Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi (Sezioni Unite)

in Giuricivile, 2021, 1 (ISSN 2532-201X), nota a Cass., SS. UU. civ., sent. n. 25369 del 11.11.2020

Ai direttori generali (nonché dei direttori sanitari e direttori amministrativi) degli Enti del Servizio Sanitario Nazionale si applica la normativa vigente in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi ex art. 53 Decreto Legislativo n. 165/2001? La questione particolarmente controversa è stata definitivamente chiarita dalle Sezioni Unite.

Fatti di causa

La questione oggetto di esame riguarda il conferimento e l’accettazione dell’incarico di Presidente del Consiglio di Amministrazione di una Cassa di Risparmio da parte di un soggetto già Direttore generale di una AUSL. Nomina, quest’ultima, avvenuta in assenza della previa autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza dello stesso.

Alla suesposta circostanza fattuale consegue l’intimazione, da parte dell’Agenzia delle Entrate, del pagamento di una somma di denaro, a titolo di sanzione amministrativa, per violazione del disposto di cui all’art. 53, commi 9 e 11, del decreto legislativo n. 165 del 2001.

Di qui, la Cassa di Risparmio propone opposizione avverso l’ordinanza-ingiunzione e la relativa cartella di pagamento. Opposizione respinta dapprima dal Tribunale adito e, successivamente, in secondo grado, dal Giudice territorialmente competente.

Nel dettaglio, la Corte d’Appello, aderendo in pieno alla decisione di primo grado, motiva il rigetto sulla scorta di specifiche e dettagliate argomentazioni.

In primo luogo, se per un verso tiene a precisare che il rapporto di lavoro incardinato con il direttore generale delle unità sanitarie locali e aziende ospedaliere trova la propria regolamentazione nel contratto di diritto privato (come da articoli 3 e 3-bis decreto legislativo n. 502 del 1992), per altro non manca di evidenziare come la nomina origi pur sempre da un iter procedimentale di natura amministrativa.

In seconda battuta, poi, rileva la violazione dell’obbligo di esclusiva da parte del direttore generale, riportando, sul punto, un precedente giudiziario riguardante il medesimo soggetto, svoltosi innanzi alla Corte dei Conti e conclusosi con una condanna per danno erariale.

Altresì, il Giudice di seconde cure rileva che il rapporto di lavoro del direttore generale è soggetto alla medesima disciplina tesa a regolamentare i rapporti incardinati presso le amministrazioni pubbliche. Con la conseguenza che anche il regime previdenziale e retributivo deve intendersi assimilato a quello sancito per i pubblici dipendenti. A nulla rilevando che il soggetto al tempo della nomina a direttore generale dell’AUSL fosse un dipendente pubblico in quiescenza.

La suddetta statuizione, tuttavia, viene ad essere impugnata innanzi alla Cassazione cui segue deposito di controricorso a cura della parte resistente, qual è l’Agenzia delle Entrate.

I motivi di ricorso

Nello specifico, il ricorso risulta ancorato a due ordini di motivazioni.

Con la prima doglianza, si rileva la violazione e/o errata applicazione delle seguenti disposizioni: articoli 1, 2 e 53 del decreto legislativo n. 165/2001, articolo 6 della Legge n. 97 del 1997, articoli 3 e 3-bis del decreto legislativo n. 502 del 1992 nonché del DPCM n. 502 del 1995.

Previsioni normative che, secondo il ricorrente, troverebbero applicazione solo in riferimento ai rapporti pubblici di natura subordinata a tempo pieno e non già in riferimento a quelli aventi carattere subordinato part-time o non dipendenti presso le amministrazioni pubbliche. Rientrando, in quest’ultima categoria, anche le collaborazioni a carattere continuativo e coordinato nonché i rapporti libero-professionali, qual è la qualifica di direttore generale di una AUSL.

Il secondo motivo, invece, concerne la violazione e/o errata applicazione dell’articolo 1 Legge n. 689 del 1981, degli articoli 1, 2 e 53 del decreto legislativo n. 165 del 2001, dell’articolo 6 del decreto legge n. 79 del 1997, degli articoli 3 e 3-bis del decreto legislativo n. 502 del 1992 e del DPCM n. 502 del 1995, per avere il giudice territoriale parificato, in termini disciplina normativa, il rapporto di lavoro del direttore generale della AUSL con quello dei dipendenti di una P.A..

