Dichiarazione di adottabilità e condizione di abbandono: il punto della Cassazione

in Giuricivile, 2020, 4 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., sez. I civ., ord. n. 3643 del 13.02.2020

Fatti di causa

Il caso trae origine da una pronuncia di secondo grado con la quale il giudice territoriale, nel confermare la sentenza di primo grado, dichiarava lo stato di adottabilità di due figlie minorenni nate in territorio italiano.

Di seguito, una più precisa narrazione dei fatti di causa.

La madre, nell’atto di appello rigettato, aveva contestato lo stato di abbandono, sottolineando la assoluta mancanza di condotte dannose per le figlie minori. Evidenziava, in proposito, che svolgeva regolare attività lavorativa, in possesso di permesso di soggiorno nonché la sussistenza di un legame profondo con entrambe le figlie. Di qui, chiedeva l’annullamento o la revoca della dichiarazione di adottabilità o l’affidamento temporaneo o altra e diversa misura atta a preservare il rapporto in essere, quale l’adozione mite.

La corte d’Appello rigettava le motivazioni addotte dalla madre/appellante, disponendo l’audizione dell’appellante/madre ed una nuova consulenza tecnica d’ufficio collegiale, in presenza di un mediatore linguistico e di un antropologo.

Nella sentenza, il giudice di seconde cure esponeva quanto segue:

  • che le caratteristiche afferente la personalità della madre ed il quadro psicopatologico della stessa erano da considerarsi di difficile compatibilità con le esigenze evolutive delle figlie;
  • che non vi era una idonea cognizione della situazione sanitaria da parte della madre;
  • che i suesposti elementi presentavano una evidente ricaduta sulla funzione genitoriale.

Ancor più, il giudice d’Appello riportava l’esito negativo di una visita domiciliare eseguita presso l’indirizzo dato dalla madre nonché l’assenza di collaborazione, da parte di quest’ultima, con i servizi sociali, per mancata comunicazione dei cambi d’indirizzo e delle altre informazioni utili ai fini procedimentali.

Di qui, la Corte territoriale riteneva provato lo stato di abbandono in cui versavano le minori, ritenendo compromesso un recupero della figura materna e, conseguentemente, la frequentazione; aggiungendo l’impossibilità di un ricorso alla c.d. adozione mite, ponendo a sostegno di tale asserzione la mancanza di disposizioni normative volte a prevedere e a regolamentare quest’ultimo strumento adottivo.

Avverso la suesposta pronuncia ricorreva per cassazione la madre, depositando memoria con la quale chiedeva la trattazione del ricorso in pubblica udienza.

Di seguito le motivazioni addotte dalla ricorrente, con conseguente disamina del quadro normativo nonché giurisprudenziale consolidatosi in materia. Con particolare riguardo alle fonti di matrice comunitaria.

I motivi di ricorso

A fondamento del ricorso, la ricorrente deduce, quale unica doglianza, l’illegittimità dell’argomentazione contenuta nella pronuncia di secondo grado, oggetto di impugnazione. Ovvero, dell’affermazione secondo cui non può essere desunta dall’ordinamento l’adozione mite sull’assunto che l’elenco delle adozioni in casi particolari ha luogo sulla base di circostanze tassativamente individuate dal legislatore, venendo qui in rilievo l’art. 44, lettera d), della Legge n. 184/1983.

Nel dettaglio, nel ricorso viene rilevato l’omesso esame di un fatto decisivo, rappresentato dal profondo legame intercorrente tra la madre e le figlie; aspetto, quest’ultimo, evidenziato nella consulenza tecnica d’ufficio disposta nel giudizio d’appello a conferma del fatto che il legame con le figlie non venisse definitivamente interrotto.

Profili, rispetto ai quali, la madre/ricorrente ha inteso sottolineare che nelle situazioni di semi-abbandono può trovare applicazione l’istituto dell’adozione mite, grazie anche ad una interpretazione estensiva della disposizione di cui all’art. 44 Legge n. 184/1983.

