Dichiarazione di fallimento: effetti sulle azioni giudiziali in corso

Cosa accade se il proprio assistito viene dichiarato fallito?

Quali sono gli effetti della dichiarazione di fallimento sulle azioni giudiziali in corso?

Se il difensore continua a rappresentare il fallito senza nomina del curatore ha diritto ai compensi per l’attività svolta?

Con questo vademecum completo di giurisprudenza, cercheremo di fare chiarezza sull’argomento.

Quali sono gli effetti processuali della dichiarazione di fallimento?

L’imprenditore o il legale rappresentante di una società una volta che sia stato dichiarato il fallimento non possono più stare in giudizio.

È invece il curatore che, ai sensi del 1° comma art. 43 Legge Fallimentare, sostituisce il fallito, sia quest’ultimo attore o convenuto.

In sostanza, in conseguenza del fallimento il fallito perde la sua capacità processuale.

Fanno eccezione:

  • i giudizi penali, in cui il fallito risponde sempre personalmente;
  • le ipotesi in cui il fallito agisca per la tutela di diritti strettamente personali e cioè:
    • azioni relative al matrimonio (separazione, divorzio, annullamento)
    • richiesta alimenti al coniuge
    • rivendicazione o contestazione di condizioni personali
    • azione di riconoscimento e disconoscimento paternità
  • le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a carico del fallito se l’intervento è previsto dalla legge (la norma parla solo di bancarotta, così escludendo gli altri reati che possono essere commessi dal fallito);
  • i casi in cui, pur trattandosi di rapporti patrimoniali, l’amministrazione fallimentare sia rimasta inerte, manifestando indifferenza nei confronti del giudizio.

Cosa accade se nel corso di un’azione giudiziale di natura patrimoniale una delle parti in causa fallisca?

L’art. 43, comma 3 Legge Fallimentare, inserito dall’articolo 41 D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, prevede che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione automatica del processo”.

Non è necessaria la dichiarazione del procuratore della parte fallita o la notificazione dell’evento interruttivo alle controparti: perché si verifichi l’interruzione è sufficiente il deposito della sentenza di fallimento (Trib. Pavia 31/03/2016; Trib. Modena, n. 150, 20/01/2012).

Il giudice deve dichiarare l’interruzione con ordinanza e durante l’interruzione non possono compiersi atti e i termini in corso sono interrotti.

Come espressamente previsto dall’art 150 del d. lgs. cit., l’art. 43 l.f. è applicabile ai soli fallimenti dichiarati a partire dal 16.7.2006 (data di entrata in vigore della novella).

I fallimenti anteriormente dichiarati sono soggetti all’ordinario regime processuale dettato, in tema di interruzione del processo, dagli artt. 299 e segg. c.p.c.

Come avviene la prosecuzione di un processo interrotto per fallimento di una parte in causa?

Il processo interrotto può essere proseguito dal curatore, autorizzato dal giudice delegato, o riassunto dalla parte non colpita dall’evento interruttivo entro il termine perentorio di 3 mesi.

Il dies a quo è il giorno in cui le parti hanno avuto conoscenza effettiva e legale dell’interruzione e non il giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo (C. Cost. 261/2010 e 159/1971).

A tal riguardo, per chi abbia interesse alla riassunzione, la conoscenza legale dell’evento interruttivo si intende avuta nel momento in cui il fallimento viene portato a sua conoscenza mediante dichiarazione in udienza o di atto notificato (Trib. Milano 28/03/2014).

Se il termine decorre senza che venga effettuata la riassunzione o la prosecuzione del processo, il giudice deve dichiarare l’estinzione del processo ex art. 305 c.p.c.

Cosa accade se l’interruzione non venga dichiarata e il processo prosegua nonostante la dichiarazione di fallimento?

L’irregolare prosecuzione del giudizio comporta la nullità degli atti posti in essere e può essere eccepita solo dal fallito e dal curatore (Cass. 19095/2011).

