza ed emerga o dai bilanci aziendali, dove si dovrà accertare una profonda passività in cui versi l’impresa, oppure da altri indicatori economici (ad es. l’andamento calante delle commesse) e tale da comportare una effettiva ristrutturazione interna [4].
Sulla base di questa ricostruzione, dunque, il licenziamento viene considerato come l’extrema ratio: infatti, sarà giustificata la soppressione del posto del lavoratore solo nel momento in cui il licenziamento si configuri come l’unica soluzione percorribile dal datore di lavoro per contrastare le disfunzioni tecnico – produttive che l’impresa manifesti e che, diversamente, non potrebbero essere risolte [5].
Inoltre, questa posizione della giurisprudenza è stata notevolmente influenzata dalla posizione che ha assunto la dottrina negli anni Settanta, soprattutto all’indomani dell’introduzione della l. n. 300 del 1970 (c. d. Statuto dei Lavoratori) che prevedeva (e prevede ancora oggi per casi eccezionali) all’art. 18 la reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo. Indirizzo che aveva rafforzato l’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro e che aveva indotto una particolare lettura dell’art. 41 Cost. [6]: in base a queste considerazioni, infatti, l’utilità sociale doveva essere considerata come prevalente rispetto alla libertà di iniziativa economica e quindi come penetrante limite al potere di organizzazione imprenditoriale [7].
L’orientamento liberista
Queste conclusioni, tuttavia, vennero messe in discussione dall’altro orientamento, quello più liberista. Quest’ultimo, per lungo tempo minoritario, è stato poi recepito con la sentenza n. 25201 adottata dalla Cassazione il 7.12.2016 ed è diventato, oggi, l’orientamento prevalente in tema di motivo oggettivo di licenziamento.
Esso, in particolare, poggia su una tesi fondamentale: il licenziamento è legittimo, non soltanto quando sia motivato da una ragione economica, ma anche quando sia motivato da una ragione organizzativa; di conseguenza, il datore di lavoro può legittimamente realizzare una riorganizzazione aziendale finalizzata o al risparmio dei costi o anche all’incremento dei profitti: infatti, secondo la Suprema Corte, opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con l’art. 41 Cost., secondo cui l’apparato aziendale, una volta costituito divenga intangibile per il datore di lavoro [8]; in questo modo, infatti, si inibirebbe la sua libertà di iniziativa economica, garantita, appunto, dall’art. 41 Cost. [9]
Tuttavia, nonostante la sentenza in esame riconosca il requisito organizzativo come di per sé sufficiente ad integrare le “ragioni” di cui all’art. 3 della l. n. 604/1966, non ha enucleato criteri idonei in base ai quali il giudice possa accertarne la sua effettiva sussistenza: in assenza dei quali, il riassetto organizzativo rischia di appiattirsi sulla mera soppressione del posto, che invece dovrebbe costituire la conseguenza della ragione organizzativa. Per colmare questa lacuna, la dottrina ha provveduto a individuare parametri che possano risultare d’ausilio per il giudice nell’ambito del suo accertamento. Egli infatti dovrà accertare: la sopravvenuta inutilità della prestazione di lavoro; la riduzione della durata temporale dei processi di lavorazione; quando si tratti di strutture complesse, il miglioramento della qualità delle comunicazioni interne; la migliore qualità della prestazione di lavoro che sostituisce la precedente o la semplificazione e/o la velocizzazione dei processi decisionali o, ancora, la riduzione delle giornate uomo e quindi del numero degli addetti ad un determinato processo produttivo organizzato non più in forma apicale, ma in forma piatta [10].
Le posizioni della dottrina sulla nozione di giustificato motivo oggettivo di licenziamento
Entrambe le ricostruzioni, tuttavia, palesano contraddizioni e approdano a risultati insoddisfacenti: da un lato, la tesi “restrittiva” importerebbe la reintroduzione (surrettizia) di una nozione di interesse soggettivo datoriale distinto dall’interesse “oggettivo” dell’impresa; dall’altro, invece, la tesi “liberista” inibirebbe l’ambito di controllo giudiziale nei confronti dei licenziamenti economici [11].
Proprio per questo motivo, sono state prospettate in dottrina due tesi alternative, volte a comporre le antinomie palesate da questi due orientamenti: una prima tesi, «si propone di introdurre in giudizio un controllo di legittimità legato al superamento o meno di soglie parametrate alla nozione economica di costo – opportunità [12]». Il datore di lavoro potrebbe, dunque, legittimamente licenziare il lavoratore nel momento in cui ritenga che la prosecuzione del rapporto comporterebbe, inevitabilmente, una perdita per l’impresa.
Tuttavia, la tesi non è condivisibile per un motivo fondamentale: «[…] dall’adozione di tale lettura discende coerentemente la sottrazione dalle mani del giudice del potere di controllo sulla legittimità o meno del licenziamento per motivo oggettivo»; il giudice, infatti, sarebbe chiamato solo ad un «controllo sulla veridicità del motivo, sì da escludere che il recesso celi finalità discriminatorie, illecite o legate a caratteristiche soggettive del lavoratore [13]».
La seconda tesi, invece, appare molto fondata: si propone, infatti, di utilizzare, anche in ambito privato, e quindi anche nei rapporti di lavoro, un controllo di razionalità, già presente in ambito statale per valutare se alcuni diritti individuali siano stati o meno pregiudicati. In questo ambito, tale controllo si tradurrebbe secondo il triplice profilo della proporzionalità: proporzionalità come adeguatezza, come mezzo necessario, come ponderazione (il medesimo strumento sarebbe utilizzato anche dalla Corte Costituzionale italiana per preservare il contenuto minimo dei diritti fondamentali di fronte a interventi del legislatore che li minaccino). In base a tale ricostruzione, dunque, «si propone quindi l’adozione di un modello di controllo più intenso, finalizzato, da un lato, alla verifica della coerenza interna della scelta datoriale e, dall’altro, al vaglio circa l’adeguatezza rispetto ai limiti esterni derivanti dalla protezione d’interessi altrui costituzionalmente rilevanti [14]». Il passaggio più ambizioso sarebbe appunto quello di importare tale modello nei rapporti di lavoro e utilizzarlo per valutare che le scelte datoriali siano assunte nel pieno rispetto delle garanzie costituzionali riconosciute al lavoratore.