In particolare, la ricorrente rileva l’importanza risolutiva che assume il combinato disposto degli artt. 7 e 4, lettera d), della normativa de qua; sottolineando, difatti, che la lettura coordinata delle suddette previsioni normative consente di ritenere non legittimo il ricorso allo strumento dell’affido preadottivo allorquando non ricorrano le condizioni dello stato di abbandono seppur si riscontrino gravi mancanze nelle capacità genitoriali, con la precisazione che tali carenze non siano tali da determinare uno stato di abbandono, sia sotto il profilo materiale che morale.

Argomentazioni, queste ultime, che trovano sostegno anche in ambito giurisprudenziale, rilevando sul punto talune pronunce della Corte EDU che, in più occasioni, ha condannato il nostro Paese [1] per aver dichiarato lo stato di adottabilità al di fuori dei casi eccezionali nei quali le condotte genitoriali si erano caratterizzate per una particolare gravità (abusi o maltrattamenti).

Dunque, la madre evidenzia un aspetto fondamentale: la mancata considerazione che il ricorso allo strumento dell’ “adozione mite” potesse rispondere all’interesse primario del minore. Sanzionando, pertanto, la statuizione del giudice di secondo grado per non aver ritenuto applicabile, al caso di specie, il disposto di cui all’art. 44 Legge n. 184/1983 nonché per aver omesso l’esame del parere del CTU.

Infine, viene prospettata un’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 1, e letto. d) per violazione degli artt. 3 e 30 Costi. e art. 117 Cost. in combinato disposto con l’art.  8 CEDU e art. 10, comma primo, della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo. Rilevando, quest’ultimo dato normativo, nella parte in cui non prevede la possibilità che possa ricorrersi ai “casi particolari di adozione” ex art. 44, lettera d), e ss. della Legge n. 184/1983 nelle ipotesi di semiabbandono permanente [2]. Prospettandosi, pertanto, un vuoto normativo, non essendo la questione de qua, seppur rilevante, giuridicamente disciplinata nel nostro ordinamento.

Doglianze finalisticamente orientate alla concreta realizzazione di un fondamentale aspetto: la conservazione dei rapporti con la famiglia originaria, soprattutto al ricorrere di fatti decisivi e, come tali, significativi.

(Segue) Uno sguardo alla normativa ed alla giurisprudenza

Partendo dall’impianto normativo, è indubbio che in riferimento alla fattispecie in oggetto a rilevare siano le previsioni racchiuse nella Legge n. 184 del 1983. Con riguardo a determinati profili, quali: la dichiarazione di adottabilità di un minore, la situazione di abbandono e l’esigenza di conservazione dei rapporti con la famiglia originaria.

Aspetti, questi ultimi, che risultano essere accomunati da un fil rouge: l’individuazione del modello adottivo adeguato all’interesse primario dei minori.

In prima battuta, a rilevare sono gli articoli 7 ed 8 (L. n. 184/1983), atteso che in essi vi è un chiaro riferimento alla dichiarazione di adottabilità e, conseguentemente, sulla situazione di abbandono del minore.

Si tratta, invero, di previsioni la cui disamina va eseguita in combinato disposto laddove l’art. 7, nel prevedere che l’adozione è strumento che opera in favore dei minori dichiarati in stato di adottabilità, fa esplicito riferimento alle norme seguenti, tra le quali un ruolo focale assume sicuramente il disposto di cui all’art. 8. Quest’ultimo, in particolare, non si limita a stabilire il presupposto fondante lo stato di adottabilità bensì ne fornisce una accurata spiegazione.

Difatti, statuisce espressamente che la situazione di abbandono vada riconosciuta ai minori “privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori o dei parenti tenuti a provvedervi, purché la mancanza di assistenza non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio”. Con l’ulteriore precisazione che: “la situazione di abbandono sussiste anche quando i minori siano ricoverati presso istituti di assistenza o si trovino in affidamento familiare”.

In secondo luogo, come già evidenziato nel paragrafo che precede, la norma che assume la duplice veste di ruolo focale/risolutivo e nodo problematico/interpretativo è l’art. 44 (Legge n. 184/1983). Disposizione, tra l’altro, che presenta una connessione funzionale ed integrativa con la previsione di cui all’art. 7 (stante anche l’espresso richiamo ad esso).

