Vi sono fattispecie ove appare quasi impercettibile il labile confine tra due reati previsti e puniti dal codice penale in virtù della natura del bene giuridico cui apprestare tutela e gli elementi costitutivi delle fattispecie di reato in esame. In particolare, l’art. 348 c.p. stabilisce che: “chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato…” e di contro l’art. 640 c.p. sanziona il delitto di truffa stabilendo: “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno…”.
In entrambi i casi la giurisprudenza di legittimità ha posto le basi per chiarire differenze ed analogie sostanziali esistenti tra i reati menzionati. Ed infatti, l’ordinamento nel sanzionare penalmente il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 c.p.), tutela un interesse pubblico affinché determinate professioni che richiedono particolari e specifiche competenze tecniche, possano essere esercitate da colui che effettivamente abbia conseguito quella specifica abilitazione amministrativa professionale e possieda qualità morali di probità.
Esercizio abusivo della professione e truffa: gli elementi costitutivi del reato
L’art. 348 c.p. tutelando l’esercizio abusivo di una professione, si configura come un reato del privato contro la pubblica amministrazione. Affinché il reato in questione si determini e possa essere contestato è necessario che il soggetto attivo del reato ponga un atto “tipico” di una data attività professionale in quanto alla stessa riservato in via esclusiva e non anche quegli atti, che pur in qualche modo connessi con l’esercizio professionale, difettano della tipicità in quanto suscettibili di essere posti da qualsiasi altro interessato. Pertanto l’ordinamento appresta tutela contro reati che ledono l’interesse pubblico a che determinate attività socialmente rilevanti (si pensi all’attività professionale forense), non vengano svolte senza un controllo, compiuto da organi competenti e volto a verificare l’idoneità morale, fisica e tecnica dell’esercente l’attività. Non mancano casi in cui i privati cittadini sono stati coinvolti in circostanze ove il soggetto attivo del reato si fingeva esercente una data professione, richiedente speciale abilitazione dello Stato, ed erano indotti a consegnare somme di danaro al finto esercente quale suo “onorario”.
Nella fattispecie della truffa di cui al 640 c.p., caratteristica offensiva tipica, consiste in una particolare forma di aggressione al patrimonio altrui realizzata con un inganno, che induce la stessa vittima ad auto danneggiarsi. Parte della dottrina, ha ritenuto che il reato di truffa comune è una fattispecie a cooperazione artificiosa ove l’azione offensiva non si esaurisce in un’aggressione unilaterale del reo, ma richiede un “completamento” ad opera del soggetto passivo che coopera nella produzione del danno. Nel reato di truffa non è possibile prescindere dalla concatenazione delle modalità della condotta truffaldina e dei conseguenti artifizi e raggiri. Il nucleo centrale della condotta incriminata risiede in un’attività diretta a persuadere con l’inganno “indurre mediante artifizi o raggiri”, l’attività induttiva deve a sua volta determinare l’errore del soggetto passivo e l’errore che assume il ruolo di “evento intermedio” del reato, produce l’ulteriore evento del danno patrimoniale.
Ai fini della configurabilità della truffa non è sufficiente una condotta qualsiasi, ma è necessario che l’induzione sia realizzata mediante le specifiche modalità legislativamente previste: artifizi o raggiri.
Per artifizio s’intende: manipolazione o trasfigurazione della realtà esterna, provocata mediante la simulazione di circostanze inesistenti o la dissimulazione di circostanze esistenti; per raggiro s’intende: l’attività simulatrice sostenuta da parole o argomentazioni atte a far scambiare il falso per vero.
I raggiri, a differenza degli artifizi che necessitano di una proiezione nel mondo esterno, possono esaurirsi in una semplice attività di persuasione che influenza la psiche altrui. Il soggetto passivo della truffa, è così indotto in errore in quanto l’attività induttiva ha generato come risultato l’errore del soggetto preso di mira: cioè la falsa o distorta rappresentazione di circostanze di fatto capaci di incidere sul processo di formazione della volontà.