A supporto della propria posizione, inoltre, la parte ricorrente evidenzia che l’esclusività connotante il rapporto di cui all’art. 3-bis, comma ottavo, del decreto legislativo n. 502 del 1992 assume rilievo per motivazioni diverse da quelle che hanno determinato l’irrogazione della sanzione pecuniaria nei confronti del soggetto coinvolto. Rilevando che questi era andato in pensione come pubblico dipendente in una fase temporale precedente rispetto alla nomina di Presidente del Consiglio di amministrazione all’interno della Cassa di Risparmio.

Come vedremo il ricorso viene deciso dalle Sezioni Unite, trattandosi di questione di particolare importanza in quanto riguardante la determinazione della natura del rapporto di lavoro del direttore generale delle AUSL e, conseguentemente, la definizione della normativa applicabile e/o estensibile allo stesso.

Difatti, il Supremo Consesso è stato chiamato a sciogliere un nodo interpretativo alquanto articolato, ovvero se sia tale figura assoggettabile o meno alla disciplina prevista per i dipendenti pubblici.

Più precisamente, alla normativa operante in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi, (ex art. 53 del decreto legislativo n. 165 del 200), con specifico riferimento all’obbligo per gli enti pubblici economici e per i privati di ottenere previamente l’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza per il conferimento di incarichi retribuiti a pubblici dipendenti (ex art. 53, comma 9, del decreto legislativo n. 165 del 2001).

Riferimenti normativi

Diversi sono i riferimenti normativi che vengono richiamati nella sentenza in commento al fine precipuo di porre una risposta al quesito posto.

Il Decreto Legislativo n. 39 del 2013

Partiamo dal Decreto Legislativo n. 39 del 2013[1], il cui merito è quello di aver consolidato la già previgente normativa (decreto legislativo n. 165/2001, art. 53) operante in materia di rispetto delle norme sulla inconferibilità ed incompatibilità degli incarichi.

Nello specifico, è stata introdotta una rigorosa misura sanzionatoria interdittiva per le amministrazioni che abbiano conferito incarichi a soggetti che si trovino in condizione di incompatibilità o similari.

La ratio va ricercata essenzialmente nella finalità cui mirano le disposizioni cristallizzate nel decreto: dare concreta ed effettiva attuazione alle previsioni di derivazione costituzionale, quali gli articoli 54 e 97 della Costituzione[2].

Ancora, sulla medesima scia e a completamento di quanto detto, si pongono gli articoli 17, 19 e 20, comma secondo, dello stesso decreto n. 39 del 2013.

Difatti, l’articolo 17 sancisce la nullità degli atti di conferimento che siano adottati in spregio alle disposizioni presenti nel decreto e nei contratti.

L’articolo 19 statuisce espressamente la decadenza dell’incarico e la risoluzione del contratto di lavoro, subordinato o autonomo, allorquando lo svolgimento dell’incarico avvenga al ricorrere di una delle situazioni di incompatibilità normativamente previste e sia decorso il termine perentorio di giorni quindici dalla contestazione all’interessato, a cura del responsabile, della causa di incompatibilità.

L’articolo 20, al secondo comma, infine, richiede che sia il soggetto interessato, nel corso dell’incarico, a presentare con cadenza annuale una dichiarazione circa l’insussistenza di una delle cause di incompatibilità[3].

Il Testo Unico sul Pubblico Impiego (Decreto Legislativo n. 165 del 2001)

Seconda fonte normativa che merita sicuramente attenzione nell’ambito della questione trattata è il Testo Unico sul Pubblico Impiego, ovvero il Decreto Legislativo n. 165 del 2001.

E proprio con riferimento alle previsioni in esso positivizzate assumono un ruolo centrale l’articolo 3 nonché l’articolo 53.

La disposizione di cui all’articolo 3 risulta inserita nel Titolo I deputato alla regolamentazione dei principi generali nonché rubricata “Personale in regime di diritto pubblico”.

