Con una recente pronuncia, sovvertendo, drasticamente, l’andamento decisionale della giurisprudenza di merito e di legittimità, la Suprema Corte, con la sentenza n. 12230/2016 del 5 aprile 2016, ha espressamente affermato: “Secondo la più recente e consolidata giurisprudenza di legittimità il decreto di espropriazione è idoneo non solo a far acquisire la proprietà del bene, ma pure a fare venire meno qualsiasi situazione, di diritto o di fatto, con essa incompatibile“.
A ciò consegue che, benchè il precedente proprietario, o un soggetto diverso, continuino ad esercitare sulla cosa delle attività corrispondenti all’esercizio del diritto di proprietà, la notifica di detto decreto comporta la perdita dell’animus possidendi, con la conseguenza che chi voglia usucapire la cosa deve, perché sia configurabile di nuovo un possesso ad usucapionem, compiere un interversio possessionis (Cfr. Cass., Sez I, n.6742 del 21 marzo 2014, Rv. 630046; Cass., Sez I, n. 13669 del 11 giugno 2007, Rv. 597367).
L’orientamento della Cassazione
Questo orientamento ha superato quello più risalente […] il quale non tiene conto che l’acquisto della proprietà da parte dell’espropriante o del beneficiario dell’espropriazione, avviene a titolo originario.
La pienezza della proprietà è infatti dovuta all’esigenza di disporre del bene al fine di realizzarvi un’opera pubblica utilità, per cui “la res transita nel patrimonio indisponibile dell’ente, almeno per tutto il tempo necessario al compimento dei lavori per la realizzazione”.
Il possesso ad usucapionem
Orbene, secondo la recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, ai fini della configurabilità di un possesso ad usucapionem è necessaria la sussistenza di un comportamento continuo e non interrotto che dimostri inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il potere corrispondente a quello del proprietario o del titolare di altro diritto reale sulla res, per tutto il tempo necessario ad usucapirla.
Occorre, in altre parole, che il possessore manifesti la signoria sulla cosa costantemente con il compimento di puntuali atti di possesso tali da rivelare, in modo indiscusso e pieno, l’esercizio del proprio potere di fatto contrapposto all’inerzia del proprietario sia per quanto riguarda l’animus possidendi che il corpus possessionis (Cfr. Cass. n. 9062/2012; n. 8662/2010; 10652/1994).
In effetti, nella fattispecie investita dalla sentenza sopra citata – ovvero l’emissione del decreto di espropriazione per pubblica utilità da parte della Pubblica Amministrazione – appare utile richiamare in primo luogo la disposizione ex art. 1140 c.c. secondo la quale: “Il possesso è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Si può possedere direttamente o per mezzo di altra persona, che ha la detenzione della cosa”.
Per potersi configurare l’istituto de quo, rileva pertanto la presenza di due presupposti essenziali:
- il c.d. “corpus possessionis”, ossia il potere materiale di fatto esercitato sul bene (elemento oggettivo);
- il c.d. “animus possidendi”, ossia l’elemento psicologico che si concreta nell’intenzione del soggetto di esercitare sul bene i poteri del proprietario o del titolare di altro diritto reale (elemento soggettivo)
Tale situazione si distingue nettamente dalla detenzione, la quale viceversa si caratterizza per il riconoscimento dell’altruità della proprietà o di altro diritto reale.
Il principale carattere differenziale tra le due situazioni materiali di dominio è, pertanto, l’elemento psicologico: a differenza dello stato soggettivo che caratterizza il possesso, il quale presuppone la volontà di comportarsi come titolari del diritto di proprietà o di altro diritto reale (c.d. animus possessionis), nella detenzione tale requisito è carente poiché si presuppone l’altruità del diritto di proprietà o di altro diritto reale minore, e si parla al contrario di “animus detinendi”. (V. TorrenteSchlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, p. 300ss.).
L’effetto principe del possesso è costituito dall’usucapione, disciplinato ex art. 1158 c.c. consistente nell’acquisto a titolo originario della proprietà mediante il possesso continuato del bene immobile o mobile per un periodo determinato dalla legge.
Orbene, l’acquisto della proprietà per usucapione si realizza ope legis per il solo fatto del possesso continuato per venti anni purché, tale possesso, abbia determinati requisiti, quali:
- deve trattarsi di un possesso continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico e deve comunque trattarsi di possesso e non di detenzione;
- deve trattarsi di un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale;
- occorre che il possesso si protragga ininterrottamente per venti anni e che sia accompagnato dall’intenzione di esercitare un potere sulla cosa.
Il decorso del tempo ha inizio con l’acquisto del possesso, che permette di individuare con certezza l’acquisto dell’animus e del corpus.
L’istituto dell’interversio possesionis
Appare opportuno, altresì, soffermarsi sull’istituto dell’interversio possesionis.
L’interversio è un atto recettizio e può assumere rilevanza in quanto abbia luogo “in contraddittorio” con il titolare del diritto di proprietà; in ogni caso, comunque, questi deve averne avuto “formalmente” conoscenza; più precisamente, l’atto d’interversione deve manifestare inequivocabilmente l’intenzione di esercitare il possesso per conto e in nome proprio (Cass. civ., Sez. II, n. 12820 del 12/7/2004).
L’interversione del possesso si specifica proprio in relazione all’eventuale mutamento del possesso che il titolare pretende essere intervenuto. In particolare, l’art. 1164 c.c, vale proprio ad impedire che colui il quale risulta essere titolare di un diritto reale minore su cosa altrui, possa usucapire la proprietà del bene in difetto di determinati presupposti. (Sacco, Il possesso, in Tratt.dir.civ. e comm., Milano, 1988, p. 181).
Con specifico riguardo alla valutazione, ai fini dell’interversione, degli atti materiali compiuti dal detentore, è stato precisato che è idoneo “un atto giudiziale o stragiudiziale che renda noto in termini inequivoci, a colui per conto del quale la cosa è detenuta contestandone il diritto, l’intenzione di tenere la cosa come propria, il che non è certamente ravvisabile in un puro e semplice comportamento materiale non accompagnato da atti o fatti che rendano chiaramente riconoscibile all’avente diritto detta intenzione” (Cass. civ., n. 2599 del 25/5/1997; conformi, Cass. civ., n. 1802 del 18/2/1995; n. 125669 del 18/12/1993; n. 6906 del 4/6/1992).
La notifica del decreto di espropriazione e l’animus possidendi
Ebbene, in base a quanto statuito dalla pronuncia in esame, si può evincere che la persona, che si trovi in relazione con la cosa all’epoca della notifica del decreto di espropriazione, acquista la consapevolezza della sua alienità e dell’impossibilità di farne uso come se fosse propria, anche se ne resti provvisoriamente nella disponibilità materiale.
A tal riguardo, non sono sufficienti quei meri atti di gestione consentiti dal proprietario, ovvero atti tollerati dallo stesso titolare del diritto dominicale, in quanto idonei, esclusivamente, al solo soddisfacimento degli obblighi in capo al privato o all’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa.