Analizzando il tema della responsabilità della figura del datore di lavoro, si profilano talune problematiche emerse in occasione dell a pandemia, specie durante la prima ondata, del virus Covid-19. In particolare, si profilano dubbi in ordine all’eventuale contagio da Covid-19, avvenuto all’interno della impresa o azienda. Infatti, i soggetti chiamati a lavorare – in primis tutto il personale medico e paramedico nonché tutti i soggetti impegnati in quelli che sono stati autenticati come servizi effettivamente essenziali – si sono scontrati con la dura realtà di essere sprovvisti totalmente o in parte dei presidi di protezione personale, stabiliti in caso di epidemia. Pertanto, delineando i confini nello stretto perimetro del diritto positivo, di sistema e speciale, la situazione emergenziale ha messo in luce taluni punti oscuri in materia, considerando che, in materia di dispositivi di protezione individuale e divisi in macro categorie come elencanti del decreto sicurezza n° 81/2008 T.U. Salute e Sicurezza sul lavoro, che coordina, all’interno di un unico testo, tutte le norme in materia di salute e di sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro e stabilisce una serie di interventi da osservare per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori.
In questo ambito, si inserisce anche il problema del lavoratore costretto a lavorare senza gli strumenti per proteggere se stesso e gli altri da eventuale contagio ovvero di essere dotato di strumenti poco idonei a resistere alla pandemia da Covid-19. L’analisi della problematica nel diritto positivo si coglie specie con riferimento agli obblighi professionali, ai fini di una riflessione sugli intricati rapporti tra danni alla persona del lavoratore e responsabilità del datore di lavoro e delle tutele del lavoratore, ove la pandemia datovi-19 è stata l’occasione, per taluni interventi del legislatore volti a disciplinare gli effetti sul rapporto di lavoro della malattia da coronavirus eventualmente contratta sul luogo di lavoro.
Profili generali della disciplina
Il datore di lavoro è gravato da una norma generale contenuta nell’articolo 2087 del codice civile, che stabilisce:
“L’ imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”
La struttura aperta dell’art. 2087 c.c. ha consentito alla norma, di adattarsi alle evoluzioni del progresso tecnico e scientifico, assolvendo la funzione di chiusura dell’intero sistema antinfortunistico. Tuttavia molti evidenziano il rischio che una norma “in bianco” così concepita presti il fianco ad addebiti di responsabilità secondo il senno del poi, per il solo fatto che l’evento lesivo si sia comunque verificato. La giurisprudenza di legittimità ha cercato di scongiurare tale pericolo affermando costantemente che la disposizione codicistica non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, essendone elemento costitutivo la colpa, intesa quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore (cfr. Cassazione con sentenza 3282 del 2020).
Dal dovere di prevenzione non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile, occorrendo invece che l’evento sia pur sempre riferibile a colpa dell’imprenditore, per violazioni di obblighi di condotta imposti da norme tipizzate o suggeriti dalla tecnica, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della possibile conoscenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Inoltre incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito un danno, l’onere di provare l’esistenza di esso, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra l’una e l’altro, mentre spetta al datore di lavoro, per liberarsi dalla responsabilità avente natura contrattuale, dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno stesso. Il perimetro costituzionale della tutela dei lavoratori è segnato anche dall’art. 38, co. 2, Cost., che realizza, ora, in termini solidaristici la sicurezza sociale. Nella ricognizione degli assetti del diritto vivente in tema di obblighi datoriali correlati alla tutela della persona nei luoghi di lavoro e delle conseguenti responsabilità per inadempimento, nel perimetro dell’art. 32 Cost. Come opera, e i limiti, gioca ruolo preponderante il criterio del bilanciamento del diritto alla salute con gli altri diritti costituzionalmente tutelati.
A partire, dalla Costituzione e dall’art. 32 che costruisce la salute come diritto fondamentale ed inviolabile dell’individuo, immediatamente operante nei rapporti tra privati e, sicuramente, anche quale schermo protettivo nei luoghi di lavoro, dove assume espressione significativa la personalità individuale. Tuttavia la Corte costituzionale (sentenza n. 85 del 2013) ci ha detto che neppure il diritto alla salute assurge a diritto “tiranno”, gerarchicamente sovraordinato, considerato che pur esso è partecipe di un inevitabile bilanciamento con principi fondamentali di carattere sistemico (sentenza n. 264 del 2012). Spetta al legislatore il compito di trovare il necessario contemperamento ed alla Corte costituzionale poi verificare la compatibilità di tali scelte legislative con il dettato della Carta fondamentale.
