Le Sezioni Unite della Cassazione civile, con la sentenza del 9 agosto 2018 n. 20684, hanno stabilito che la forma dei contratti stipulati dalle aziende speciali ex art. 114 D. Lgs. 267/2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) è tendenzialmente libera, dovendosi considerare tali aziende alla stregua di un qualsiasi operatore privato ed essendo quindi inapplicabili gli artt. 16 e 17 del r. d. 2440/1923 (Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato).
Si è così data risposta all’ordinanza interlocutoria n. 3566 del 14 febbraio 2018, con la quale è stato chiesto “se la volontà contrattuale delle aziende speciali partecipate dallo Stato o dagli enti pubblici debba (o meno) essere necessariamente trasfusa in forma scritta”.
La questione
Le norme di cui agli artt. 16 e 17 del r. d. 2440/1923 impongono dei particolari oneri redazionali in capo alla pubblica amministrazione per l’attività contrattuale da questa posta in essere.
Tali norme sono state costantemente interpretate[1] come impositive del requisito della forma scritta ad substantiam ai fini della validità del contratto stipulato dall’amministrazione. Si tratta, dunque, di una ipotesi speciale di forma scritta, a pena di nullità del contratto, indicata dalla legge e richiamata dall’art. 1350, co. 1, n. 13), c.c.
La forma scritta dei contratti stipulati dalla pubblica amministrazione, in particolare, si impone al fine di assoggettare l’attività pubblica a controllo contabile, finanziario e di legittimità. In tal modo è assicurata la trasparenza dell’operato amministrativo ed è consentita la verifica dell’efficienza e dell’efficacia dell’attività compiuta dall’ente pubblico.
Tale ratio di controllo, sottesa alla normativa di cui al r. d. 2440/1923, pone quindi per l’amministrazione un vincolo di forma, in contrapposizione alle regole del diritto comune.
Nel diritto privato, com’è noto, vige infatti il principio di tendenziale libertà delle forme di manifestazione della volontà, non dovendo l’ordinamento in tale contesto perseguire quei valori di trasparenza, controllo e buon andamento che informano l’attività amministrativa. Il negozio concluso tra privati deve quindi rivestire la forma scritta a pena d’invalidità solo se ciò sia disposto da una norma puntuale.
La predicata libertà delle forme rende possibile che un contratto tra privati si perfezioni anche se la manifestazione di volontà sia espressa per facta concludentia. E’ inoltre possibile la stipula del contratto secondo quei meccanismi di perfezionamento disciplinati dal codice civile che presuppongono una attività esecutiva, in luogo di una dichiarazione espressa (per esempio, conclusione mediante inizio di esecuzione, art. 1327 c.c.).
Imporre il requisito di forma scritta ad substantiam per la pubblica amministrazione esclude quindi la rilevanza negoziale di comportamenti taciti: il contratto non potrà essere concluso in base a comportamento significante.
Ambito oggettivo di applicazione del R. D. 2440/1923
Pare opportuna una precisazione preliminare sull’ambito oggettivo di applicazione della disciplina del r. d. 2440/1923.
Il vincolo della forma scritta si applica ai contratti regolati dal diritto speciale, e cioè ai contratti che richiedono una procedura di evidenza pubblica ai sensi del D. Lgs. 50/2016 (Codice dei contratti pubblici).
Le prescrizioni degli artt. 16 e 17 del r. d. 2440/1923 si applicano inoltre ai contratti pubblici in senso stretto, stipulati dall’amministrazione nel perseguimento del fine pubblico (ad es. accordi di programma; accordi sostitutivi di provvedimento ex art. 11 l. 241/1990).
Il requisito della forma scritta ad substantiam investe, infine, anche la stipula dei contratti regolati dal diritto privato, profilo che in questa sede interessa maggiormente. Si tratta di negozi conclusi tra l’ente e un qualsiasi operatore privato (ad esempio un contratto di consulenza), disciplinati dalle regole del diritto comune, fatte salve eventuali specifiche deroghe contenute nella disciplina pubblicistica (si pensi, ad esempio, alle norme in materia di contabilità di Stato).