In particolare dalla suddetta norma si evince l’intenzione, da parte del Legislatore, di sposare una tesi ampliativa nel senso di ritenere assoggettati al regime pubblicistico i dipendenti il cui rapporto sia stato fonte di apposito contratto, i dipendenti rimasti in regime di diritto pubblico ed i lavoratori professionali con rapporto a tempo determinato o part-time al di sopra di determinati limiti. Dovendosi ricomprendere in tale disciplina anche chi è legato all’amministrazione pubblica da contratto di diritto privato di natura autonoma[4].

Altresì, come già sopra anticipato, vi è da considerare l’art. 53 propriamente intitolato “Incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi”. Rilevando, in riferimento alla questione trattata, il primo, secondo, nono ed undicesimo comma.

In base a quanto stabilito dal comma 1 dell’art. 53 T.U.P.I. trovano applicazione nei riguardi di tutti i dipendenti le disposizioni di cui agli articoli 60 e ss. del Testo Unico n. 3 del 1957[5], la normativa operante in materia di rapporti a tempo parziale[6] nonché talune discipline settoriali intervenute in tema di incompatibilità[7].

Il successivo comma[8], inoltre, prevede che “le amministrazioni pubbliche non possono conferire ai propri dipendenti incarichi, non ricompresi nei compiti e doveri d’ufficio, che non siano previsti da legge o altre norme e che non siano oggetto di espressa autorizzazione”.

Ben collocandosi in tale prospettiva il comma 9 dell’art. 53, laddove fornisce una integrazione fondamentale al quadro normativo sinora esposto.

Dalla lettura di quest’ultimo dato, infatti, si evince che gli enti pubblici economici e i soggettivi privati sono tenuti a conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici solo “previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi”. Di guisa che la violazione del suddetto disposto comporta l’applicazione di una misura sanzionatoria, così come descritta e prevista dall’articolo 6 del decreto legge n. 79 del 1997, coordinato con la Legge di conversione n. 140/1997 e successive modifiche ed integrazioni[9].

Il Decreto legislativo n. 502 del 1992

In terza analisi, occorre volgere l’attenzione al Decreto legislativo n. 502 del 1992, con il quale il Legislatore ha proceduto ad una riorganizzazione della disciplina sanitaria, in attuazione del disposto di cui all’articolo 1 della Legge 412 del 1992.

Da tenere in debita considerazione sono gli artt. 3 e 3-bis, il cui merito è quello di aver fornito una specifica regolamentazione in ordine alle figure di direzione degli Enti del Servizio sanitario nazionale.

Difatti, a mente dell’articolo 3 il direttore generale delle AUSL è espressamente qualificato come “organo dell’azienda sanitaria locale coadiuvato, nell’espletamento delle proprie funzioni, dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario[10]”; con l’ulteriore specificazione che su di esso ricade la “responsabilità della gestione complessiva” nonché il compito di procedere alla “nomina dei responsabili delle strutture operative dell’azienda” (articolo 3, comma 1-quater).

Il successivo articolo 3-bis regolamenta, invece, le modalità di selezione e nomina nonché i requisiti necessari in rapporto alle figure del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario. Precisandone, inoltre, diritti, cause di incompatibilità e relativa regolamentazione contrattuale.

Profili, questi ultimi, che interessano particolarmente ai fini della risoluzione della vexata quaestio e che il Supremo Consesso ha accuratamente riportato nella sentenza oggetto di commento.

Le modifiche apportate dal D.L. n. 158/2012 e dal D.Lgs. n. 171/2016

Partendo dalla procedura di nomina vi è da sottolineare che l’articolo 3-bis D.Lgs. n. 502 del 1992 è stato oggetto di una progressiva evoluzione legislativa grazie alle modifiche apportate dapprima dal D.L. n. 158/2012, convertito poi nella Legge n. 189/2012 e, più di recente, dal D.Lgs. n. 171/2016.