Il sistema legislativo si basa, tuttora, sull’art. 2087 c.c., che ha un contenuto flessibile e opera in stretta connessione con la normativa speciale. Tuttavia la configurazione della responsabilità del datore di lavoro, anche in campo civilistico, non è mai oggettiva.
Il datore di lavoro – ovvero in accordo, ove presenti e se nominati, con il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione ed il Medico Competente – deve dotare il lavoratore di tutti gli strumenti necessari affinché possa svolgere il proprio lavoro in totale sicurezza, al fine di non mettere in pericolo sé stesso e gli altri, ai fini della tutela di beni costituzionalmente quali la vita, l’integrità psico-fisica e la salute. La Cassazione (cfr. Cass. Pen. 18327/2019), ha ritenuto che il datore di lavoro riveste una posizione cd. di garanzia, che anche solo in caso di negligente uso dei DPI (dispositivi di protezione individuale), da parte dei lavoratori, ed è responsabile anche se adopera costanti controlli dell’impiego dei medesimi dispositivi di protezione, determinando una piena responsabilità di quel datore di lavoro, anche sotto il profilo penale, qualora, lo stesso non consegni gli idonei strumenti di protezione ai propri lavoratori o ne consegni taluni non sufficienti.
Sempre la Suprema Corte con la sentenza n°16749/2019, ha profilato una nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.), secondo cui, tale nozione: “non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma, in conformità alla giurisprudenza di legittimità, va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l’art. 2087 cod. civ., norma di chiusura del sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale dei diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro. Nella medesima ottica il datore di lavoro è tenuto a fornire i suddetti indumenti ai dipendenti e a garantirne l’idoneità a prevenire l’insorgenza e il diffondersi di infezioni provvedendo al relativo lavaggio, che è indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza e che, pertanto, rientra tra le misure necessarie “per la sicurezza e la salute dei lavoratori” che il datore di lavoro è tenuto ad adottare ai sensi dell’art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 626 del 1994 e degli artt. 15 e ss. del d.lgs. n. 81 del 2008 e s.m.i.”.
Infatti, argomentando la Corte di Cassazione, ha statuito che: il lavoratore potrebbe persino rifiutarsi di prestare la propria attività lavorativa qualora non venisse fornita da parte del datore di lavoro la giusta attrezzatura per svolgere in sicurezza il proprio lavoro, come previsto dalla Cass. 8911/2019: “…nell’ipotesi che l’inadempimento del lavoratore trovi giustificazione nella mancata adozione da parte del datore di lavoro delle misure di sicurezza che, pur in mancanza di norme specifiche, il datore è tenuto ad osservare a tutela dell’integrità psicofisica del prestatore.”
La disciplina emergenziale della responsabilità del datore di lavoro
Nel dettaglio, le misure per il contrasto al contagio da coronavirus, sono state indicate nei DPCM susseguitisi e da ultimo, all’articolo 2, comma 6, del DPCM 26 aprile 2020, che ha imposto a tutte le imprese che non hanno sospeso la propria attività di osservare il
“protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro” sottoscritto dal Governo e dalle parti sociali ed aggiornato lo scorso 24 aprile 2020”.
Tale documento impone, in primo luogo, in capo al datore di lavoro un obbligo di informazione, attraverso le modalità più idonee ed efficaci, circa le disposizioni delle Autorità e l’obbligo della rilevazione della temperatura. Oltre a ciò deve prevedere una seria di misure relative alla protezione individuale, alla igiene e sanificazione dei luoghi di lavoro (mettendo anche a disposizione degli erogatori di disinfettante) nonché alla gestione di eventuali persone sintomatiche e sulla sorveglianza sanitaria.
