Decreto sicurezza: requisiti, applicabilità e principio di successione delle leggi nel tempo in tema di protezione umanitaria. Il risolutivo intervento delle Sezioni Unite
Il caso tra origine dall’impugnazione di un cittadino straniero della decisione assunta dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Quest’ultima, difatti, gli aveva negato il riconoscimento dello status di rifugiato e la protezione sussidiaria nonché respinto la richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Invero, il Giudice riconosceva la ricorrenza dei requisiti atti a determinare il rilascio del permesso di soggiorno umanitario sull’assunto che il richiedente presentava una posizione lavorativa regolare e, dunque, una indipendenza economica e personale tale da consentire il raggiungimento di una integrazione sociale idonea ai fini del rilascio del permesso medesimo.
Tuttavia, avverso la suddetta pronuncia interveniva il Ministero dell’Interno per ottenerne la cassazione; conseguentemente, il cittadino straniero reagiva mediante la proposizione di controricorso.
Il Collegio, stante la complessità del thema decidendum e ravvisando ragioni di disaccordo con l’orientamento precedentemente espresso in tema di limiti di applicabilità del d.l. n. 113/2018 (c.d. decreto sicurezza), domandava con ordinanza interlocutoria la cognizione della questione alle Sezioni Unite.
Risoluzione del caso che, come vedremo nei paragrafi successivi, poggia le proprie fondamenta su profili specifici e di pregnante rilevanza.
Profili di rilievo: configurabilità del permesso di soggiorno per motivi umanitari e analisi della giurisprudenza
Il primo aspetto sul quale i giudici di legittimità hanno inteso intervenire concerne il regime normativo applicabile in tema di permessi umanitari, venendo qui in rilievo il d.l. n. 113/2018, convertito nella Legge n. 132/2018.
In particolare, nella pronuncia in commento, si precisa come lo stesso legislatore abbia inteso intervenire in merito alla definizione della “protezione umanitaria” perché avvolta da un velo di incertezza. Problematicità che, ad avviso del legislatore medesimo, hanno consentito “ampi margini di interpretazione estensiva” in netto contrato con quello che è il fine sotteso alla normativa, ovvero provvedere alla “tutela temporanea di esigenze di carattere umanitario per il quale l’istituto è stato introdotto nell’ordinamento”
Pertanto, nell’ottica di una migliore definizione dell’ambito di esercizio della normativa e, dunque, ad una più accurata individuazione e valutazione delle situazioni, è stato recentemente approvato il Decreto sicurezza. Quest’ultimo ha disposto l’abrogazione della norma contenuta nell’art. 5, comma 6, del T.U. Immigrazione (D.Lgs. n. 286/1998), la quale vietava il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno allorquando ricorressero “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.
Nel dettaglio, la nuova normativa ha introdotto ipotesi nominate di titoli di soggiorno, racchiudibili in un triplice ordine:
- Permesso di soggiorno per calamità naturale, rilasciato a seguito di una situazione di contingente ed eccezionale calamità naturale che non permette il rientro in condizione di sicurezza nel Paese di origine[1];
- Permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile, con richiamo del nuovo disposto normativo di cui all’art. 42-bis del T.U. Immigrazione;
- Permesso di soggiorno per cure mediche, di cui alla lettera d-bis) dell’art. 19, comma secondo, del Testo Unico Immigrazione[2].
Ad integrazione del quadro suesposto, va precisato che sono rimaste in piedi tipologie di permesso riconducibili ad esigenze umanitarie già previste dalla precedente normativa. Il riferimento è ai permessi rilasciati in favore delle vittime di violenza domestica[3] e di sfruttamento lavorativo[4] nonché a quelli emessi in favore dei minorenni[5].
Altresì, il Legislatore ha introdotto una nuova forma di protezione speciale che funge da norma di chiusura, ponendo in tal modo un approccio differente rispetto alla pregressa normativa[6].