Ulteriore evento di reato effetto del raggiro o artifizio e dell’errore del soggetto passivo è l’atto di disposizione patrimoniale da intendersi come atto di auto danneggiamento patrimoniale della vittima del reato ed è proprio questo che determina il danno, anch’esso ulteriore evento provocato dall’induzione in errore, con un ingiusto profitto del soggetto attivo.
La truffa, essendo un delitto di arricchimento sine causa presuppone anche il conseguimento di un ingiusto profitto, l’altro lato pregiudizievole subito dal soggetto passivo e dottrina e giurisprudenza sono concordi nel negare la natura necessariamente patrimoniale del profitto potendo consistere nel soddisfacimento di un qualsiasi interesse sia pure soltanto psicologico o morale. La fattispecie di truffa il reato si consuma nel momento in cui si verifica l’ultimo degli eventi provocati dalla condotta ingannatrice, sia esso il danno o il profitto (ovvero nel momento in cui si verificano entrambi, se realizzati in maniera simultanea). In merito alla consumazione, finché non sfociano negli eventi finali, artifizi o raggiri, idonei ex ante ad ingannare la potenziale vittima possono ben integrare il tentativo di reato (art. 56 c.p.).
Gli orientamenti giurisprudenziali.
La cassazione penale sezione II con sentenza n. 42967 del 22.11.11 annullava senza rinvio la sentenza impugnata in ordine al delitto di cui all’art. 640 c.p., per essere il reato estinto per remissione di querela ed in ordine al delitto di cui all’art. 348 c.p., perché il fatto non sussiste. Ed infatti, la Corte di Appello di Messina aveva confermato la sentenza con cui il g.m. del Tribunale aveva ritenuto il soggetto responsabile per i reati di cui agli artt. 348 e 640 c.p.; di poi l’imputato aveva proposto ricorso in Cassazione deducendo tra i motivi che:
- 1) in ordine alla violazione dell’art. 348 c.p., la consulenza legale secondo la Corte d’Appello di Messina rientrava tra gli atti giudiziari tipici, propri della professione forense ed inoltre non era stato considerato che, stante “il brevissimo lasso di tempo trascorso tra il provvedimento di radiazione dall’albo degli avvocati del foro territoriale di appartenenza ed il fatto oggetto di imputazione non può far ritenere che lo stesso svolgesse un’attività vietata in maniera professionale, continuativa ed organizzata”;
- 2) in ordine alla violazione dell’art. 640 c.p., il ricorrente aveva indicato alla parte offesa una collega abilitata come soggetto che avrebbe patrocinato la causa e ci dimostrava l’assenza di volontà di arrecarle un danno e l’intenzione di voler compiere l’incarico ricevuto seppur tramite un terzo.
Tuttavia la Corte d’Appello di Messina ha ritenuto di sussistere la violazione dell’art. 348 c.p., in quanto la professione forense era stata esercitata abusivamente nonostante la radiazione dall’albo e la violazione dell’art. 640 c.p., in quanto con artifizi o raggiri, consistiti nel qualificarsi come avvocato, la persona offesa era stato indotta in errore ed a consegnare un assegno pari a 1500 euro quale acconto per l’opera professionale posta in essere dall’imputato. Invero, la Corte d’Appello di Messina riteneva la configurabilità di entrambi i reati contestati in quanto: la mera consulenza legale, secondo la Corte, è pacificamente inquadrabile tra quella specifica professione abusivamente esercitata, per la sussistenza del reato di cui all’art. 348 c.p., anche il compimento di un solo atto tipico e proprio della professione ed anche il ricorrere ad un collega, come prestanome, è sintomatico della piena consapevolezza dell’antigiuridicità della propria condotta; inoltre, l’attività dell’imputato fu sufficientemente duratura e produsse infingimento della realtà sulle proprie condizioni professionali che ben integrava il reato di cui al 640 c.p. In ordine all’attività di consulenza, nell’ambito di questa stessa Corte di legittimità, vi è differenza di opinioni.