Ed invero, tali normative speciali, urgenti ed emergenziali, emanate sin dal marzo 2019 dal Governo italiano, hanno posto una serie di disposizioni volte, anche, alla tutela dei lavoratori, aumentando ancor di più la posizione di garanzia e la conseguente responsabilità in capo ai datori di lavoro, anche in connessione con la funzione del cd. documento di valutazione dei rischi. Infatti, i datori di lavoro, dovranno provvedere ad adottare le misure di controllo dello stato di salute dei lavoratori e evitare le situazioni di rischio contagio; assicurare il rispetto delle norme igieniche; informare i lavoratori sui rischi del contagio, sulle modalità di protezione e vigilare sul corretto utilizzo; fornire tutti gli strumenti idonei per la protezione personale, cercando di agevolare il lavoro da remoto o di evitare che i dipendenti svolgano dei lavori non assolutamente necessari o che prevedano spostamenti non dovuti sul territorio nazionale per venire il meno possibile a contatto con soggetti eventualmente contagiati; predisporre tutti quei accorgimenti per evitare la diffusione del contagio; segnalare alle autorità eventuali contagi da parte dei dipendenti.
Le responsabilità del datore di lavoro
Qualora il datore di lavoro non dovesse prevedere nessuna delle forme di tutela dei lavoratori ovvero si verifichi il contagio sul posto di lavoro per la mancanza o insufficiente dotazione dei DPI, potrebbe non solo incorrere nelle sanzioni risarcitorie di natura civilistica e nelle sanzioni di carattere speciale, anche di recente introduzione, ma risponderebbe dei delitti previsti dall’art. 589 e 590 c.p., con l’aggravante di non aver predisposto le misure atte alla tutela dei lavoratori. Ed invero, l’inosservanza delle norme per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus negli ambienti di lavoro può determinare una responsabilità civile e penale. La semplice mancata osservanza di una delle norme sopra citate sarebbe già in astratto sufficiente a determinare in capo al datore di lavoro una responsabilità penale nel caso di un dipendente che affermi di aver contratto la malattia (pur se asintomatico) sul luogo di lavoro.
Infatti, il datore di lavoro che non osserva le norme antinfortunistiche, infatti, è punibile ai sensi dell’art. 40 c 2 cp. Trattasi di reato omissivo improprio, o reato commissivo mediante omissione. Tale condotta acquisisce rilevanza causale solo in riferimento a quei soggetti che rivestono una posizione di garanzia, ovvero hanno l’obbligo di evitare il verificarsi del fatto giuridico, in virtù della particolare relazione che li lega al bene giuridico. Quindi solo qualora l’agente abbia un obbligo giuridico di impedire l’evento, si ha una corrispondenza tra il non impedire e il cagionare. A livello penalistico, il datore di lavoro risponde del reato di lesioni di cui all’art. 590 c.p. (salvo ipotesi di malattia lieve, guaribile in meno di 40 giorni, procedibile a querela), oppure di omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. qualora al contagio sia seguita la morte, oltre alla circostanza aggravante della violazione delle norme antinfortunistiche (art. 590, comma 3, c.p.). Per quanto concerne quest’ultima aggravante, nei delitti colposi derivanti da infortunio sul lavoro, non occorre che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell’art. 2087 c.c. che impone all’imprenditore di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.
Per quanto riguarda, l’onere della prova, la circolare n. 13/2020 dell’Inail chiarisce che in linea generale “Nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico. Per tali operatori vige, quindi, la presunzione semplice di origine professionale, considerata appunto la elevatissima probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus. A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari”.
Per tutti gli altri lavoratori, la copertura assicurativa è riconosciuta a condizione che la malattia sia stata contratta durante l’attività lavorativa stabilendo l’onere della prova a carico dell’assicurato. L’assicurazione Inail ha effetto anche per i casi di infortunio in itinere in cui rientrano gli incidenti da circolazione stradale, a prescindere dal mezzo utilizzato per raggiungere il posto di lavoro, ed i contagi avvenuti durante il percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro, in base alla valutazione medico-legale. Considerando, inoltre, che il periodo di tempo che intercorre tra il contagio ed il manifestarsi dei sintomi può arrivare fino a 14 giorni, risulta estremamente difficile sostenere per il lavoratore che il luogo del contagio possa essere individuato con certezza all’interno della sede di lavoro.
A causa della virulenza della malattia, infatti, sarebbe difficile escludere altre possibili cause di contagio quali la vicinanza ad altre persone positive nei luoghi di aggregazione necessaria come supermercati o mezzi pubblici o altrimenti il contatto con familiari conviventi contagiati. Al datore di lavoro potrebbe essere sufficiente dimostrare di aver adottato tutti i presidi indicati dalla legge per escludere in capo a sé ogni responsabilità o, per contro, sostenere che nei giorni prossimi all’ipotizzato contagio, il dipendente non abbia sempre e con rigore osservato le precauzioni imposte quali l’uso della mascherina o dei guanti. Appare quindi molto difficile per il lavoratore fornire la prova “al di là di ogni ragionevole dubbio” (art. 533 c.p.p.) e corroborare la tesi della colpevolezza del datore di lavoro escludendo con sufficiente certezza l’esistenza di altre cause di contagio esterne alla responsabilità datoriale.