In proposito, merita attenzione la previsione di cui all’art. 32, terzo comma, d.lgs. n. 25/2008 a mente della quale le “Commissioni territoriali trasmettono agli atti al questore per il rilascio di un permesso annuale che reca la dicitura protezione speciale allorquando non venga accolta l’istanza di protezione internazionale ma ricorrano i requisiti sanciti dall’art. 19, commi 1 e 1.1,[7] del Testo Unico Immigrazione”.
Altresì, rispetto alla previgente regolamentazione sussistono dei profili di differenziazione concernenti la durata.
Difatti, l’abrogato art. 5 T.U. attribuiva al permesso di soggiorno rilasciato per motivi umanitari la durata di due anni, rinnovabile nonché convertibile in permesso per motivi di lavoro e per motivi familiari.
Diversamente, la nuova protezione sociale ha la durata di un anno, rinnovabile, previo parere della competente Commissione territoriale e non è convertibile in permesso di soggiorno per motivi lavorativi. Punto di distacco, quest’ultimo, che a detta dei giudici risponde ad una precisa esigenza: precludere interpretazioni estensive della protezione temporanea per ragioni umanitarie.
Ebbene il nodo problematico sorge laddove il caso sottoposto al vaglio degli Ermellini non risulta espressamente disciplinato dalla normativa atteso che il permesso è stato denegato dalla Commissione territoriale nonchè riconosciuto dal giudice in una fase anteriore all’entrata in vigore al d.l. n. 113/2018.
Di qui, il Supremo Consesso ha ritenuto necessaria una preliminare disamina dell’orientamento tradizionale nonché delle regole operanti in tema di successione delle leggi nel tempo al fine di comprendere la portata retroattiva della nuova normativa.
Più precisamente, la Cassazione ha inteso evidenziare la contraddittorietà della tesi tradizionale e maggiormente abbracciata in seno alla giurisprudenza.
Per un verso, difatti, si è ritenuto che la nuova disciplina (contenuta nel d.l. n. 113/2018) non potesse applicarsi in ordine alle domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari avanzate prima dell’entrata in vigore della nuova normativa. Ponendo a fondamento di tale argomentazione la previsione di cui all’art. 11 delle preleggi, la quale non può essere oggetto di deroghe in ragione di cambiamenti legati allo ius sopravvenuto.
Per altro verso, invece, sottolinea come, dopo aver negato l’applicabilità ai giudizi in itinere del diritto sopravvenuto, la giurisprudenza precedente abbia finito comunque per ritenerlo applicabile al nomen e alla durata del permesso da rilasciare.
Un evidente contrasto, dunque, che ha portato a problematiche interpretative in relazione alla retroattività della nuova disciplina (e non già in merito all’applicabilità immediata della stessa).
Pertanto, nell’intento di fornire una soluzione al caso in oggetto, le Sezioni Unite partono dalla disamina del principio generale di irretroattività, espressamente sancito dall’art. 11 delle preleggi.
In proposito affermano che esso è finalisticamente inteso a tutelare diritti e non fatti, in quanto ciò che il divieto di retroattività intende tutelare è “il divieto di modificazione della rilevanza giuridica dei fatti che già si siano compiutamente verificati (nel caso di fattispecie istantanea) o di una fattispecie non ancora esauritasi (nel caso di fattispecie durevole non completata all’epoca dell’abrogazione)”.
Di guisa, la normativa abrogata non è da considerarsi totalmente inefficace atteso che la sua applicazione può aversi con riguardo ai fatti verificatisi anteriormente all’abrogazione.
Infine, intervenendo in tema di riconoscimento di una misura di protezione umanitaria, i giudici sottolineano come si tratti di un accertamento avente natura dichiarativa in quanto non incide sull’insorgenza del diritto e non nasce per effetto dello svolgimento del procedimento.
Più precisamente, statuiscono che: “la verifica dell’attualità delle condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno non è espressione della natura costitutiva dell’accertamento bensì dell’estensione dei poteri di accetamento”. Pertanto, al tempo della decisione devono ricorrere i “presupposti di fatto per l’accoglimento dell’istanza, ovvero deve risultare la fondatezza di essa”, con l’ulteriore precisazione che ad essere salvaguardato è, in virtù del principio di irretroattività, “il diritto che la rilevanza giuridica di tali fatti risponda alle norme previgenti”.