L’amministrazione, com’è noto, ben può stipulare tali tipologie di contratti là dove non agisca in veste autoritativa, ai sensi del disposto dell’art. 1, co. 1-bis, l. 241/1990. Anche in tali evenienze può dirsi sussistente la ratio del r. d. 2440/1923 di controllo sull’operato della p.a. e sulle modalità di spesa del danaro pubblico.
Il controverso ambito soggettivo di applicazione
Il vero problema interpretativo sollevato dalla normativa del r. d. 2440/1923 concerne la delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione: non risulta infatti specificata la nozione di pubblica amministrazione cui le disposizioni in discorso debbano applicarsi.
Il problema si pone perché non si rinviene nell’ordinamento una definizione normativa unitaria e onnicomprensiva di pubblica amministrazione, a ragione dell’estrema varietà tipologica di enti che esercitano funzioni lato sensu pubblicistiche.
In particolare, ai sensi dell’art. 1, co. 1-ter, l. 241/1990 è ormai possibile che dei soggetti formalmente privati esercitino funzioni pubbliche, ed è quanto avviene, ad esempio, con il fenomeno delle cd. società a partecipazione pubblica, oggi disciplinate dal D. Lgs. 175/2016[2].
Ecco perché è invalsa una nozione cangiante e funzionale di pubblica amministrazione.
Talvolta il legislatore, al fine di assoggettare un ente ad una specifica normativa pubblicistica, dispone un elenco esaustivo con cui ne delimita l’ambito soggettivo di applicazione (per esempio, art. 1, co. 2, D. Lgs. 165/2001).
Altre volte, invece, si specifica con norma di legge che un dato complesso di regole pubblicistiche è sì applicabile anche ai soggetti formalmente privati, ma limitatamente all’attività di interesse pubblico svolta. E’ quanto avviene, ad esempio, in materia di accesso procedimentale (art. 22, co. 1, lett. e, l. 241/1990), di accesso civico e universale (art. 2-bis, co. 2 e 3, D. Lgs. 33/2013) o di procedure di evidenza pubblica, mediante l’impiego della nozione di organismo di diritto pubblico (art. 3, co. 1, lett. d, D. Lgs. 50/2016).
La normativa del r. d. 2440/1923 non contiene però alcuna disposizione che chiarisca quali enti siano soggetti al requisito di forma scritta ad substantiam. Nel r. d. non vi è infatti né un elenco esaustivo che delimiti l’ambito soggettivo di applicazione, né una norma che espressamente estenda il vincolo di forma anche agli enti societari, in virtù dell’attività pubblicistica espletata.
Sicché sorge il problema se tale vincolo gravi anche in capo ai cd. enti pubblici economici. Ci si riferisce a quei soggetti che perseguono in parte fini pubblicistici e che sono partecipati dagli enti pubblici in senso stretto, ma che, al contempo, sono organizzati in forma societaria, operano sul mercato in regime concorrenziale e la cui attività è volta allo scambio di beni o alla produzione di servizi secondo modalità imprenditoriali.
L’impostazione giurisprudenziale è di assoggettare, in generale, gli enti pubblici economici alle regole del diritto privato, salvo l’applicazione di particolari discipline pubblicistiche che espressamente deroghino il diritto comune.
Tale impostazione è condivisa dal legislatore in materia di società a partecipazione pubblica: l’art. 1, co. 3, D. Lgs. 175/2016, infatti, sancisce che, tranne espressa deroga con disposizione dello stesso decreto, alle società a partecipazione pubblica si applicano le norme generali di diritto privato.
La tendenza in discorso si spiega perché l’imposizione delle regole pubbliche (e del loro maggior rigore) sarebbe in contrasto con le esigenze di celerità e di speditezza che caratterizzano l’operato dei privati nei contesti concorrenziali. Una siffatta imposizione, quindi, si rivelerebbe in contrasto con il valore della concorrenza nell’esercizio di attività imprenditoriali.