I parametri di legittimità del recesso considerati dal giudice
Tuttavia, se dottrina e giurisprudenza sono divise circa i presupposti di legittimità del recesso, concordano, al contrario, sui parametri che integrano la fattispecie in esame e che sono oggetto dell’accertamento giudiziale [15]. In particolare, è opinione prevalente che la fattispecie in esame venga integrata da tre requisiti:
- La non pretestuosità ed effettività delle ragioni che determinano la soppressione del posto di lavoro. Alla base del licenziamento, infatti, deve sussistere un atto di gestione da parte dell’imprenditore funzionale ad una riduzione o ad una trasformazione dell’attività di lavoro: esso, infatti, perché sia legittimo, deve essere esercitato nell’ambito di una più ampia riorganizzazione dell’assetto produttivo. Se, al contrario, il licenziamento si esaurisse in una mera soppressione del posto di lavoro del prestatore, si andrebbe a contrarre la ratio della norma in esame [16]. Allo stesso modo, se il licenziamento avesse come unico fine la sostituzione di un lavoratore con un altro, esso non sarebbe giustificato. Di conseguenza, l’imprenditore rispetterebbe il dettato normativo solo nell’ipotesi in cui esternalizzasse le mansioni del lavoratore oppure le modificasse nell’ottica di un mutato assetto organizzativo.
In secondo luogo, la giurisprudenza ha evidenziato che le ragioni di mercato e organizzative che giustificano una riduzione o una trasformazione dell’attività lavorativa devono essere stabili nel tempo: infatti se fossero, al contrario, ragioni volatili, vi sarebbe un licenziamento pretestuoso [17].
- La sussistenza di un nesso di causalità tra la scelta gestionale dell’imprenditore e il licenziamento del lavoratore: accertamento necessario, al fine di accertare che il licenziamento non sia pretestuoso.
- L’assolvimento del c.d. obbligo di repêchage, che subordina la legittimità del recesso alla prova materiale da parte dell’imprenditore dell’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni alternative nell’ambito del complesso aziendale.
[1] Tale distinzione si rinviene in S. VARVA, Sindacato giudiziale e motivo oggettivo di licenziamento, 2016, p. 456
[2] Ex multis, cfr. Cass., 14.9.1983, n. 5557; Cass., 12.5.1986, n. 3127; Cass., 2.10.2006, n. 21282; Cass., 25.3.2011, n. 7006; Cass., 26.9.2011, n. 19616; Cass., 24.2.2012, n. 2874; Cass., 23.10.2013, n. 24037; Cass., 16.3.2015, n. 5173; Cass., 24.6.2015, n. 13116.
[3] M. PEGORARO, in Licenziare per incrementare i profitti. Il punto sulla nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Newsletter Aprile/Maggio 2017 “Orientamenti giurisprudenziali”, Studio legale Marchionni & Associati, 2016, p. 1.
[4] Varva indica diverse sentenze che adottano tale filo conduttore nel proprio dispositivo. Si cfr. quelle indicate in S. VARVA, Giurisprudenza e licenziamento economico. Orientamenti in tema di sindacato giudiziale in M. FERRARESI, Recenti sviluppi del dibattito sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, W. P. ADAPT, 2017, pp. 4 ss.
[5] S. VARVA, Giurisprudenza e licenziamento economico. Orientamenti in tema di sindacato giudiziale in M. FERRARESI, Recenti sviluppi del dibattito sul giustificato motivo oggettivo di licenziamento, op. cit., p. 29
[6] L’art. 41 Cost. stabilisce che «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».
[7] T. TREU, Statuto dei lavoratori e organizzazione, in RTDPC, 1972, pp. 1051 ss.
[8] M. PEGORARO, in Licenziare per incrementare i profitti. Il punto sulla nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, op. cit. , p. 2
[9] Cfr. Cass., 4.6.2007, n. 10672; Cass., 24.5.2007, n. 12094
[10] Questi indici vengono individuati da SANTORO PASSARELLI in Il Licenziamento per giustificato motivo oggettivo: dalla ragione economica alla ragione organizzativa, Quaderni del CSDNRoma n. 2017/1, 2017, p. 5
[11] S. VARVA, Sindacato giudiziale e motivo oggettivo di licenziamento, op. cit., p. 463
[12] S. VARVA, Sindacato giudiziale e motivo oggettivo di licenziamento, op. cit., p. 463
[13] S. VARVA, Sindacato giudiziale e motivo oggettivo di licenziamento, op. cit., p. 464
[14] S. VARVA, Sindacato giudiziale e motivo oggettivo di licenziamento, op. cit., p. 464
[15] C. PONTERIO, Commento a Cassazione n. 25201/16, p. 2
[16] La tesi è contenuta in B. CARUSO, La fattispecie “giustificato motivo oggettivo” di licenziamento tra storie e attualità, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”. IT, 323/2017, 2017, p. 10.
[17] «Questi elementi, stabilità e non transitorietà – sottolinea Caruso – definibili come caratteristiche intrinseche alla modifica tecnico organizzativa […] confermano che la scelta deve essere effettiva, non pretestuosa e quindi non fraudolenta, abusiva o arbitraria»