Dunque, il procedimento amministrativo è sicuramente un atto fondamentale ma è, al contempo, espressione di un’attività vincolata e, come tale, ricognitiva della ricorrenza dei presupposti sanciti ex lege[8].
Il requisito dell’integrazione sociale in tema di permessi umanitari
Il secondo aspetto analizzato nella sentenza in commento riguarda il rilievo assunto dal grado di integrazione sociale del soggetto richiedente il permesso di soggiorno “per seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”.
In tal caso, la Cassazione ha inteso condividere il pregresso orientamento giurisprudenziale che ha attribuito un ruolo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione oggettiva e soggettiva del richiedente nel paese di origine.
Ciò con una precisa finalità: verificare se il rimpatrio possa causare una compressione e/o privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti e, dunque, di quel bagaglio ineliminabile e ineluttabile che fa parte dei diritti fondamentali dell’uomo[9].
I principi di diritto posti a risoluzione della vexata quaestio
Alla luce delle suesposte argomentazioni, le Sezioni Unite ritengono meritevole di accoglimento il ricorso presentato dal Ministro dell’Interno, procedendo così alla formulazione dei seguenti principi di diritti.
In primo luogo, statuiscono che: “in tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile”.
Di qui la conclusione per cui: “la normativa introdotta con il d.l. n. 113/2018, convertito con la Legge n. 132/2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dall’art. 5, comma 6, del T.U. Immigrazione e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore della nuova legge. Tali domande, pertanto, saranno scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione, ma, in tali ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del d.l. n. 113/2018 comporterà il rilascio del permesso di soggiorno per “casi speciali” sancito dall’art. 1, comma 9, del suesposto decreto legge”.
Riguardo alla seconda problematica, poi, come già evidenziato nel paragrafo precedente, sottolineano l’importanza che riveste, in tema di protezione umanitaria, la valutazione comparativa tra la situazione oggettiva e soggettiva dell’istante in riferimento al paese di origine ed il grado di integrazione sociale raggiunto nel territorio di accoglienza. Ciò in virtù dell’orizzontalità dei diritti umani fondamentali.
[1] Cfr. at. 20-bis D.Lsgs. n. 286/1998.
[2] Art. 19, secondo comma, T.U. Imm. Inerisce a: “stranieri che versano in condizioni di salute di particolare gravità, accertate mediante idonea documentazione, tali da non consentire di eseguire il provvedimento di espulsione senza arrecare un irreparabile pregiudizio alla salute degli stessi”.
[3] Cfr. art. 18-bis T.U. Immigrazione.
[4] Cfr. art. 22. Comma 12-quater, del T.U. Immigrazione.
[5] Cfr. art. 28, lettere a-b, D.P.R. n. 394/1999 e art. 31 T.U. Immigrazione.
[6] La normativa pregressa era fondata sul catalogo dei seri motivi ex art. 5, sesto comma, T.U. Immigrazione.
[7] Art. 19, primo comma, T.U. Imm.: “In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.
Art. 19, comma 1.1., T.U. Imm.: “ Non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani”.
[8] Tesi consolidata in seno alla giurisprudenza di legittimità, come confermato da Cass. SS.UU., n. 2442/2019; Cass. nn. 32778, 32777, 32776, 32775, 32774 del 2018; Cass. n.. 30758, 30757 del 2018; Cass. n. 30658/2018. Nello specifico, viene statuito che la situazione giuridica soggettiva dello straniero nei confronti del quale sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali previsti dagli artt. 2 Costituzione e 3 della CEDU. Pertanto, non può considerarsi alla stregua di interesse legittimo per effetto di valutazioni compiute e affidate all’amministrazione; è richiesto, difatti, che la P.A. proceda all’accertamento dei requisiti di fatto che consentono la ricorrenza della protezione umanitaria, atteso che il contemperamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate è riservato al legislatore.
[9] Cfr. Cass. 23 febbraio n. 4455/2018 cui sono seguite Cass. n. 11110/2019 e n. 12082/2019