Edificio costruito su terreno in comunione: una possibile soluzione in attesa delle Sezioni Unite

in Giuricivile, 2018, 2 (ISSN 2532-201X)

Come già evidenziato in un precedente articolo, è stata rimessa alle Sezioni Unite la controversa questione, in materia di comunione e accessione, riguardante la sorte della costruzione realizzata ex novo, da uno solo dei comproprietari, sul suolo comune.

La fattispecie in esame non è certo di infrequente nella prassi. Può accadere, infatti, che un soggetto costruisca un edificio sul fondo in comproprietà, senza rispettare le regole dettate dal legislatore per i beni in comunione (artt. 1100 – 1116 c.c.).

In questo caso specifico, la disciplina positiva non offre una risposta immediata al problema circa la proprietà della nuova res costruita.

In assenza di una disposizione ad hoc, è necessario coordinare le norme codicistiche sulla comunione, e quelle previste in tema dei modi di acquisto della proprietà, in particolare relative all’accessione.

La costruzione sul suolo in comunione

Nell’ambito della comunione, vengono in rilievo essenzialmente due disposizioni: l’art. 1102 e l’art. 1108 c.c.

La prima regolamenta l’uso della cosa comune, e stabilisce che ciascun comproprietario è libero nell’utilizzo della res, purché non alteri la destinazione del bene, né impedisca agli altri di farne uso.  Inoltre, ai sensi del secondo periodo del primo comma, un comproprietario da solo può apportare (a proprie spese) modifiche sul bene al fine di migliorarne il godimento.

Ora, è chiaro che anche la costruzione sul suolo di proprietà comune può rappresentare una di quelle modifiche considerate dalla norma. Tuttavia, nulla si dice in ordine alla proprietà della res.

L’art. 1108 c.c. detta le regole relative alle innovazioni e agli altri atti eccedenti l’ordinaria amministrazione (tra le quali la costruzione di un’opera sopra il suolo potrebbe rientrarvi a pieno titolo).

I primi due commi prevedono la necessità di una delibera che raccolga il consenso di almeno due terzi dei partecipanti, affinché possa realizzarsi un’innovazione, o un atto di straordinaria amministrazione. La proprietà della costruzione, autorizzata dalla maggioranza qualificata, resta comune.

Il terzo comma dispone che è necessaria l’unanimità perché il bene possa essere alienato, ovvero per la costituzione sul fondo comune di un diritto reale. Di conseguenza, è ben possibile che i comproprietari consentano la costituzione finanche della proprietà in capo al costruttore dell’opera. Questi, in tal caso, diverrebbe proprietario – senza alcuna incertezza – a titolo originario ed individuale, della res di nuova costruzione. La disposizione si pone come scientemente derogatoria delle norme in tema di accessione.

Costruzione del comproprietario sine titulo

Viceversa, i profili problematici della fattispecie presa in esame emergono, in tutta la loro portata, qualora la costruzione individuale da parte di un comproprietario sia realizzata senza che siano rispettate le regole previste dalla disciplina or ora messa in evidenza.

È pacifico il dato per cui una costruzione siffatta risulti eseguita, sostanzialmente, sine titulo, e pertanto rappresenti un abuso nei confronti degli altri proprietari.

La fattispecie potrebbe variamente inquadrarsi nell’illecito aquiliano, ovvero – a parere di chi scrive – nell’abuso del diritto.

Nel primo caso, per gli altri comproprietari sarebbe pur sempre possibile agire per il risarcimento del danno. Su di essi ricadrebbe comunque l’onere di provare le conseguenze pregiudizievoli sofferte.

Nel secondo, potrebbe ipotizzarsi una violazione del dovere di correttezza e buona fede nei confronti degli altri proprietari, implicito nelle regole sulla comunione, e scolpito dall’art. 2 Cost. – una delle norme portanti del nostro ordinamento – quale dovere di solidarietà.

Tuttavia, quel che interessa in questa sede è far luce sul problema della titolarità del diritto di proprietà sulla nuova res costruita.

Da un lato, è innegabile che vi sia un vuoto di tutela nel nostro ordinamento.

Eppure, de iure condito, è parimenti vero che il giudice, in ragione del divieto del non liquet, deve necessariamente addivenire ad una soluzione interpretativa sulla base della legge (arg. ex art. 101 co. 2 Cost.).

Gli orientamenti contrapposti di dottrina e giurisprudenza

Pertanto, sul punto, dottrina e giurisprudenza, hanno espresso sostanzialmente due diversi e contrapposti orientamenti, il che ha giustificato l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite n. 9316 del 11 aprile 2017 da parte della Seconda Sezione della Corte di Cassazione.

Da un lato, la dottrina tradizionale ha ritenuto applicabile al caso in esame la regola dell’accessione, la quale sarebbe espressione di un principio generale di acquisto della proprietà di qualsiasi costruzione su fondo altrui. Di conseguenza, in applicazione dell’art. 934 c.c., la proprietà dell’edificio di nuova realizzazione sarebbe comune, condivisa tra tutti i comunisti, i quali la otterrebbero secondo quote ideali di proprietà, corrispondenti alla quota di proprietà dell’area.