L’eventuale contagio da coronavirus all’interno del luogo di lavoro non esenta il datore di lavoro dal risarcimento del danno anche in sede civilistica, ai sensi dell’art. 2043 cc ed il riparto dell’onere della prova è anche in questo caso a carico del danneggiato il quale deve provare il nesso di causalità fra l’evento dannoso di cui chiede il risarcimento e la condotta attiva o omissiva dei datore di lavoro.
Le sanzioni per le violazioni delle norme di prevenzione: Covid-19 quale infortunio
Un tempo la tutela contro gli infortuni e le malattie professionali era ispirata all’idea che il datore di lavoro, pagando il premio all’istituto previdenziale, fosse esonerato dalla responsabilità per l’evento dannoso cagionato come si trattasse di un’assicurazione privata. Con l’avvento della Costituzione l’assicurazione obbligatoria si distacca dal concetto statistico assicurativo di rischio, al quale era originariamente legata, per approdare ad una interpretazione dell’art. 38, co. 2, Cost., coordinata con l’art. 32 Cost., che ha lo scopo di garantire con la massima efficacia la tutela fisica dei lavoratori e di liberare costoro rapidamente dallo stato di bisogno determinato dall’infortunio o dalla malattia. Di poi, l’art. 42, co. 2, del decreto-legge “Cura Italia” (d.l. n. 18/ 2020, conv. in l. n. 27/2020), sin da subito ha sollevato, contestazioni, per l’assimilazione del contagio da Covid-19 all’infortunio sul lavoro.
Secondo la norma citata l’INAIL “assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato […] nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro” e sono state già illustrate le ragioni per le quali non sarebbe stato possibile negare la tutela antinfortunistica, anche secondo le regole già vigenti in virtù del d.P.R. n. 1124 del 1965, al lavoratore che fosse stato contagiato “in occasione di lavoro”, sulla scorta di una giurisprudenza che accetta una nozione ampia di essa, rilevando solo che l’attività lavorativa sia svolta secondo il contratto di lavoro e rientrando nella protezione assicurativa qualsiasi attività riconducibile funzionalmente a questa.
Sul fatto che la nuova disposizione non fosse indispensabile per garantire la copertura INAIL ha convenuto pressoché unanime dottrina, taluno evidenziando solo che la norma potesse essere utile per sgombrare il campo da eventuali dubbi interpretativi. Anche l’Istituto assicuratore, con due circolari in successione di aprile e maggio 2020, ha subito chiarito che l’art. 42 non presentava aspetti innovativi rispetto “all’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie”, perché l’INAIL, da sempre, tutela tali “affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro”, per cui occorreva ricondurre ad essi anche i casi di infezione da nuovo coronavirus occorsi a qualsiasi soggetto assicurato dall’Istituto.
In definitiva, l’art. 42 del “Cura Italia”, analizzato alla stregua del diritto positivo, è in larga parte riproduttivo di effetti che si sarebbero realizzati anche se non fosse stato emanato ed ha contenuti realmente innovativi davvero circoscritti e residuali, quali il mancato computo dell’infortunio eventualmente accertato ai fini del calcolo del premio aziendale (con aggravio della gestione assicurativa in favore delle imprese) e l’erogazione delle prestazioni anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare. In ogni caso l’art. 42 cit. interviene in un ambito che vale nel rapporto tra lavoratore ed INAIL, a fini indennitari, ed è estraneo ad ogni valutazione circa condotte eventualmente omissive del datore di lavoro che possano essere stata causa del contagio; la protezione assicurativa pubblica non è subordinata ad alcun accertamento di responsabilità datoriale, essendo sufficiente che l’evento si sia verificato in occasione di lavoro, a prescindere che l’imprenditore abbia o meno rispettato le misure prescritte, di modo che non possono essere confusi i presupposti per la responsabilità civile o penale del datore di lavoro con quelli previsti per l’erogazione di un indennizzo INAIL.