  • Il decreto legge n. 158 cit. ha previsto la “formazione di appositi elenchi regionali, periodicamente aggiornati, in cui inserire soggetti idonei alla nomina di direttore generale, da cui poter poi attingere i candidati, previo avviso pubblico e selezione eseguita da una Commissione costituita in prevalenza da esperti indicati da qualificate istituzioni scientifiche. Con la specifica indicazione dei requisiti che consentono l’accesso alla procedura di selezione” (cfr. articolo 4 del d.l. n. 158/2012).
  • A completare l’impianto normativamente sancito non è mancato un secondo intervento legislativo, come già sopra anticipato. Ovvero il Decreto Legislativo n. 171 del 2016, il cui articolo 1 al primo comma prevede che sia formato: “un elenco nazionale dei soggetti idonei alla nomina di direttore generale delle aziende sanitarie locali, delle aziende ospedaliere e degli altri enti del Servizio sanitario nazionale, aggiornato con cadenza biennale.

Aggiungendosi che “la valutazione viene eseguita da una apposita Commissione nazionale, previa pubblicazione di avviso pubblico di selezione per titoli e fermo restando il possesso dei requisiti richiesti” (cfr. comma 3 e seguenti dell’articolo 1 D.Lgs. n. 171/2016).

A seguire, il secondo comma interviene in chiave integrativa ponendo ulteriori disposizioni circa il conferimento degli incarichi di direttore generale.

Nel dettaglio, attribuisce una posizione di centralità alle Regioni stabilendo che queste ultime sono tenute a nominare direttori generali solo coloro che risultino iscritti nell’elenco nazionale dei direttori generali (ex articolo 1). Attribuendosi ad una commissione regionale (composta da soggetti esperti e adeguatamente qualificati che non si trovino in situazioni di conflitto di interesse) la valutazione dei candidati per titoli e colloquio. Quest’ultima, inoltre, è tenuta a proporre al Presidente della Regione una rosa di candidati, non inferiore a tre e non superiore a cinque, nell’ambito della quale viene scelto colui che presenta i requisiti maggiormente in linea con le caratteristiche dell’incarico da ricoprire. Infine, il secondo comma dell’art. 2 cit. richiede espressamente che il provvedimento di nomina, conferma o di revoca del direttore generale sia motivato nonché pubblicato sul sito istituzionale della Regione e delle aziende o enti interessati, unitamente al curriculum del candidato scelto e dei curricula degli ulteriori candidati inseriti nella rosa.

Ancora, sempre in riferimento all’art. 3-bis del decreto legislativo n. 502/1992 meritano di essere analizzati i commi 8, 10, 14 e 15, stante l’aderenza alla problematica di cui si dibatte.

Il comma ottavo definisce la posizione lavorativa assunta dal direttore generale, dal direttore amministrativo e dal direttore sanitario come “esclusiva”, specificando che la stessa è regolamentata da contratto di diritto privato, nel rispetto delle disposizioni presenti nel titolo terzo del Libro V del codice civile. Inoltre, è previsto che la durata di tale rapporto lavorativo non deve essere inferiore ai tre anni e non superiore ai cinque anni ovvero che è rinnovabile.

Il comma decimo[11] interviene sul tema della incompatibilità sancendo che: “La carica di direttore generale è incompatibile con la sussistenza di altro rapporto di lavoro, sia esso dipendente che autonomo”.

Il quattordicesimo comma, poi, rinvia alla disciplina dettata dal decreto legislativo n. 29 del 3 febbraio 1993 e, dunque, all’attuale Testo Unico sul Pubblico Impiego (rectius: D.Lgs. n. 165/2001).

Ed in conclusione il successivo comma 15 concerne i limiti di prorogabilità dei contratti con i direttori generali in carica. Non a caso, statuisce espressamente quanto segue: “In sede di prima applicazione, le regioni possono disporre la proroga dei contratti con i direttori generali in carica all’atto dell’entrata in vigore del presente decreto per un periodo massimo di dodici mesi”. In chiusura, merita di essere menzionato l’art. 63 del T.U.P.I. quale norma che interviene in tema di riparto giurisdizionale delle controversie in materia di lavoro. In base ad esso sono devolute, in via generale, al giudice ordinario, in funzione del giudice di lavoro, le liti relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, ivi incluse quelle riguardanti l’assunzione, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale nonché quelle inerenti le indennità di fine rapporto. Non mancando, tuttavia, delle eccezioni a tale criterio di ripartizione giurisdizionale[12].Deroga che, invero, si rinviene nel comma quarto dello stesso articolo 63, secondo cui sono devolute alla giurisdizione del G.A. le controversie in tema di procedure concorsuali per l’assunzione dei pubblici dipendenti nonché, alla giurisdizione esclusiva del G.A., quelle concernenti i rapporti di lavoro ex articolo 3 del D.Lgs. n. 165/2001[13], ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi.

