Con la sentenza n. 8381 del 24 aprile 2015, la sesta sezione civile della Corte di Cassazione ha chiarito che il frazionamento della tutela giudiziale configura un’ipotesi di abuso del processo.
Nel caso di specie, i ricorrenti, parti di uno stesso procedimento avente ad oggetto l’ammissione al passivo di un fallimento, avevano proposto domanda di riconoscimento dell’equo indennizzo per l’eccessiva durata di tale procedimento basata sullo stesso presupposto giuridico di fatto, depositando distinti ricorsi alla Corte d’appello, con il patrocinio del medesimo difensore. Inoltre, nonostante la Corte distrettuale avesse provveduto a riunire i diversi giudizi, le parti depositavano successivamente altrettanti distinti ricorsi per la cassazione del decreto del giudice di secondo grado.
Tale condotta, secondo la Cassazione, configura chiaramente un’ipotesi di abuso del processo: il frazionamento della domanda giudiziale è infatti ritenuto lesivo “sia del canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, in quanto contrastante con il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., sia dei principi del giusto processo, in quanto l’inutile moltiplicazione dei giudizi produce un effetto inflattivo confliggente con l’obiettivo costituzionalizzato della ragionevole durata del processo, di cui all’articolo 111 Cost.“.
E tali principi, afferma la Suprema Corte, possono ben trovare applicazione anche nel caso in cui l’evento causativo del danno, e quindi giustificativo della pretesa, sia identico, come unico sia il soggetto che ne deve rispondere e plurimi siano solo i danneggiati. Ne deriva che i ricorrenti, agendo con lo stesso difensore per la domanda di equo indennizzo ma instaurando singolarmente procedimenti diversi, destinati inevitabilmente alla riunione, hanno pertanto abusato dello strumento processuale, assumendo “una condotta, priva di alcuna apprezzabile motivazione ed incongrua rispetto alle rilevate modalità di gestione, sostanzialmente unitaria delle comuni pretese“.
Tale comportamento processuale è in netto contrasto non solo con l’inderogabile dovere di solidarietà sociale, “ma soprattutto con il principio costituzionalizzato del giusto processo, inteso come processo di ragionevole durata, posto che la proliferazione oggettivamente non necessaria dei procedimenti incide negativamente sull’organizzazione giudiziaria a causa dell’inflazione dell’attività, con il conseguente generale allungamento dei tempi processuali”.
La Corte di legittimità ha infine chiarito che da tale abuso non può tuttavia conseguire la sanzione dell’inammissibilità dei ricorsi, atteso che “non è l’accesso in sé allo strumento che è illegittimo, ma le modalità con cui è avvenuto“. Al contrario, l’unica azione conseguente sarà casomai l’eliminazione per quanto possibile degli effetti discorsivi dell’abuso e quindi, nella fattispecie, la valutazione dell’onere delle spese come se unico fosse stato il procedimento sin dall’origine.
(Corte di Cassazione, Sesta sezione civile, sentenza n. 8381 del 24 aprile 2015)