L’Inail è intervenuta nel chiarire che il virus Covid-19 è un infortunio “virulento” equiparato ad un infortunio “violento”. Infatti, contrarre il Covid sul luogo di lavoro è stato ritenuto dall’INAIL, l’istituto previdenziale nazionale per gli invalidi del lavoro, un infortunio, ma ciò non significa necessariamente, che sia colpa del datore di lavoro. Nel caso abbia rispettato tute le regole, anche relative alla formazione dl lavoratore, l’obbligo di prestare attenzione spetta allo stesso lavoratore. In detto riconoscimento, del Covid come infortunio, qualora, il lavoratore sia infettato mentre si trova al lavoro, ne fa discendere che l’assenza dal lavoro sarà considerata allo stesso modo che se il lavoratore avesse subito un incidente, e che nel caso gli effetti di questo infortunio si protraggano nel tempo e magari abbiano anche degli effetti irreversibili. gli sarà riconosciuto un vitalizio o una pensione di invalidità.
Con la nota 17 marzo del 2020 l’INAIL ha chiarito che il Covid è un infortunio e non una malattia professionale. Il presupposto da cui parte è che la causa violenta che deve precedere l’infortunio è individuata nell’agente patogeno del coronavirus. Perché si sia ammessi alla tutela INAIL sarà necessario dimostrare la correlazione tra il danno e il lavoro. In alcuni settori dove esiste un rischio specifico di contagio, si parla di rischio specifico e vi è la presunzione di esposizione professionale. Negli altri casi, dove il rischio non è strettamente legato al lavoro svolto si condurranno delle indagini per valutare la correlazione. Di solito viene considerato infortunio sul lavoro anche quello che non avviene direttamente mentre si svolgono le proprie mansioni, ma anche quello che avviene mentre si percorre il tragitto da casa verso il posto di lavoro e viceversa. Lo stesso criterio è applicato anche in caso di infortunio derivante da Covid.
L’INAIL spiega che per infortunio in itinere non si intendono solo gli incidenti della circolazione stradale, ma tutti quelli occorsi al lavoratore assicurato durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello di lavoro, anche gli eventi di contagio. Come per gli altri infortuni, così, le indagini dell’INAIL al fine del riconoscimento dell’infortunio sul lavoro riguarderanno anche la tipologia del mezzo utilizzato, il percorso e la frequenza degli spostamenti, e se c’era la possibilità di scegliere un mezzo di trasporto meno pericoloso. In genere L’INAIL nel fare queste valutazioni per esempio non riconosce l’infortunio nel caso l’incidente sia avvenuto su un percorso che non sia il più breve possibile, nel caso si sia seguita una strada diversa dalla solita scelta, e se c’era la possibilità di scegliere un mezzo di trasporto meno pericoloso. Nella medesima circolare l’INAIL ha stabilito il riconoscimento di un sussidio economico dei lavoratori, che con una propria circolare l’INAIL, ha provveduto a considerare il lavoratore contagiato dal Coronavirus sul proprio posto di lavoro come ricadente in una malattia professionale e ha predisposto una indennità in favore del lavoratore malato e la corresponsione di una somma una tantum in favore dei parenti del lavoratore vittima del coronavirus.
Al verificarsi dell’infortunio, per il lavoratore segue l’iter previsto dalla legge: il datore di lavoro deve impegnarsi a conservare il posto, fino a completa guarigione, a maggior ragione se l’infortunio è stato causato da una mancanza del datore stesso. Il sistema previdenziale previsto per gli infortuni sul lavoro, infatti, si basa sull’articolo 10 del Testo unico infortuni secondo cui l’assicurazione Inail esonera il datore di lavoro da responsabilità civili solo se non abbia ricevuto una condanna penale per il fatto da cui si è originato l’infortunio. Sussistono, quindi, dei casi in cui il lavoratore può rivalersi sul datore di lavoro: se ha violato le norme sulla prevenzione, se è già stata emessa sentenza di condanna o laddove il giudice abbia liquidato un danno superiore a ciò che dovrà erogare l’Inail, per citare alcuni esempi. Tuttavia, vista la situazione particolarmente delicata ed emergenziale – «per evitare un’imputazione di responsabilità quasi oggettiva alle imprese» – è stato raggiunto un compromesso per definire con equilibrio le responsabilità. Il 14 marzo 2020, infatti, in accordo con il Governo, sindacati e imprese hanno firmato un protocollo che definisce l’imputabilità del datore di lavoro solo «in caso di violazioni della legge o di obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche che si possono rintracciare – per il Covid – nelle linee guida stilate da Governo e regioni». Questo anche per via dell’oggettiva difficoltà nel garantire che gli ambienti di lavoro siano completamente privi di rischi.