Infatti, mentre per una tesi “non commette il reato di abusivo esercizio della professione di avvocato (art. 348 c.p.) il soggetto che rediga una relazione di consulenza, su carta intestata Studio legale internazionale, in ordine ad un procedimento penale, in quanto la consulenza non rientra tra gli atti tipici per i quali occorre una speciale abilitazione, ma è un’attività relativamente libera, solo strumentalmente connessa con la professione forense” (Cass. 17921/2003), al contrario, per un’altra tesi, “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 348 c.p. (abusivo esercizio di una professione), sono atti rilevanti non solo quelli riservati, in via esclusiva, a soggetti dotati di speciale abilitazione, c.d. atti tipici della professione, ma anche quelli c.d. caratteristici, strumentalmente connessi ai primi, a condizione che vengano compiuti in modo continuativo e professionale, in quanto, anche in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione per il quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo (Cass. 49/2002, la quale, peraltro, annullò senza rinvio la sentenza impugnata rilevando che, essendo pur sempre necessario l’esercizio di una attività sistematica e sia pure relativamente organizzata, nel caso di specie all’imputato era stata attribuita una prestazione isolata che non poteva essere considerata come sintomatica di un’attività svolta in forma professionale sulla base della sola dizione della carta intestata su cui è stato redatto il suo parere (Cass. 26829/2006).
Quest’ultima tesi fatta propria dalla Corte territoriale, richiede, per la configurabilità del reato che l’attività strumentale (nella specie, la consulenza) venga compiuta in modo continuativo e professionale, in quanto, solo in questa seconda ipotesi, si ha esercizio della professione per la quale è richiesta l’iscrizione nel relativo albo. Orbene, nel caso di specie, quand’anche si volesse accedere alla tesi più restrittiva, resta il fatto, completamente negletto dalla Corte territoriale, che all’imputato è stato contestato un solo ed isolato episodio ai danni della sola parte offesa.
L’orientamento della dottrina maggioritaria.
Di contro, la maggioranza della dottrina si schiera sull’ipotesi di non assorbimento degli elementi costitutivi dell’esercizio abusivo della professione nell’elemento oggettivo di cui all’art. 640 c.p. Ed invero, tale dottrina ritiene di dover far leva sulla differente natura dei beni giuridici tutelati: infatti, la truffa, di cui al 640 c.p., è rivolta alla protezione del patrimonio che viene intaccato con modalità ingannatorie.
Tale parte della dottrina ritiene che gli artifici o i raggiri, quali elementi costitutivi del reato di truffa, possano realizzarsi indipendentemente dall’esercizio abusivo della professione, traendo in inganno il soggetto passivo in altro modo; per cui, la condotta di cui all’art. 348 c.p., può divenire un elemento accidentale del reato complesso di truffa, non di più, facendo rimanere l’imputabilità contemporanea sia dell’art. 348 c.p. che all’art. 640 c.p.
Conclusioni: L’orientamento chiarificatore della Suprema Corte di Cassazione.
Il caso in cui un soggetto che, senza possedere il titolo si qualifica, ad esempio avvocato, ha originato un’annosa diatriba dottrinale e giurisprudenziale, se il reato così descritto integri il reato di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p. oppure il reato di truffa seppur tentato ex art. 640 c.p. Sul punto è intervenuta la Cassazione che con sentenza penale n. 38752/2016 ha chiarito che colui che si spaccia esercente un’attività professionale per la quale è richiesta speciale abilitazione dello Stato e in luogo dell’attività svolta si fa consegnare danaro come suo onorario, integra gli estremi del reato di truffa seppur tentata di cui al 640 c.p. Nella truffa, quale reato contro la pubblica amministrazione, viene leso il patrimonio di un soggetto tratto in inganno.
La Suprema Corte ha ritenuto, qualora nel caso concreto, manchino o siano carenti, i requisiti di tipicità richiesti per esercitare una data attività professionale, appare sussistere il delitto di truffa tentata posto che la prospettazione della propri qualità di avvocato, invero inesistente, sia stato il motivo che ha indotto il soggetto passivo del reato ad affidare la tutela di un suo interesse ad un soggetto che attraverso inganni e raggiri si finga esercente attività professionale ed in considerazione di ciò si faccia consegnare danaro.