Un breve excursus del quadro giurisprudenziale

Di indubbia rilevanza sono anche i riferimenti giurisprudenziali che la Cassazione pone a sostegno delle proprie argomentazioni logico-giuridiche, al fine di dare una risposta al primo e secondo motivo di ricorso.

In proposito, i giudici di legittimità ritengono prive di ammissibilità entrambe le doglianze dedotte dal ricorrente e nel motivarne il rigetto riprendono importanti precedenti.

In riferimento all’operatività del disposto normativo di cui all’art. 53 del decreto legislativo n. 165/2001 (commi 1, 2, e 9), gli Ermellini rilevano come costanti orientamenti abbiano inteso evidenziare la ratio che la contraddistingue. Ritengono, infatti, che si tratti di una normativa finalisticamente indirizzata a garantire l’esclusività del rapporto di impiego pubblico, in aderenza ai dettami di rilievo costituzionale (artt. 97-98 Costituzione).

Pertanto, il fine che connota la norma in oggetto, a detta della giurisprudenza, è rappresentato dall’evitare condizionamenti nei riguardi di coloro che svolgono attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione pubblica; condizionamenti che potrebbero avere originare nell’ipotesi di espletamento di ulteriori e diverse attività rispetto a quelle svolte presso l’amministrazione di appartenenza[14].

Di qui, è andata profilandosi una chiave di lettura estensiva secondo cui la disposizione de qua trova applicazione con riferimento a situazioni connotate dallo svolgimento di compiti/attribuzioni svolte in qualità di agente della Pubblica Amministrazione, sulla base di un rapporto di lavoro instaurato con l’ente pubblico[15].

Posizione ampliativa, quest’ultima, che è stata confermata anche da pronunce recentissime, avendo riconosciuto all’articolo 53 del Testo Unico sul Pubblico Impiego un vasto ambito di applicazione; il che ne rende ammissibile una estensione applicativa anche nei confronti di soggetti legati alla Pubblica Amministrazione da un contratto di diritto privato di natura autonoma. Situazione, quest’ultima, che ben si profila nell’ipotesi di nomina di un direttore generale di un ente sanitario[16].

Sempre in considerazione del citato articolo 53, i giudici si soffermano poi sulla regolamentazione posta dal comma 9, a mente del quale il conferimento di incarichi retribuiti a pubblici dipendenti può avvenire solo “previa autorizzazione dell’Amministrazione di appartenenza”.

In particolare, sottolineano che la mancata osservanza del suddetto disposto normativo è da qualificarsi in termini di violazione formale, non sanabile da autorizzazione successiva al conferimento[17]. Ancor più che la norma fa riferimento espresso ad una “previa autorizzazione” dell’incarico (Cfr. Cassazione n. 11811 del 2020, Cass. n. 12626 del 2020; Cass. n. 9289 del 2020; Cass. n. 25752 del 2016).

Relativamente alla fonte normativa rappresentata dal decreto legislativo n. 502 del 30 dicembre 1992, i giudici di legittimità pongono l’accento sulle posizioni riguardanti la disciplina posta, rispettivamente, dall’articolo 3 nonché dall’articolo 3-bis.

Per un verso, intervengono sulla natura e qualificazione del direttore generale di una AUSL sancendo come lo stesso operi in qualità di “legale rappresentante dell’Ente medesimo, rivestendo, pertanto, il ruolo di destinatario della funzione di garanzia dell’osservanza e corretta applicazione delle norme, legali e contrattuali, disciplinanti i rapporti di lavoro degli addetti[18]”.

Ponendo ad integrazione di tale ragionamento pronunce della Corte Costituzionale. Infatti, il Giudice delle Leggi ha avuto modo, a più riprese, di precisare come le norme operanti in tema di dirigenza sanitaria siano dirette a qualificare il ruolo di dirigenti nonché a ridurre l’ambito di discrezionalità politica. Ciò al fine di meglio salvaguardare i principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione pubblica, costituzionalmente previsti[19].