Responsabilità cd. automatica del datore di lavoro per violazione delle misure anticontagio e quali responsabilità per il lavoratore?
I dubbi interpretativi si sono profilati qualora uno dei lavoratori all’interno degli uffici, settori, o cantieri contragga il virus Covid-19. Infatti, la giurisprudenza si è posta il quesito se la responsabilità del datore di lavoro scatta in modo pressoché automatico, qualora egli non abbia messo in atto tutti i provvedimenti necessari a mettere in sicurezza il posto di lavoro, oppure se proprio l’esistenza di una fase emergenziale, di un virus ancora per certi aspetti sconosciuto, caratterizzato da una alta diffusività ed incontrollabilità, possa alleggerisce le sue responsabilità. E di contro, è possibile che lo stesso lavoratore a essere considerato responsabile, nel caso non adotti tutte le cautele prescritte dalla legge, ricadendo su costui il dovere di risarcire il danno provocato al datore di lavoro, all’azienda-impresa o i propri colleghi che ha infettato?. La Corte di Cassazione, chiamata a decidere in merito all’automatica responsabilità del datore di lavoro in caso da infortunio da Covid sul posto di lavoro ha deciso nel senso che non ci sia una automatica correlazione tra infortunio da Covid e responsabilità del datore.
Con l’ordinanza 10404 del giugno 2020 ha stabilito che “affinché vi sia responsabilità datoriale è necessario un inadempimento rispetto alle norme speciali contenute nei regolamenti e nei protocolli governativi e regionali speciali“. Lo stesso INAIL ha precisato con la circolare 22 del 20 maggio 2020 che il riconoscimento dell’origine professionale del contagio è totalmente avulso da ogni valutazione in ordine all’imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che possono essere stati causa del contagio. In ordine poi al nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’infortunio da Covid-19, la nostra giurisprudenza ha statuito che: “il nesso di causalità tra comportamento del datore di lavoro e infortunio da Covid è dimostrato tutte le volte che il datore di lavoro non abbia adottato tutte le misure di sicurezza che sono prescritte dai regolamenti e dai protocolli specifici per quel tipo di attività”.
Allo stesso modo è considerato responsabile se sia stato lo stesso datore di lavoro a impartire un ordine che eseguito in modo preciso dal subordinato ha poi avuto come effetto l’infortunio da Covid. La Cassazione ha più volte escluso che il dipendente sia corresponsabile dell’infortunio da Covid nel caso in cui esegua un preciso ordine. Con la sentenza della sezione del lavoro numero 4619 del 2020 la Corte di Cassazione ha precisato, che: “la responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio, è esclusa solo se il lavoratore ha tenuto un comportamento del tutto anomalo e imprevedibile, mentre la condotta imprudente resta irrilevante se attuativa di un ordine e svolta sotto il controllo del datore di lavoro”.
In sostanza, si presuppone che il lavoratore non abbia la possibilità di valutare se un ordine che gli sia stato imposto possa essere a rischio di infortunio da Covid. Altro problema, oggetto di esame da parte della giurisprudenza, nel valutare la responsabilità del datore di lavoro, in caso di infortunio da Covid, nell’ottica dei principi di correttezza e buona fede,è stata la cura che ha avuto nel formare e nell’informare il lavoratore dei rischi connessi al lavoro. La Cassazione, ha ribadito che dell’infortunio risponde il datore di lavoro nel caso non abbia formato adeguatamente i propri collaboratori. Questo fatto, da solo basta a rendere giuridicamente irrilevante il comportamento imprudente del lavoratore.
Infatti, la Suprema Corte, con la sentenza 30679 del 2019 ha stabilito che: “non è possibile addossare al lavoratore l’ignoranza delle circostanze che dovevano essere oggetto di informativa o di formazione, ai fini di fondare una colpa idonea a concorrere con l’inadempimento datoriale e tale da ridurre ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile la misura del risarcimento dovuto”.