Più precisamente, la norma di cui all’art. 44, nel disciplinare i casi e i soggetti che possono procedere all’adozione di minori, va a regolamentare ipotesi che fuoriescono dallo schema normativamente predisposto dall’art. 7. Difatti, (l’art. 44) statuisce espressamente che i minori possono essere adottati, anche quando non ricorrano le condizioni sancite dal primo comma dell’art. 7, da determinate categorie di soggetti, ovvero da: “persone unite al minore, organo di padre e di madre, da vincolo di parentela fino al sesto grado o da rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori; dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”. Con la precisazione che lo strumento adottivo deve trovare applicazione, in chiave estensiva, anche in riferimento ai figli legittimi nonché a coloro che non siano coniugati [3].

Orbene, i suesposti dati normativamente positivizzati sono stati oggetto, a più riprese, di valutazione da parte della giurisprudenza. Il che ha condotto all’emersione di un ampio ventaglio di posizioni, che hanno caratterizzato l’iter logico-argomentativo posto a fondamento della sentenza in commento.

Volendo essere maggiormente precisi, il Supremo Collegio ha risolto la questione di cui si dibatte soffermandosi su specifici profili, intimamente connessi tra di loro.

Dapprima, sulle osservazioni poste dalla Corte d’Appello circa l’impossibilità di conservare un rapporto tra le minori e la madre biologica; in seconda battuta, sulla mancata valutazione, da parte del giudice di secondo grado, delle indicazioni provenienti dalla CTU, disposta dalla stessa Corte territoriale e concernenti l’esigenza di mantenere o ripristinare la frequentazione della madre con le figlie minorenni.

Nel far ciò, gli Ermellini hanno posto, a supporto della propria decisione, importanti precedenti, volgendo lo sguardo alle linee indicative poste sia dai giudici di Cassazione che dalla Corte Europea dei diritti umani.

In riferimento alla prima problematica (impossibilità di preservare e/o conservare il rapporto tra figli minori e genitore/genitori), nella sentenza in commento si sottolinea come la giurisprudenza di legittimità e comunitaria abbiano avuto modo di intervenire in tema di accertamento rigoroso della situazione di abbandono che costituisce il fondamento della dichiarazione di adottabilità (cfr. artt. 7-8 L. n. 183/1984), con particolare riguardo allo schema posto dall’art. 44 Legge  n. 183/1984.

Nello specifico, partendo dalle posizioni assunte dai giudici della Cassazione, il S.C. evidenzia come gli stessi abbiano, in più occasioni e concordemente, ritenuto che “i giudizi riguardanti i diversi modelli adottivi si fondano su di un esame rigoroso della idoneità degli adottanti o del singolo richiedente”. Conclusione, quest’ultima, che ha una precisa ratio: l’adozione ex art. 44 non è solamente bigenitoriale ed altresì è tesa a preservare, a tutela dei minori, non solo lo status di figlio rispetto ad uno genitori naturali/biologici bensì anche la continuità del rapporto con il genitore [4].

Dunque, trattasi di specifici e particolari casi che vanno ad integrare lo strumento tradizionale dell’adozione legittimante o piena di un minore. Ferma restando una peculiarità che viene, tra l’altro, messa ben in evidenzia nella pronuncia in commento, la quale permette di distinguere i diversi modelli adottivi contemplativi dalla legge.

Trattasi dell’autonomia del giudizio di adozione rispetto all’accertamento giurisdizionale circa la condizione di abbandono del minore (cui si attribuisce lo status di figlio adottivo) nonché la dichiarazione di adottabilità.

Più dettagliatamente, se per un verso l’adozione tradizionalmente intesa (rectius: adozione legittimante) trova la propria ratio in uno dei possibili esiti del giudizio precedente, per altro, invece, il procedimento ex art. 44 Legge n. 184/1983 è connotato da una intrinseca autonomia. Nel senso che (in quest’ultimo caso) la dichiarazione di adottabilità e l’accertamento dello stato di abbandono non rappresentano un antecedente processuale necessario ai fini del giudizio successivo. Al contrario, i diversi e particolari modelli di filiazione adottiva (art. 44) si caratterizzano per la partecipazione dei genitori biologici del minore che devono prestare il proprio assenso, sulla base di specifiche modalità procedimentali (sancite dal secondo comma dell’art. 46).