Per altro verso, poi, la Cassazione tiene a precisare, in linea con quanto positivizzato nell’articolo 3-bis, che l’incarico assunto dal direttore generale, dal direttore amministrativo o dal direttore sanitario è connotato dal carattere dell’esclusività nonché regolamentato dalla contrattualistica di natura privata. Con conseguente rinvio alla disciplina civilistica[20].

Infine, in merito ai criteri di ripartizione della competenza giurisdizionale e tenuto conto della materia oggetto di disamina, i giudici pongono a sostegno del proprio iter logico-argomentativo argomentazioni condivise anche nell’ampio panorama della giurisprudenza amministrativa.

Nello specifico, evidenziano come la lite riguardante l’atto di investitura del direttore generale di un Ente del Servizio sanitario nazionale non possa ricondursi nell’alveo dell’articolo 63 del decreto legislativo n. 165 del 2001 e dei principi in esso contemplati. Il che sta a significare che per le controversie riguardanti il rapporto di lavoro del direttore generale la giurisdizione spetta all’autorità giurisdizionale ordinaria, nel rispetto del regime generale[21]. 

Soluzione e principio di diritto

Il Supremo Consesso rigetta il ricorso aderendo, in tal modo, alla soluzione offerta dai giudici di primo e secondo grado.

Più dettagliatamente, i giudici di Cassazione risolvono la vexata questione sancendo il seguente principio di diritto: “ai direttori generali (nonché dei direttori sanitari e direttori amministrativi) degli Enti del Servizio Sanitario Nazionale si applica la normativa vigente in tema di incompatibilità, cumulo di impieghi e incarichi ex art. 53 Decreto Legislativo n. 165/2001”.

Precisando, inoltre, che non assume rilevanza alcuna la circostanza che il rapporto di lavoro del direttore generale di un ente sanitario sia di natura autonoma nonché regolamentato da un contratto di diritto privato, essendo la suddetta normativa connotata dai caratteri dell’imperatività ed inderogabilità.

Diversamente ciò che rileva è lo svolgimento di compiti e/o attribuzioni svolte in veste di “agente dell’amministrazione pubblica”; svolgimento da cui, come rilevano gli stessi Ermellini, discende il rispetto di un fondamentale dovere normativamente prescritto, qual è l’obbligo di esclusività del rapporto con l’amministrazione pubblica.


[1]Più specificamente, con il decreto legislativo n. 39/2013 è stato rafforzato il nucleo normativo in tema di incompatibilità, con particolare riguardo agli incarichi dirigenziali e di responsabilità amministrativa di vertice nelle amministrazioni pubbliche, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato in controllo pubblico.

Ancor più, nella pronuncia oggetto di analisi viene posto l’accento anche su un ulteriore fonte normativa propriamente rappresentata dal D.P.R. n. 62 del 16 aprile 2013. Ciò in quanto è grazie ad esso che si è assistito all’emanazione del Codice di comportamento dei dipendenti pubblici nonché dei Codici di comportamento delle singole Amministrazioni, in attuazione dell’art. 54 del D.Lgs. n. 165/2001, da ultimo oggetto di sostituzione a cura della Legge n. 190 del 2012, quale normativa finalisticamente diretta a prevenire e reprimere la corruzione e l’illegalità nell’amministrazione pubblica. Precisandosi che ulteriori modifiche, anch’esse stringenti, sono stata apportate per mano del decreto legislativo n. 75 del 2017. Disciplina, quest’ultima, intervenuta con riguardo agli incarichi conferiti in una fase successiva al 10 gennaio 2018.

[2]Articolo 54 della Costituzione prevede espressamente quanto segue: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.

L’articolo 97 Cost., invece, prevede che: “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico. I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge”.

[3] Ad integrazione, rilevano gli articoli 15, 16 e 18 del citato decreto n. 39, dalla cui disamina si evince che in la mancata presentazione della dichiarazione annualmente prescritta fa sì che l’Ente (presso cui è incardinato il soggetto) possa eseguire un accertamento autonomo circa la sussistenza o meno di cause di incompatibilità; diversamente, potrebbe trovare applicazione una sanzione interdittiva.