L’ INAIL ha poi emesso un protocollo stabilendo l’obbligo di informare sia i lavoratori che chiunque entri in azienda circa le disposizioni delle autorità. L’obbligo è quindi anche quello di tenersi aggiornati e modificare e integrare le informazioni fornite a seconda delle disposizioni di sicurezza previste. Inoltre regolamentare le modalità di ingresso in azienda dei lavoratori, dei fornitori esterni, dei trasportatori e dei visitatori. Pertanto, ogni azienda deve prevedere un programma di accesso personalizzato sulla base del numero dei soggetti che accedono ai locali, cercando se possibile di scaglionare l’ingresso. Effettuare pulizia giornaliera e sanificazione periodica dei locali degli ambienti delle postazioni di lavoro e delle aree comuni di svago. Imporre che le persone presenti in azienda adottino tutte le precauzioni igieniche, in particolare per le mani e usino dispositivi di protezione individuale. Far proseguire la sorveglianza sanitaria che si svolge in due direzioni: l’individuazione dei soggetti che abbiano dei sintomi e che quindi possano essere potenziali portatori di contagi e la formazione, fatta anche attraverso il medico competente per far diventare automatici i comportamenti virtuosi o best practices.
Le sanzioni derivanti dalla violazione delle norme di prevenzione degli infortuni da Covid-19
Prima facie, la norma generale in tema di responsabilità del datore di lavoro, è l’art. 2087 Codice Civile, che obbliga il datore ad adottare tutti gli strumenti necessari per garantire l’integrità fisica del lavoratore. Se questo principio fosse applicabile in termini assoluti il datore di lavoro sarebbe obbligato ad assumere ogni cautela possibile ed immaginabile per evitare qualunque tipo di pericolo al dipendente. Ma la Corte di Cassazione afferma con la sentenza 3282 del 2020 che non si può ritenere responsabile il datore per ogni e qualsiasi tipo di infortunio. Non si può pensare che i sistemi di sicurezza adottati fossero necessariamente inadatti solo perché si è verificato un infortunio. Occorre invece che l’infortunio sia derivato dal mancato rispetto di obblighi precisi che la legge pone in capo al datore. Ciò vale anche se l’infortunio, così come definito dalla circolare dell’INAIL, consiste nell’aver contratto il Covid sul luogo di lavoro. Il datore sarà responsabile e tenuto al risarcimento solo se si dimostra una sua precisa responsabilità, quali il non aver adottato tutte le misure di contenimento del contagio che la legge pone a suo carico, e per le normative Covid che il datore deve rispettare si rimanda al Decreto Liquidità, convertito in Legge 40 del 2020.
La legge stabilisce delle sanzioni specifiche che vengono applicate nel caso non si rispettino le norma appositamente disposte per contenere e prevenire gli infortuni sul lavoro da Covid. Si tratta innanzitutto di una sanzione amministrativa che prevede il pagamento di una multa da un minimo di 400 a un massimo di 3.000 euro, salvo che il fatto non costituisca un reato. Inoltre la chiusura dell’azienda nel caso non siano stati rispettati gli obblighi di garantire il distanziamento sociale e dell’uso dei mezzi di protezione individuali specifici per evitare un infortunio di Covid. Tuttavia, oltre a queste misure specifiche emergenziali, il datore di lavoro deve comunque continuare a rispettare tutte le regole di carattere generale che sono stabilite con il decreto legislativo 81 del 2008. In particolare la norma prevede l’obbligo di adottare adeguati livelli di protezione. Livelli di protezione che evidentemente vanno calibrati da ogni azienda a secondo del rischio intrinseco nell’attività svolta, ma anche tenendo conto per esempio della possibilità che ci possano essere contagi con conseguente infortunio da Covid.
La violazione di queste prevede l’arresto da tre a sei mesi e la multa fino a 7.014 euro. Sanzionato anche chi non fornisca ai lavoratori gli idonei dispositivi di protezione individuale con l’arresto fino a quattro mesi o con l’ammenda fino a 6.576 euro. Laddove, tutti questi obblighi sono stati assolti, sorge in capo al lavoratore, l’onere di usare i Dispositivi di Protezione Individuali, ossia di tutte le attrezzature da indossare come per esempio il casco o le scarpe anti infortunistiche che servono per evitare o limitare incidenti sul lavoro. Tra questi rientrano anche le mascherine o i guanti, strumenti ritenuti idonei al fine di contenere i contagi re gli infortuni da Covid. In capo al lavoratore sorge l’obbligo di usarli in modo corretto, non alterarli e mantenerli in buone condizioni. Qualora, nel caso in cui, nonostante la giusta formazione, adempiuta dal datore di lavoro, il lavoratore non si adegui alle regole, la legge 81 del 2008 prevede un’ammenda che può arrivare fino a 600 euro, ma già lo stesso datore di lavoro può applicare delle sanzioni pecuniarie e nel caso si arrivi a violazioni persistenti e gravi può arrivare anche al licenziamento.