Accedendo a questa ermeneutica, il comproprietario costruttore potrebbe acquistare la proprietà dell’edificio esclusivamente per usucapione. Infatti, come chiarito da dottrina e giurisprudenza, l’usucapione è ben possibile anche per beni dei quali si sia comproprietari, purché il possesso della res, protratto continuativamente nel tempo, divenga esclusivo (e non più comune e condiviso), realizzando così l’interversio possessionis.

Un secondo orientamento, al contrario, ritiene che il mancato rispetto della disciplina della comunione da parte del costruttore-comproprietario, renda quest’ultima non applicabile. Così opinando, la proprietà dell’edificio non sarebbe comune, bensì del singolo.

Infatti, si obietta che, alla fattispecie considerata, la disciplina dell’accessione non sarebbe applicabile, poiché atterrebbe esclusivamente alle ipotesi di diversità soggettiva tra proprietà.

In altri termini, tale istituto rappresenterebbe un modo di acquisto della proprietà efficace solo per costruzioni di soggetti terzi rispetto al fondo proprietario.

Come si vede, questa tesi condivide con la precedente l’assunto per cui l’opera realizzata sarebbe abusiva, ma conclude per la proprietà esclusiva dell’opera in capo a colui che l’abbia costruita.

Tale impostazione ha trovato accoglimento in diverse recenti pronunce della giurisprudenza.

Alla luce di quanto esposto, ed in ragione del panorama normativo, lacunoso ed antinomico insieme, risulta particolarmente difficoltoso individuare una soluzione al contrasto tra i suddetti orientamenti. Tanto più che questi ultimi, pur muovendo da presupposti parzialmente simili, giungono a conclusioni diametralmente opposte.

Una possibile soluzione al contrasto tra i due orientamenti

Orbene, in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite sul tema in parola, si può tentare di individuare una soluzione.

Dal punto di vista gnoseologico, l’istituto della comunione disciplina giuridicamente una relazione sociale di tipo cooperativo, tra due o più individui. In altre parole, più soggetti sono tenuti al rispetto reciproco di regole – cristallizzate dal legislatore –  al fine di condividere equamente e sfruttare al meglio la proprietà del medesimo bene. Dunque, in ultima analisi, i pilastri della comunione sono ravvisabili nei principi cardine del nostro ordinamento: solidarietà e uguaglianza (rispettivamente articoli 2 e 3 Cost.).

Siffatta relazione, cooperativa e paritaria, tra soggetti, è tesa – in ottica macro-economica, e in conformità alla c.d. pregiudiziale patrimonialistica che informa tutto il codice civile – a massimizzare l’efficienza nello sfruttamento del bene da parte dei suoi proprietari.

In questo senso, è spiegabile l’affermazione della dottrina maggioritaria, secondo la quale il legislatore vedrebbe con “sfavore” l’istituto della comunione.

Infatti, è innegabile che qualsivoglia processo decisionale è più snello e uniforme, e dunque più efficiente, là dove sia una sola persona a dover decidere.

Indice di tale assunto è rappresentato essenzialmente dall’art. 1111 c.c. che, da un lato prevede in capo a ciascun comunista il diritto potestativo di chiedere la divisione, e dall’altro pone il divieto di stipulare patti di rimanere in comunione per un termine superiore ai 10 anni.

Tuttavia – in ottica micro-economica – una volta instaurato il regime della comunione, il legislatore ha optato per contemperare al meglio il descritto interesse generale, con gli interessi dei singoli comproprietari a realizzarsi (anche) attraverso il godimento del bene, prevedendo regole solidaristico-egualitarie.

Volgendo lo sguardo alla disciplina dell’accessione, per la sua particolare affinità con il tema preso in esame, merita di essere considerato l’art. 936 c.c.

La norma si preoccupa di disciplinare il regime proprietario della costruzione del terzo sul suolo altrui, proprio attraverso la regola dell’accessione. In particolare, si prevede che se l’opera viene realizzata in mala fede, il proprietario ha diritto di ordinare (entro un termine ristretto) la rimozione della stessa. Al contrario – in adesione, anche in questo caso, ad una logica di efficienza della proprietà privata – il proprietario ha diritto di ritenere le opere, accrescendo la propria proprietà, dietro indennizzo.

Dal confronto tra le evidenziate rationes sottese ai due istituti di cui sopra, è possibile tracciare un punto di contatto che funga poi da guida per una possibile soluzione al problema posto alle Sezioni Unite.