[4] Pertanto, come specificatamente sottolineato anche dagli stessi giudici di legittimità nella sentenza in commento, la ratio legis va ricercata essenzialmente nel dare rilievo non già alla natura o al titolo sul quale si fonda l’attività lavorativa bensì sull’inquadramento della medesima all’interno dell’organizzazione pubblica, con richiamo doveroso di due importanti pilastri normativi di derivazione costituzionale: l’art. 97 e l’art. 98.

[5]Si tratta del Testo Unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, approvato con D,P,R, 10 gennaio 1957 n. 3. Gli articoli 60 e seguenti sono sistematicamente collocati nel Titolo V, disciplinante l’incompatibilità e cumulo di impieghi.

[6] Sul punto, l’articolo 53 rinvia all’ articolo 6, secondo comma, del Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri n. 117 del 1989 e all’l’articolo 1, commi 57 e seguenti, della Legge n. 662 del 1996.

[7]Gli Ermellini riportano, in quanto aderente al casus specifico, la Legge n. 412 del 1991 quale normativa rivolta ai medici del SSN. In particolare, consente ai medici di svolgere la libera professione sempre che ciò avvenga nel pieno rispetto di date condizioni, propriamente individuate dalla norma medesima. Nel dettaglio, l’articolo 4 nel regolamentare l’assistenza sanitaria al settimo comma statuisce che lo svolgimento dell’attività libero-professionale dei medici dipendenti del Servizio sanitario nazionale è compatibile con il rapporto unico d’impiego sempre che: “venga espletato al di fuori dell’orario di lavoro all’interno delle strutture sanitarie o all’esterno delle stesse, con esclusione di strutture private convenzionate con il SSN”.

[8]A sostegno di tale assunto normativamente positivizzato dal comma secondo, vi è da considerare il settimo comma dello stesso art. 53 T.U.P.I. a mente del quale è severamente vietato lo svolgimento di simili incarichi retribuiti. Difatti, quest’ultimo nel prevedere che i dipendenti pubblici non possano svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’ente di appartenenza statuisce espressamente che: “In caso di inosservanza di tale divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incrementare il fondo di produttività o di fondi equivalenti”.

[9] L’art. 6 D.L. n. 79 del 1997, conv. in Legge n. 140 del 1997 si rivolge ai soggetti pubblici e privati inserendo tra le diverse ipotesi violative delle fonti normative quelle in cui si siano avvalsi di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato da parte di dipendenti in assenza dell’autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza. E al riguardo precisa che oltre alle sanzioni per le violazioni tributarie o contributive, si applica “una sanzione di natura pecuniaria il cui ammontare deve essere doppio rispetto agli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma ai pubblici dipendenti”.

[10] Il comma 1- quinquies dell’articolo 3 del Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 stabilisce che: “Il direttore amministrativo e il direttore sanitario sono nominati dal direttore generale. Essi partecipano, unitamente al direttore generale, che ne ha la responsabilità, ala direzione dell’azienda, assumono diretta responsabilità delle funzioni attribuite alla loro competenza e concorrono, con la formulazione di proposte e di pareri, alla formazione delle decisioni della direzione generale”.

[11] Nella sentenza commentata, inoltre, è posto l’accento su un importante aspetto: la possibile correlazione in termini di assonanza tra quanto statuito dal comma decimo dell’art. 3-bis Decreto Legislativo n. 502 del 1992 e le normative specifiche/settoriali. Venendo riportate, sul punto, la disciplina positivitizzata nel decreto legislativo n. 39/2013 (in tema di titolari di incarichi dirigenziali) nonché quella presente nell’art. 4, settimo comma, della Legge n. 412 del 1991. In particolare, stando a quest’ultimo dato normativo, è previsto espressamente che: “Con il SSN può incorrere un unico rapporto di lavoro”. Rapporto, quest’ultimo, da ritenersi “incompatibile con ogni altro lavoro dipendente, pubblico o privato, e con altri rapporti anche di natura convenzionale con il Servizio sanitario nazionale”. Altresì, viene specificato che: “il rapporto di lavoro con il SSN è incompatibile con l’esercizio di ulteriori attività o con la titolarità o con la compartecipazione delle quote di imprese che possono configurare conflitto di interessi con il medesimo”.