Conclusioni
L’inosservanza delle norme per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro potrebbe determinare in capo al datore di lavoro una responsabilità civile e penale, ma le difficoltà intrinseche nel circoscrivere con certezza il luogo di contagio nel contesto lavorativo, agevolato dalla difficoltà legate all’onere della prova e dal lungo periodo in cui i sintomi del virus possono manifestarsi, non deve essere motivo di inosservanza o di allentamento delle misure imposte dalle norme. Si tratta, infatti, prima che di un obbligo giuridico di un dovere morale dei lavoratori tutti (datori compresi) di rispettare e far rispettare le norme dettate dall’ordinamento. In definitiva, il rapporto trilatero, con la presenza anche dell’Inail, sul piano contributivo-assicurativo e indennitario-risarcitorio, si ripartiscono i rispettivi ruoli: da un lato, il datore di lavoro, su cui grava la parte più consistente di contributi, il quale, per contropartita, viene di regola esonerato dalla responsabilità civile conseguente all’infortunio; dall’altra, l’INAIL, che paga le rendite secondo un ammontare predeterminabile, con eventuale diritto di regresso verso il datore penalmente responsabile o di surroga verso i terzi; infine il lavoratore, il quale, con una ridotta partecipazione agli oneri contributivi, viene a fruire delle prestazioni fornite dall’Istituto in modo quasi automatico.
Ne risulta un articolato meccanismo in cui la tutela indennitaria riconosciuta dall’istituto assicuratore pubblico concorre con la tutela risarcitoria dovuta dal datore per i danni patrimoniali e non. Con la finalità di prevenzione, anche per garantire la possibilità di continuare a mantenere aperte le attività economiche, produttive e sociali hanno assunto, sin dall’inizio, un’importanza fondamentale i «protocolli» sicurezza anti-contagio, hanno contrassegnato la decretazione d’emergenza, sino a trovare menzione in fonti di rango legislativo che ne sanciscono, senza più equivoci, l’efficacia normativa generalizzata. Innanzitutto essi sono stati lo strumento utilizzato dall’autorità pubblica per consentire attività che risultavano pericolose per il solo fatto che, nell’esercizio di esse, venivano a contatto più persone; si subordinava quindi la loro prosecuzione all’adozione delle misure di contenimento previste dai protocolli condivisi, tanto che la violazione delle cautele ivi indicate determinava, come sanzione, la sospensione amministrativa dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza. In tal modo si è agevolata la graduale ripresa delle attività produttive, garantendo livelli sufficienti di tutela. Non può negarsi, poi, la capacità dei protocolli di orientare le condotte dei datori di lavoro nell’assolvimento dell’obbligo di sicurezza, in un momento in cui anche la scienza ufficiale era in difficoltà nel fronteggiare un fenomeno del tutto inedito; da subito la dottrina ha rilevato che – in tempo di Covid-19 – il perimetro della responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. doveva ragionevolmente dirsi contenuto nell’obbligo di diligente adempimento delle specifiche misure di sicurezza tempo per tempo definite dai protocolli, quali best practices secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico per la prevenzione del contagio negli ambienti di lavoro.
Bibliografia
AMENDOLA F., “Covid-19 e responsabilità del datore di lavoro – ovvero delle illusioni percettive in tempo di pandemia”, Cacucci Editore, 2021.
FASCENDINI S., Quando per infortunio da Covid risponde il datore di lavoro.
GALLI R., Novità normative e giurisprudenziali di diritto civile, diritto penale e di diritto amministrativo, in Appendice di aggiornamento ai nuovi corsi., Wolters Kluwer, 2020.
Iadecola L., Responsabilità del datore di lavoro in caso di contagio da Covid-19.
Malara G., Coronavirus e la responsabilità del datore di lavoro.
Sentenze citate:
- Corte costituzionale sentenza n. 264 del 2012
- Corte costituzionale sentenza n. 85 del 2013
- Cassazione sez. Pen. n° 18327/2019
- Cassazione sentenza n° 16749/2019
- Cassazione ord. n°10404 /2020
- Cassazione sentenza sez. lav. n° 4619 /2020
- Cassazione sent. n° 30679/2019
- Cassazione sent. n° 3282/2020