Nel caso dell’art. 936 c.c – quindi tra due soggetti in posizione di, tendenziale, reciproca indifferenza tra loro – il legislatore ha previsto, in capo al proprietario del suolo, il diritto di ritenzione della costruzione realizzata dal terzo, in applicazione della regola superficies solo cedit. Allora, pare potersi affermare che il principio della accessione dovrebbe valere – a fortiori – anche nel caso in cui un soggetto violi le regole di una relazione cooperativa, in quanto tale ben più “forte” e stringente, qualificata dal diritto di comproprietà (comunione) sul medesimo fondo.

Così inferendo, risulta come la seconda vicenda sia ben più grave della prima. Pertanto, se il proprietario del suolo si può avvantaggiare dell’opera costruita dal terzo nel primo caso, acquistandone la proprietà, non può che essere così anche nella seconda ipotesi. In questo senso, dovrebbe quindi affermarsi la proprietà comune dell’opera realizzata su terreno – appunto – comune.

Tale conclusione sembra imposta non solo da ragioni di giustizia sostanziale, ma anche e soprattutto da motivi di coerenza interna del sistema dei diritti reali delineato dal legislatore.

Affermare il contrario sarebbe irragionevole, poiché vorrebbe dire trattare in modo più favorevole chi compia invece una violazione più grave rispetto al parametro normativizzato dal legislatore.

Il comproprietario che voglia realizzare un’opera sul suolo comune è avvinto dalle regole della comunione. Qualora non voglia rispettare tali regole, nell’ottica del codice civile, dovrebbe chiedere la divisione, non già costruire lo stesso, senza permesso. Se si ammettesse che il costruttore possa ottenere il medesimo effetto (la proprietà della costruzione) anche senza rispettare le regole sulla comunione, si finirebbe per ignorare (e tacitamente abrogare) l’art. 1108 c.c..

Per questi motivi, se nell’ipotesi di cui all’art. 936 c.c., colui che costruisce non ottiene la proprietà del bene realizzato, allora lo stesso dovrebbe dirsi per il costruttore su un bene in comunione, che abbia violato la relativa disciplina.

Certo, a quanto detto potrebbe obiettarsi che a costruire è un comproprietario del bene, non un terzo estraneo sul quale gravi il dovere di astenersi dall’interferire nel godimento del diritto di proprietà altrui.

Eppure, dovrebbe ritenersi preferibile valorizzare due dati. Da un lato, vi è un ben preciso “dover essere” prescritto dal legislatore agli articoli 1102 e soprattutto 1108 c.c.. Dall’altro, la proprietà individuale, non può essere pienamente equiparata alla proprietà comune di un bene. Tale ultimo assunto è confermato dal tenore letterale dell’art. 1100 c.c., giusta il quale “Quando la proprietà o altro diritto reale spetta in comune a più persone, se il titolo o la legge non dispone diversamente, si applicano le norme seguenti”.

Di conseguenza, non sembra pienamente corretto rifiutare tout court un principio generale come quello dell’accessione per il solo fatto di non voler considerare le specificità del regime della comunione.

Per le ragioni esposte, parrebbe preferibile attribuire la proprietà della costruzione a tutti i comproprietari, quasi a ipotizzare una analogia iuris ricavata a fortiori dal raffronto tra la disciplina dell’accessione, ed in particolare dell’art. 936 c.c., e la ratio sottesa alla disciplina della comunione, violata da chi costruisca sul suolo comune, come nell’ipotesi presa in esame.

Ulteriore spiegazione logico giuridica

Infine, a far pendere l’ago della bilancia in maniera decisiva a favore del primo orientamento è un’ultima considerazione di carattere logico e giuridico.

Il già citato art. 1108 co. 3 c.c. scolpisce una regola cristallina: “È necessario il consenso di tutti i partecipanti per gli atti di alienazione o di costituzione di diritti reali”.

Rileggendo la norma in chiave condizionalistica, secondo lo schema “Se A, allora B”, è come se dicesse: “Se c’è il consenso di tutti, allora è possibile costituire un nuovo diritto reale”.

Risulta dunque evidente come il legislatore abbia imposto che per realizzare l’effetto “B”, nel quale rientra la costituzione di una proprietà individuale sul fondo comune, vi sia un unica strada possibile: soddisfare le condizioni previste in “A” (il consenso di tutti).

In altri termini, “A” è causa necessaria e sufficiente per la  produzione dell’effetto “B”. Di conseguenza, pare proprio che, per l’ordinamento, l’effetto preso in esame nella presente analisi (la proprietà individuale per la realizzazione di un edificio sul suolo comune) sia realizzabile esclusivamente attraverso un’unica via: il consenso di tutti i comproprietari.

In questo senso, è decisivo il principio di ragionevolezza sotto forma del principio logico di non contraddizione. Tale principio è uno dei tre assiomi fondanti la logica classica, e – secondo la definizione aristotelica – postula che ”è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”.

Se si ammettesse la realizzabilità dell’effetto “B” (il sorgere del diritto di proprietà in capo al costruttore), anche in assenza delle condizioni richieste dalla legge, verrebbe violato un canone essenziale della logica formale, che il diritto, in quanto scienza sociale, necessariamente recepisce.

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