[12] Principio affermato in ambito giurisprudenziale che funge da vera e propria “direttrice” in tema di riparto della giurisdizione poggia sulla valenza del c.d. petitum sostanziale dedotto in sede di giudizio. Più dettagliatamente, è ormai consolidata la tesi secondo cui occorre guardare all’oggetto della domanda al fine di individuare il giudice munito di giurisdizione in relazione ad una controversia. E al riguardo merita di essere menzionato un importante precedente giurisprudenziale rappresentato dalle Sezioni Unite della Cassazione Civile, ove i giudici di legittimità sono intervenuti in ordine alle controversie inerenti il diritto all’inserimento in una graduatoria. Nello specifico, trattasi della sentenza n. 17123 /2019 hanno statuito che l’accertamento della pretesa del ricorrente all’inserimento nella graduatoria richiede la competenza giurisdizionale del giudice amministrativo allorquando oggetto della domanda sia una richiesta di annullamento dell’atto amministrativo generale o normativo e solo quale effetto la sua rimozione. Ciò in quanto il petitum della domanda risiede nell’annullamento dell’atto amministrativo preclusivo al soddisfacimento dell’interesse del ricorrente ad essere inserito in quella determinata graduatoria.

Al contrario, andrà riconosciuta la competenza del G.O. nell’ipotesi in cui la domanda sia rivolta all’accertamento del diritto di un singolo docente ad essere inserito all’interno della graduatoria, sull’assunto che tale diritto trovi la propria fonte nella normazione primaria, eventualmente previa disapplicazione dell’atto amministrativo che potrebbe precluderlo.

[13] Gli ermellini, a tal proposito, riportano importanti precedenti giurisprudenziali a conferma di tale ragionamento. Nel dettaglio, nel discorrere di ipotesi derogatorie al generale criterio di ripartizione della competenza giurisdizionale in tema di liti di lavoro, evidenziano che spetta al giudice amministrativo la competenza ad intervenire su questioni aventi ad oggetto diretto e principale l’impugnazione di un atto di nomina o di altre delibere regionali di conferma o mancata conferma di un incarico, qual è quello di direttore generale di un Ente del Servizio sanitario nazionale. Ciò in quanto la posizione vantata dal soggetto assume la qualificazione di interesse legittimo e come tale è tutelabile innanzi all’autorità giurisdizionale amministrativa (sul punto: Cass. SS.UU. n. 8950/2017; SS. UU. n. 2055/2016).

[14] Cfr. Cassazione Civ. n. 1266/2020; Cass. n. 11949 del 2019; Cass. n. 3467 del 2019; Cass. n. 427 del 2019; Cass. n. 20880 del 2018; Cass. n. 28975-28979 del 2017; Cass. n. 8722 del 2017.

[15] Si veda Cassazione SS.UU. n. 486 del 2019.

[16] Sul punto, Cassazione SS.UU. n. 1869 del 2020.

[17] Al riguardo, nella pronuncia analizzata si rileva che l’illecito ha natura amministrativa e come tale va esclusa una sua natura fiscale/tributaria e/o finanziaria, dovendosi, al contrario, ritenere ricompreso nella disciplina del pubblico impiego contrattualizzato. E tenuto conto dei principi operanti in tema di illeciti amministrativi, ai fini della integrazione del presupposto psicologico e/o soggettivo è sufficiente che ricorra la colpa che si presume a carico del soggetto autore del comportamento/fatto materiale vietato; di guisa che è su quest’ultimo che ricade l’onere di dimostrare di aver agito secondo l’ordinaria diligenza. In tal senso si sono espresse numerose pronunce, tra le quali: Cassazione n. 30869 del 2019; Cassazione n. 2406 del 2016; Cassazione n. 13610 del 2007).

[18] Cfr. Cassazione n. 3460 del 2019.

[19] Sul punto, rilevano due sentenze della Corte Costituzionale: n. 159 del 2018 e n. 190 del 2017.

[20] Sul punto, vi è giurisprudenza concorde e maggioritaria: Cassazione SS.UU. n. 3882 del 1998; Cassazione n. 100 del 1999; Cassazione n. 21286 del 2015; Cassazione n. 26631 del 2007.

[21] A rilevare sul punto è la pronuncia del Consiglio di Stato n. 887 del 2020.

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