L’impostazione descritta vale anche per il requisito della forma scritta dei contratti, con una particolarità aggiuntiva.
Nell’ottica di favorire le condizioni di concorrenza, se si imponesse l’ossequio della forma scritta all’ente, formalmente organizzato in forma societaria, anche nel compimento di attività commerciali o industriali, si assegnerebbe al soggetto pubblico una ingiustificata posizione di superiorità rispetto al privato.
L’ente, infatti, potrebbe concludere un contratto con un operatore privato secondo l’uso del commercio, non osservando la forma scritta (o persino mediante comportamento concludente), salvo poi eccepire l’invalidità del negozio per il difetto di un requisito prescritto dalla legge a pena di nullità (art. 1350, co. 1, n. 13, c.c. e artt. 16 e 17 r. d. 2440/1923).
Insomma, là dove ci si trovi di fronte ad un soggetto organizzato in forma privata, il quale svolga una attività di tipo commerciale, si sostiene la prevalenza del principio di concorrenza e di parità con il contraente, assoggettando il contratto stipulato alle comuni regole privatistiche, salvo espresse deroghe pubblicistiche.
La natura giuridica delle aziende speciali
Si rende necessario a questo punto fornire una qualificazione giuridica dell’azienda speciale, al fine di comprende se i negozi da questa stipulati debbano rispettare o meno i requisiti di forma richiesti dagli artt. 16 e 17 del r. d. 2440/1923.
Occorre, quindi, chiedersi se l’azienda speciale sia un ente pubblico in senso stretto o un ente pubblico economico.
L’azienda speciale è un ente strumentale dell’ente locale partecipante, costituito per provvedere alla gestione di servizi pubblici che abbiano per oggetto la produzione di beni e di attività rivolte a realizzare fini sociali (art. 112 D. Lgs. 267/2000).
L’esistenza di tali soggetti nel nostro ordinamento risale alla l. 142/1990, con cui si è abolita la precedente figura delle “aziende municipalizzate”, pacificamente considerate organo della p.a. costituente.
Per la gestione dei servizi pubblici locali, il legislatore del ’90 ha invece delineato la figura della azienda speciale, soggetto dotato di autonomia imprenditoriale e quindi maggiormente idoneo a prestare dei servizi anche in regime concorrenziale con altri operatori privati. La normativa citata è stata poi trasfusa nel citato D. Lgs. 267/2000.
La costituzione delle aziende speciali è utilizzata quindi dagli enti locali quando questi intendano prestare dei servizi pubblici e non scelgano né di gestirli in autonomia (massima internalizzazione dell’attività) né di affidarli a soggetti terzi (massima esternalizzazione).
L’art. 114 del D. Lgs. 267/2000 disciplina le aziende speciali, ma non contiene elementi dirimenti nel senso della classificazione di queste quali enti pubblici in senso stretto o, piuttosto, quali enti pubblici economici.
Un primo orientamento giurisprudenziale, in passato, ha qualificato l’azienda speciale alla stregua di un ente pubblico non economico, valorizzando le caratteristiche della strumentalità di queste rispetto all’ente locale conferente e del controllo da quest’ultimo espletato[3].
La strumentalità dell’azienda speciale, infatti, dipende dalla circostanza che questa deve svolgere il servizio pubblico determinato dall’ente locale costituente. Inoltre, l’ente locale approva lo statuto dell’azienda, decide in ordine alle modalità di nomina e di revoca dei suoi amministratori, conferisce il capitale iniziale di dotazione e determina finalità e indirizzi dell’attività della azienda, esercitando poteri di vigilanza e di direzione (art. 114, commi 1, 3 e 6 D. Lgs. 267/2000).
Le caratteristiche citate, secondo l’orientamento in commento, consentono di qualificare l’azienda speciale come una articolazione organizzativa dell’ente locale, direttamente riferibile a quest’ultimo.