Passando, invece, alla giurisprudenza EDU, gli aspetti posti a sostegno della decisione in esame  riguardano un duplice profilo: la sperimentazione dei modelli adottivi distanti dallo schema ordinario [5] (adozione piena e legittimante) nonché la valutazione circa lo stato di abbandono, morale e materiale, del minore posta alla base della dichiarazione di adottabilità.

Nel dettaglio, la pronuncia oggetto di disamina pone l’accento su due importanti procedimenti che hanno riguardato il nostro Paese, rispettivamente del 2014 (caso Zhou c. Italia [6]) e del 2015 (caso S.H. c. Italia).

Entrambi ritenuti focali e, come tali, posti a fondamento delle argomentazioni addotte dai giudici nella risoluzione del caso de quo. Ciò perché indirizzati a sottolineare aspetti peculiari. Ovvero, per un verso, l’importanza che le autorità statuali adottino tutte le misure concrete a garantire e preservare il legame tra il minore ed i genitori biologici/naturali; ciò anche nell’ipotesi in cui siano accertate condizioni di parziale compromissione della idoneità genitoriale sempre che non sia emersa una situazione di abbandono (morale e materiale) e la conservazione del rapporto risulti in piena sintonia con l’ interesse primario del fanciullo.

Per altro, l’ammissione di percorsi distanti dall’ordinario modello (adozione piena e/o legittimante), in quanto improntati alla genitorialità adottiva; modelli che, a detta del giudice comunitario, ben possono considerarsi compatibili con il sistema legislativo interno in tema di adozioni, con la precisazione che la loro interpretazione avvenga (anche e soprattutto) in considerazione del dato normativo di cui all’art. 8 CEDU [7], al fine di una concreta ed idonea valutazione circa una recisione definitiva dei rapporti tra minore e famiglia originaria.

Circa la seconda problematica (mancata valutazione, da parte del giudice di secondo grado, delle indicazioni riportate nella CTU, disposta dal medesimo giudice d’appello e concernenti l’esigenza di mantenere o ripristinare la relazione parentale tra la madre e le figlie minorenni), il Collegio ha inteso evidenziare l’importanza dei principi operanti in tema di diritti del minore alla conservazione del proprio nucleo genitoriale, rilevando, al riguardo, una non corretta applicazione degli stessi da parte della Corte d’Appello.

Ancor più, il Supremo Consesso ha sottolineato come lo stesso giudice territoriale, nonostante la diretta richiesta, avesse omesso l’esame delle valutazioni riportate nella consulenza tecnica d’ufficio sull’assunto che il giudizio riguardasse l’attuazione di modelli adottivi ulteriori e diversi rispetto all’adozione piena ed ordinaria.

Al riguardo, gli Ermellini hanno precisato che l’adozione legittimante opera in termini di extrema ratio laddove la sua applicazione è ancorata a situazioni in cui non sia ravvisabile alcun interesse del minore a mantenere un rapporto con la famiglia d’origine, stante la condizione di abbandono nella quale si troverebbe a vivere.

Di qui, l’assunto secondo cui la conservazione del legame genitore/figlio trova la propria ragione giustificatrice in una valutazione globale e bilanciata che tenga conto dei gravi pregiudizi derivanti da una eventuale recisione definitiva della relazione genitoriale nello sviluppo equilibrato della personalità individuale.

Soluzione del caso

Sulla scorta del suesposto quadro normativo e giurisprudenziale, i giudici di Cassazione risolvono la delicata questione accogliendo il ricorso proposto dalla madre.

In particolare, ritengono che la Corte d’Appello abbia illegittimamente trascurato le valutazioni tecniche, le quali, al contrario, devono essere una parte integrante dell’indagine di fatto, positiva o negativa, circa la ricorrenza della condizione di abbandono del fanciullo.