In virtù di quanto previsto dall’art. 43 l.f., l’apertura del fallimento vieta dunque ogni ulteriore attività processuale che, se compiuta, è causa di nullità degli atti successivi e della sentenza (Cass. 5650/2013).

È infatti impossibile che il processo arrivi a sentenza e si formi un titolo a favore o contro un soggetto che di fatto non esiste più.

Sul punto v’è invece chi ritiene che se il processo civile sia continuato senza essere dichiarato interrotto, il curatore:

  • in caso di esito negativo della causa, possa avvalersi dell’inopponibilità del giudizio;
  • in caso di esito positivo, possa al contrario approfittare della sentenza favorevole al fallito in ragione dell’applicazione delle regole di cui
    • all’art. 42 l.f. (che prevede al 2° comma che siano compresi nella massa fallimentare anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento. Il debitore risponde infatti dei suoi debiti anche con i propri beni futuri ex 2740 c.c.)
    • all’art. 44 l.f. (che prevede al 3° comma che “sono acquisite al fallimento tutte le utilità che il fallito consegue nel corso della procedura […]”).

Che accade se il curatore si disinteressa totalmente di uno o più rapporti patrimoniali compresi nel fallimento?

Come accennato, si ritiene che in caso di inerzia o disinteresse del curatore il fallito possa comunque agire per far valere i suoi diritti.

Sul punto occorre chiarire tuttavia che l’azione in via eccezionale non è ammessa qualora l’inerzia del curatore sia conseguenza di una valutazione consapevole riguardo alla non convenienza della controversia (Cass. 13814/2016, Cass. 24159/2013).

In ogni caso, la perdita della capacità processuale del fallito può essere eccepita solo dal curatore.

Se quest’ultimo non provvede in tal senso e il fallito agisca per conto proprio, controparte non è legittimata a proporre alcuna eccezione né il giudice può rilevare il difetto di capacità d’ufficio.

Al contrario, se il curatore ha mostrato interesse per il rapporto dedotto in lite e il fallito abbia agito in giudizio ugualmente, il suo difetto di legittimazione potrà essere rilevato da chiunque, anche d’ufficio.

Il fallito nelle controversie tributarie

Anche dopo il fallimento, il contribuente non è privato della sua qualità di soggetto passivo del rapporto tributario.

Resta pertanto esposto ai riflessi, anche sanzionatori, conseguenti alla definitività dell’atto impositivo (Cass. 9434/2014; Cass. 4113/2014)

Ove dunque il fallito riceva la notifica di un avviso di accertamento in pendenza del suo assoggettamento a procedura fallimentare, nell’inerzia degli organi fallimentari ed a prescindere dalla valutazione da essi compiuta sull’accertamento, ha il potere di impugnare l’atto, in ragione della legittimazione straordinaria riconosciutagli dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 4113/2014).

Il pagamento dell’attività processuale dell’avvocato in rappresentanza e difesa del fallito

Ai sensi dell’art. 25 comma 1 n° 6 l.f. è il curatore a nominare i difensori che rappresenteranno processualmente il fallito.

L’attività svolta dall’avvocato prima che venga dichiarato il fallimento, in assenza di nomina e conferma successiva con mandato del curatore, è integralmente concorsuale.

Il relativo credito va dunque insinuato al passivo del fallimento e gode del privilegio di cui all’art. 2751 bis n. 2 c.c., nei limiti da tale norma previsti.

Tuttavia, se nelle more del giudizio venga dichiarato il fallimento del proprio assistito e il difensore non venga nominato dagli organi fallimentari, stante quanto disposto dall’art. 43 l.f., il difensore non può pretendere il pagamento dei compensi per le attività giudiziali post fallimentari esercitate in favore di un soggetto che giuridicamente non esiste più.

Infine si ricorda che, qualora il difensore venga correttamente nominato, il credito del professionista che abbia svolto attività di assistenza giudiziale al fallimento, rientra tra i crediti sorti in funzione della procedura e come tali va soddisfatto in prededuzione, ex art. 111, comma 2, l.f.

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