La conseguenza, quindi, è che l’azienda speciale è da considerarsi amministrazione in senso stretto, come tale gravata dal vincolo formale di cui agli artt. 16 e 17 r. d. 2440/1923 nell’espletamento di attività negoziale.
Un diverso orientamento, invece, è giunto a conclusioni diametralmente opposte: l’azienda speciale è un soggetto formalmente privato, dotato di autonomia imprenditoriale, la cui attività negoziale deve considerarsi disciplinata dalle comuni regole del diritto privato[4]. Si tratterebbe, quindi, di enti pubblici economici.
Ciò si desumerebbe dalla circostanza che l’azienda speciale è specificamente indicata quale soggetto imprenditoriale, iscritto nel registro delle imprese, dotato di un proprio statuto e sottoposto espressamente ai principi contabili del codice civile (art. 114, co. 1, D. Lgs. 267/2000).
Operando quale soggetti imprenditori, l’azienda speciale dovrebbe quindi soggiacere al principio di tendenziale libertà delle forme proprio del diritto privato. Ciò all’evidente fine di assicurare le condizioni di celerità operativa e di concorrenza rispetto ai comuni operatori del mercato.
In tale contrasto intervengono le Sezioni Unite civili della Cassazione, le quali definiscono l’azienda speciale “una figura a struttura composita o ibrida, caratterizzata dall’evidente compresenza e dalla reciproca interazione di elementi marcatamente pubblicistici e pienamente privatistici[5]”.
Pur non prendendo una posizione univoca sulla natura giuridica delle aziende speciali, la Cassazione riconosce che queste svolgono una attività imprenditoriale in senso proprio, per cui è necessario che le stesse operino in condizioni di parità rispetto agli altri concorrenti privati del mercato.
Ne consegue, quindi, che l’attività negoziale dell’azienda speciale non ha motivo di soggiacere ai vincoli di forma imposti dagli artt. 16 e 17 del r. d. 2440/1923 (vincoli d’altronde incompatibili con le esigenze di celerità e speditezza del mercato), non rinvenendosi in tal caso quella ratio di garanzia e di controllo che informa lo stesso decreto.
Il principio di diritto
Alla luce di quanto rilevato, le Sezioni Unite hanno dunque pronunciato il seguente principio di diritto:
“in dipendenza della natura imprenditoriale dell’attività svolta dall’azienda speciale di ente territoriale e della sua autonomia organizzativa e gestionale rispetto all’ente di riferimento, l’azienda stessa, pur appartenendo – se non altro a diversi ed ulteriori fini e rimanendo soggetta ai controlli ed alle altre forme di funzionalizzazione agli scopi istituzionali dell’ente di riferimento espressamente previsti – al sistema con il quale la pubblica amministrazione locale gestisce i servizi pubblici che abbiano per oggetto produzioni di beni ed attività rivolte a soddisfare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali, non può qualificarsi, ai fini della normativa sulla forma dei contratti di cui agli artt. 16 e 17 r. d. 18 novembre 1923, n. 2440, pubblica amministrazione in senso stretto; con la conseguenza che per i suoi contratti, salva l’applicazione di speciali discipline per particolari categorie, non è imposta la forma scritta ad substantiam, né sono vietate la stipula per facta concludentia o mediante esecuzione della prestazione ex art. 1327 c.c., ma vige, al contrario, il principio generale della libertà delle forme di manifestazione della volontà negoziale”.
[1] Si vedano in tal senso, ad esempio, le recenti Cass. 23 gennaio 2018, n. 1549; Cass. 28 giugno 2018, n. 17016.
[2] Su cui vedasi G. Iorio, Società partecipate alla luce delle novità contenute nel D. Lgs. 175/2016, in Questa Rivista, 13 settembre 2018.
[3] In tal senso, Cons. St., sez. V, 20 febbraio 2014, n. 820; Cass., SS. UU., 19 dicembre 2014, n. 26939.
[4] Cass., SS. UU., 6 giugno 1997, n. 5085.
[5] Cass., SS. UU., 9 agosto 2018, n. 20684, § 42.