Omissione, quest’ultima, che gli Ermellini sottolineano a più riprese nella pronuncia in commento, precisando come, nel caso di specie, il giudice di seconde cure avrebbe dovuto procedere ad un accertamento concreto dello stato di abbandono delle minorenni nonché della idoneità degli adottanti ad assumere il ruolo di genitore, “non limitandosi ad estendere la decisione e/o pronuncia all’acquisto di status genitorial così come tratti dalla Legge n. 184/1983”.

Accertamento che, come abilmente sottolineato dalla stessa Cassazione, può assumere diversi significati a seconda del modello adottivo cui mira. Con la specificazione che ai fini della dichiarazione di adottabilità è opportuno eseguire una valutazione che tenga in debita considerazione i prevalenti diritti dei minori [8] e, in quale tale, tesa a verificare se l’interesse del minore a non recidere il rapporto con il nucleo genitoriale originario possa riteneresi prevalente o meno rispetto alle carenze delle capacità genitoriali.

Ciò per una ragione fondamentale: la dichiarazione di adottabilità è finalisticamente indirizzata a creare le basi per la successiva pronuncia di adozione piena e/o legittimante ovvero per la forma di adozione che impone la rottura definitiva di ogni legame con i genitori biologici.


1 Al riguardo, la giurisprudenza comunitaria ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 CEDU. Articolo, quest’ultimo, che si pone nell’ottica di un riavviciamento familiare, implicando il diritto per un genitore di ottenere misure atte a riunirlo con il figlio. Viene individuato, nella sentenza in commento, il caso Zhou contro Italia, ove la Corte ha rilevato che si sarebbe dovuto ricorrere all’adozione mite, non ricorrendo un acclarato caso di abbandono ed avendo la ricorrente osservato le prescrizioni impostele.

2 La situazione di semiabbandono permanente si verifica allorquando la famiglia o il genitore sia insufficiente ma riveste un ruolo positivo e attivo seppur manchino ragionevoli probabilità di miglioramento; il che determinerebbe la non possibilità a procedersi ad un affido temporaneo.

3 Annotazione che si pone in sintonia con le recenti modifiche normative intervenute sia in tema di parificazione tra figli legittimi e naturali (Legge n. 219 /2012) che in materia di convivenza more uxorio ed unioni di fatto (Legge Cirinnà).

4 Il modello adottivo consacrato dall’art. 44 della Legge n. 183/1984 esula dallo schema esclusivamente bigenitoriale ben potendo l’istanza provenire da un singolo soggetto adottante. Altresì, opera in chiave estensiva in quanto, com già sottolineato nell’articolo, è finalisticamente indirizzata alla conservazione dei rapporti familiari nonché a preservare la continuità dei rapporti tra genitori e figli. Sul punto, cfr. Cass. 12692/2016; SS.UU. n. 12193/2019.

5 Venendo qui in rilievo il bilanciamento tra l’interesse primario del minore e la recisione definitiva dei rapporti affettivi con i genitori biologici

6 Nel caso Zhou c. Italia, il giudice comunitario ha evidenziato come nel nostro sistema ricorrano e convivano differenti modelli di adozione, nonostante la mancata previsione, a livello normativo, di una qualche forma di adozione “mite” (o semplice). Una diversificazione, secondo la Corte EDU, cui ben si associano anche le diverse posizioni assunte in campo giurisprudenziale, atteso che i tribunali per i minorreni sono inclini ad interpretazioni estensive delle ipotesi di adozione in casi particolari, normativamente positivizzate ex artt. 44 e ss. della Legge n. 184/1983.

7 Art. 8 CEDU è norma tesa a difendere l’individuo da ingerenze arbitrarie proveniente dai poteri pubblici. Dispone espressamente che: “Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

8 Con rimando al disposto normativo di cui all’art. 1 della Legge n. 184/1983, il quale statuisce espressamente quanto segue: “ Il minore ha diritto di essere educato nell’ambito della propria famiglia. Tale diritto è disciplinato dalle disposizioni della presente legge e dalle altre leggi speciali”.

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